Fatto e Diritto
Con decreto del GIP del Tribunale di Cremona, emesso in data 19.03.07 ed eseguito in data 28.03.07, veniva disposto il sequestro preventivo avente ad oggetto i beni mobili appartenuti allo studio professionale del dott. B., nei confronti di B.I., B. S. e A.A., indagati per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 646 cod. pen. i primi due e per i reati di cui agli artt. 81 cpv e 648 cod. pen. l’ultimo.
Il Tribunale di Cremona, in composizione collegiale in funzione del Tribunale del Riesame, in data 06.04.07 confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP e condannava i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali. In data 04.05.07, 1 difensori di fiducia degli imputati, Avv. Francesco Arata, Avv. Antonella Zoni del foro di Milano, e Avv. Cesare Gualazzini del foro di Cremona, proponevano ricorso per cassazione, articolando i motivi che in seguito saranno esaminati. All’udienza odierna, dell’8 novembre 2007, veniva avanzata istanza di riunione del presente procedimento con altro ricorso proposto avverso l’ordinanza del GIP del Tribunale di Cremona, per il quale non era stata ancora fissata udienza di trattazione. La Corte ritenuto che non sussistessero ragioni di connessione fra i due procedimenti e che le diverse modalità e fasi di trattazione dei medesimi sconsigliassero la riunione, rigettava l’istanza e dava corso alla discussione. Il PG presso questa Corte ed il difensore, presente per tutti e tre gli indagati, rassegnavano le conclusioni riportate in epigrafe.
Nel ricorso congiunto proposto i difensori degli indagati deducevano, come primo motivo di gravame, la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per erronea applicazione dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione all’art. 646 cod. pen. con riferimento all’insussistenza del fumus commissi delicti.
La difesa riassumeva l’intera vicenda processuale ricordando che questa aveva avuto inizio in seguito alla querela di L. A. in data 5.02.07 in cui si assumeva che questi aveva subito una procedura di pignoramento in data 19.12.06, ma che, attesa l’insufficienza dei beni presenti nella sua abitazione, il L. stesso aveva indicato all’Ufficiale Giudiziario i beni che corredavano lo studio associato Bracchi/Lazzarinetti. A seguito dell’infruttuoso accesso dell’UG, il L. aveva appreso che tutti i beni mobili dello studio erano stati venduti a sua insaputa senza che ne fosse stato edotto della destinazione o dell’utilizzo.
Secondo il L. la vendita dei beni mobili dello studio associato sarebbe stata frutto di iniziative personali e non autorizzate dell’ex socio, Prof. B., ai danni oltre che dei creditori anche di sè medesimo. Il L. contestava quindi al B., al di lui socio all’epoca dell’atto di vendita, Dr. A.A., ed a B.S. il reato di appropriazione indebita.
Per la difesa, la complessa motivazione dell’ordinanza oggetto di gravame rendeva evidente già di per sè l’assenza dei presupposti che avrebbero consentito l’adozione della misura cautelare reale.
La difesa sottolineava i punti salienti dei fatti oggetto del presente procedimento, ricordando che l’associazione professionale Bracchi/Lazzarinetti all’atto dello scioglimento versava in una gravissima esposizione debitoria, che di tale situazione debitoria si era fatto carico il solo Prof. B., essendo il di lui ex socio L. in stato di custodia cautelare e che lo stesso Tribunale aveva dato atto che il B. aveva fatto fronte alle passività dello studio associato; questo comportamento avrebbe determinato l’insussistenza delle ipotesi d’accusa. Pur tuttavia, il Tribunale non aveva ritenuto soddisfacente la documentazione in merito, fornita dalla difesa.
In particolare il Tribunale sosteneva come mancasse la prova che le somme corrisposte quale corrispettivo per la vendita degli immobili fossero state utilizzate effettivamente per il soddisfacimento delle sole ragioni creditorie che si riferivano alla specifica attività svolta dallo studio associato Bracchi/Lazzarinetti. Ricordava la difesa dei ricorrenti che della procedura di liquidazione si era fatto carico il solo B. e che si era trattato di procedura di liquidazione a debito, in contrasto con la ripartizione in bonis su cui la Pubblica Accusa aveva fondato l’ipotesi di delitto contestata.
