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Cassazione penale, sez. III, 20 settembre 2016, n. 38841

Redazionedi Redazione28 Settembre 2016
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 14/10/2015, depositata in data 28/10/2015, la Corte d’appello di Lecce, decidendo in sede di annullamento con rinvio disposto da questa Corte con la sentenza n.
29751/2014, in riforma della sentenza del Tribunale di Taranto dei 24/05/2013, appellata dall’imputato, dichiarava non doversi procedere nei confronti di C.L. in ordine al reato di cui all’art.
5, lett. b), della legge n. 283 del 1962 (capo a), perché estinto per prescrizione, rideterminando per l’effetto la pena, in relazione al reato di cui all’art. 516 cod. pen. (capo b), la pena in gg. 20 di reclusione, confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva riconosciuto responsabile per fatti commessi in data 8/02/2009.
2. Ha proposto ricorso C.L. a mezzo del difensore fiduciario – cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deduce un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione all’art. 516 cod. pen. e correlato vizio di carenza della motivazione.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la sentenza sarebbe censurabile perché carente di motivazione sia in relazione alla presunta non genuinità della merce contestata, sia in relazione alla condotta di messa in vendita; si sarebbe resa indispensabile una più approfondita motivazione per appurare se e come lo stato di non perfetta conservazione potesse avere inciso sulla genuinità del prodotto stesso; non vi sarebbe in atti alcuna elemento da cui evincere che la merce fosse destinata alla vendita e/o comunque alla distribuzione.
Considerato in diritto 3. II ricorso dev’essere dichiarato inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
4. Ed invero, la Corte d’appello motiva su ambedue i profili di doglianza in maniera adeguata ed immune da vizi logici, evidenziando che, come emerso dalle dichiarazioni dei due carabinieri che avevano acquistato due buste di patatine scadute di validità, il prodotto aveva perduto le qualità essenziali (freschezza e fragranza) sicché sussistevano le condizioni per la configurabilità del reato in questione. Sul punto pacifico è l’orientamento di questa Corte, autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui la messa in vendita di prodotti scaduti di validità integra il delitto di cui all’art. 516 cod. pen. (vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine) solo qualora sia concretamente dimostrato che la singola merce abbia perso le sue qualità specifiche, atteso che il superamento della data di scadenza dei prodotti alimentari non comporta necessariamente la perdita di genuinità degli stessi (Sez. U, n. 28 del 25/10/2000 – dep. 21/12/2000, Morici, Rv. 217296). Nel caso di specie, per come emerso dalle dichiarazioni dei due militari dell’Arma dei carabinieri – che, liberi dal servizio, avevano acquistato le buste di patatine presso un punto vendita gestito dal ricorrente, mentre si trovavano allo stadio -, non solo era risultato che il prodotto fosse scaduto di validità ma, soprattutto, era stato accertato dagli stessi militari che le patatine avevano perduto le loro “qualità specifiche”, essendo invero indubbio che freschezza e fragranza delle patatine costituiscono qualità specifiche che il consumatore si attende dal prodotto in questione.
5. Quanto, poi, all’ulteriore profilo di doglianza, la Corte d’appello motiva sul punto indicando chiaramente che il prodotto non genuino era chiaramente destinato al commercio, in quanto le due confezioni di patatine erano state acquistate dai due carabinieri, liberi dal servizio, presso il punto vendita presso lo stadio e che altre confezioni dello stesso tipo erano presenti nei punti vendita dislocati all’interno della struttura, punti vendita la cui gestione era riconducibile alla persona dei ricorrente.
Con riferimento a tale motivo di doglianza, è dunque evidente la aspecificità del medesimo, non confrontandosi il ricorrente con la puntuale e convincente motivazione della Corte d’appello, idonea a confutare la censura difensiva, donde la stessa si appalesa inammissibile. Ed invero, è stato più volte affermato da questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
6. II motivo si presenta, inoltre, manifestamente infondato, atteso che la perdita delle qualità specifiche del prodotto è stata attestata, come dianzi visto, dai due acquirenti, dovendosi altresì evidenziare, quanto alla questione della messa in vendita dei prodotto, che la maggiore o minore durata della detenzione, e la maggiore o minore imminenza della vendita, sono irrilevanti ai fini della configurazione dei reato di cui all’art 516 cod. pen., oggettivamente integrato dalla relazione di fatto tra esercente e sostanza non genuina e soggettivamente completato dall’intenzione di esitarla come genuina (Sez. 6, n. 5353 del 20/12/1979 – dep. 23/04/1980, Cutino, Rv. 145114).
Nessun dubbio, infine, residua quanto al corrispondente elemento psicologico normativamente richiesto, come reso palese dalla condotta tenuta dall’imputato al momento dei fatto, avendo questi tentato di disfarsi, all’atto dei controllo, di alcune confezioni di patatine, gettandole nel cestino dei rifiuti, come emerge dalla lettura dell’impugnata sentenza.
7. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorso segue la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 13 luglio 2016

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