Sosteneva che non era configurabile l’elemento dell’interversio possessionis poiché il B. aveva operato con l’animus del liquidatore, ciò che avrebbe generato al più un rapporto di natura meramente obbligatoria con il L., che avrebbe potuto richiedere una rendicontazione delle attività compiute e solo in seguito ad essa procedere ad eventuali rilievi. Evidenziava in ultimo che il ricavato della vendita dei beni mobili posti sotto sequestro preventivo, lungi dall’aver rappresentato l’oggetto materiale di una condotta appropriativa ad opera del B., era stato destinato in via esclusiva a far fronte alla esposizione debitoria dello studio professionale.
Come secondo motivo di gravame, la difesa deduceva la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per erronea applicazione dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione alla sussistenza del periculum in mora.
Per la difesa l’ipotesi del periculm in mora era da considerarsi improponibile poiché il provvedimento di sequestro era relativo ad una fattispecie delittuosa consumata oltre diciotto mesi addietro alla presentazione della querela, che risultava comunque ampiamente fuori termine.
Sottolineava inoltre che i beni mobili oggetto di sequestro erano presenti all’interno dello studio professionale da molti anni senza che alcuno, anche dopo lo scioglimento dell’associazione nel maggio 2005, avesse mai asportato alcunchè.
Evidenziava, infine, la difesa che, come da giurisprudenza della Corte Suprema, il periculum in mora avrebbe dovuto essere integrato da una concreta, imminente ed elevata possibilità, desunta da tutte le circostanze del fatto, che il bene assumesse carattere strumentale rispetto all’aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato, e non una teorica e generica mera eventualità di queste conseguenze.
Come terzo motivo di gravame, la difesa deduceva la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) per violazione dell’art. 103 c.p.p., commi 3 e 4. L’esecuzione del provvedimento di sequestro era avvenuta in violazione di tutte le regole stabilite, a pena nullità, dall’art. 103 c.p.p.. Il decreto di sequestro preventivo risultava essere stato eseguito all’interno dello studio legale Bracchi-Baroni ed aveva avuto ad oggetto beni di pertinenza dell’attività professionale forense. Ciò, secondo la difesa, comportava la radicale nullità del predetto atto di sequestro ex art. 103 cod. proc. pen., non essendo stata data comunicazione preventiva al competente Consiglio dell’Ordine Forense, affinché il Presidente o un delegato potessero assistere alla perquisizione.
Inoltre, il predetto atto era stato eseguito non dal Giudice o dal PM previa autorizzazione del primo, ma da operanti di PG in palese violazione dell’art. 103 cod. proc. pen., comma 4.
Con riferimento poi all’avv. B.S., la stessa non era indagata, Né al momento della richiesta di emissione del decreto di sequestro preventivo, Né al momento dell’emissione dello stesso.
L’iscrizione della B. nel registro delle notizie di reato due giorni dopo l’emissione del decreto di sequestro appariva singolare.
Concludevano quindi per l’annullamento dell’ordinanza impugnata con ogni conseguenza di legge.
Questo Collegio ritiene tale ultimo motivo di censura fondato ed assorbente ogni altro rilievo. L’attenta disamina condotta dal Tribunale di Cremona sul punto non sembra aver tenuto nella giusta considerazione il disposto del comma terzo dell’art. 103 c.p.p..
Infatti, se è vero che le perquisizioni, le ispezioni ed i sequestri da compiere nell’ufficio di un avvocato non devono essere preceduti dall’avviso al Consiglio dell’Ordine forense, quando la persona sottoposta all’indagine sia lo stesso professionista, cosicché non venga in rilievo l’attività professionale da questi svolta in favore di altri (vedi Cass. 4.6.2003, Daccò), deve tuttavia considerarsi che nel caso di specie risultano non sufficientemente considerati due profili: il primo, che lo stesso avv. B.S.P., al momento in cui veniva autorizzato l’accesso per l’esecuzione del sequestro preventivo (in data 19.3.2007) non risultava ancora indagata (lo stesso provvedimento impugnato da atto che la stessa era stata iscritta nel registro degli indagati solo il 21.3.2007), il secondo, che lo studio professionale presso il quale il sequestro era stato eseguito, risultava intestato anche ad altro avvocato, che per espressa indicazione del provvedimento impugnato, non risultava coinvolto nelle indagini. A tale ultimo riguardo, in particolare, l’ordinanza impugnata non fornisce il giusto rilievo, limitandosi a dare atto della circostanza ed a ritenere che da quanto argomentato a proposito del fatto che sottoposto ad indagini fosse lo stesso professionista (in verità, altro professionista rispetto a quello cui lo studio apparteneva) derivasse comunque la legittimità del sequestro, senza fornire ulteriori spiegazioni.
Ritiene questo Collegio di dover fare applicazione dei principi sanciti più volte dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’omesso avviso al locale Consiglio dell’Ordine Forense, nel caso di perquisizione dei locali adibiti a studio professionale del difensore e di sequestro del materiale ivi rinvenuto, si traduce in un’inosservanza sanzionata da esplicita e tassativa nullità (sez. 3, sentenza n. 2576 del 04/10-18/11/1994, rv. 200719, Bellantoni).
La maggior ampiezza dell’ambito di applicazione dell’art. 103 cod. proc. pen., comma 3 rispetto all’applicazione fattane dal Tribunale di Cremona è possibile trarre dalle pronunce delle Sezioni Unite n. 24, 25, 26 del 1994 (sent. Delib. il 12 novembre 1993, imp. De Gasperini e Grollino, rv. 195626, 195627, 195628, principio ribadito da sez. 5, sent. n. 1400 del 19/03-7/06/1997, rv. 208068, Spinapolice), secondo cui le speciali garanzie di libertà del difensore previste dall’art. 103 cod. proc. pen. non sono limitate al difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui sorge la necessità di svolgere attività di ispezione, perquisizione o sequestro, ma vanno osservate in tutti i casi in cui tali atti vengano eseguiti nell’ufficio di un professionista iscritto all’albo degli avvocati che abbia assunto la difesa di assistiti (in genere, e non soltanto di coindagati) anche fuori del procedimento in cui l’attività di ricerca, perquisizione e sequestro viene compiuta, e quindi anche in procedimenti civili; dette garanzie, infatti, sono collegate alla funzione difensiva in genere, cioè alla qualità professionale del soggetto sottoposto all’atto di indagine e non al fatto che l’attività di difesa sia stata svolta in determinati procedimenti penali.
Del resto (sempre richiamando i rilievi delle Sezioni Unite), se si considera la funzione delle garanzie dell’art. 103 c.p.p., comma 1 si convince che sarebbe irragionevole una differenziazione di disciplina a seconda del procedimento nel quale vengono compiuti gli atti che incidono sul rapporto tra parte e difensore, perché se occorre evitare interferenze in questo rapporto, presa di cognizione di notizie o di atti tutelati con il segreto (artt. 200 e 256 c.p.p.) e sequestro di carte e documenti relativi all’oggetto della difesa, diversi da quelli che costituiscono corpo del reato (art. 103 c.p.p., comma 2), l’esigenza si presenta con uguali caratteristiche per gli atti compiuti nello stesso procedimento in cui si svolge il rapporto difensivo e per quelli compiuti in altri procedimenti. In particolare, i limiti del primo comma e le garanzie dell’art. 103 c.p.p., commi 3 e 4 sono diretti proprio ad evitare che con ispezioni e perquisizioni non strettamente necessarie negli uffici dei difensori, effettuate dalla polizia giudiziaria in modo incontrollato si possa condurre una ricerca indiscriminata su tutti gli atti esistenti nell’ufficio del difensore, con la possibilità di acquisire o comunque di conoscere, ancorchè relativi ad altri procedimenti, atti di un rapporto difensivo che il difensore ha diritto di mantenere segreti.
Le modalità con cui si è svolto il sequestro nel caso di specie non hanno rispettato le indicazioni di cui all’art. 103 c.p.p., comma 3, cosicché il medesimo sequestro risulta illegittimo e deve essere annullato.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché il decreto di sequestro emesso il 19.3.2007 dal GIP del Tribunale di Cremona e ordina la restituzione delle cose in sequestro agli aventi diritto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2008