Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Trento ha emesso sentenza assolutoria perché il fatto non costituisce reato nei confronti degli imputati in epigrafe in ordine al reato di cui all’art. 589 c.p., commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro in danno di B.P..
L’imputazione attiene alla morte di un lavoratore deceduto nel 2003 per mesotelioma pleurico insorto nel 2002, dopo aver lavorato dal (omissis) presso le officine delle Ferrovie (omissis) ove veniva esposto a polveri di amianto.
L’imputato C. ha ricoperto in tale azienda la qualità di direttore di esercizio dalla fine del 1976, mentre gli altri imputati sono stati, in tempi diversi, componenti del Consiglio di amministrazione.
Il Tribunale ha ritenuto che il C. rivestisse il ruolo di vertice tecnico dell’amministrazione e fosse quindi destinatario delle norme di garanzia; e che in tale veste avrebbe dovuto fronteggiare il rischio mortale connesso all’amianto, ben noto all’epoca dei fatti. Quanto ai componenti del Consiglio di amministrazione, il primo giudice ha opinato che, pur configurandosi in capo a costoro la veste di datori di lavoro, vi fosse esonero da responsabilità in virtù di delega di fatto al C. su tutti i temi inerenti all’organizzazione del lavoro.
Il Tribunale ha poi escluso il nesso causale. La pronunzia da atto delle contrapposte tesi sostenute dai consulenti. Alcuni ritengono che il mesotelioma non è dose-dipendente; che l’iniziazione del processo patogenetico può avvenire anche per effetto di una piccola dose; che non vi è prova certa che tale iniziazione sia avvenuta in ambito lavorativo. Altri esperti sostengono l’opposta tesi della dose- dipendenza, sicché la prolungata esposizione ha generato ed accelerato il processo eziologico. Lo stesso Tribunale ritiene altresì che i precedenti giurisprudenziali non costituiscano un’indicazione vincolante, essendosi in presenza di vicenda caratterizzata da tratti peculiari. Il Giudice, prendendo posizione sulla dibattuta questione, non dubita che la patologia sia insorta a seguito della prolungata esposizione lavorativa. Tuttavia l’unico imputato nei cui confronti è stata ritenuta una condotta colposa penalmente rilevante, il C., è stato assunto dopo che l’iniziazione del processo carcinogenetico aveva avuto luogo, sicché la sua responsabilità potrebbe essere affermata solo ove si ritenesse che la protrazione dell’esposizione abbia un sicuro effetto acceleratore. Al riguardo il perito Dr. S. ed il consulente del P.M. prof. Bi. si sono espressi solo in termini probabilistici e statistici. Tale apprezzamento probabilistico si traduce in un mero aumento del rischio e non è quindi sufficiente a fondare l’imputazione dell’evento.
Quanto ai componenti del Consiglio di amministrazione il Tribunale rileva che l’organo deliberativo si interessava delle questioni di più generale rilievo politico e strategico, mentre vi era una delega di fatto nei confronti del dirigente dr. C.. In conseguenza, gli obblighi prevenzionistici in tema di sicurezza del lavoro gravavano sul delegato e non sui componenti del consiglio.
Tale apprezzamento è stato parzialmente confutato dalla sentenza d’appello, che ha affermato la penale responsabilità di tutti gli imputati.
La Corte territoriale condivide le valutazioni del primo giudice in ordine alle essenziali coordinate fattuali della vicenda illecita.
La vittima ha svolto attività lavorativa dal 1971 al 1982 presso l’azienda in questione e, nel corso delle lavorazioni afferenti alla manutenzione del materiale rotabile, è stato intensamente esposto alle polveri di amianto che hanno determinato l’insorgenza di mesotelioma pleurico che lo ha condotto alla morte. La pronunzia esclude la concreta prospettiva di altre possibili fonti di contaminazione. Il lavoratore, infatti, prima del 1971, è stato impiegato presso altre aziende ove, tuttavia, non era per nulla esposto ad amianto. L’indagine esperita, inoltre, esclude che il mesotelioma sia stato determinato da altre cause: non vi è stata esposizione ad erionite o a radiazioni ionizzanti, Né sono state riscontrate patologie infiammatorie croniche. Si ritiene pertanto, condividendo le valutazioni del primo giudice, che in assenza di serie alternative ipotesi eziologiche, quella che connette l’evento all’esposizione alle polveri di amianto assume sicurezza logica.
La Corte esclude pure che la patologia possa essere stata innescata da una dose minima assunta al di fuori dell’attività lavorativa giacché, come emerso dal parere dell’esperto più qualificato escusso nel giudizio, per l’insorgenza del mesotelioma è necessaria un’esposizione importante.
In ogni caso, prosegue il giudice d’appello, ove pure potesse ritenersi che l’avvio del processo morboso abbia avuto una causa diversa dall’esposizione lavorativa di cui si discute, tale dato sarebbe privo di decisivo rilievo poiché la patologia è dose- correlata, sicché l’esposizione lavorativa avrebbe comunque abbreviato i tempi di latenza ed accelerato la verificazione dell’evento letale. Il ruolo eziologico è dimostrato anche dal fatto che, in una coorte di soli 50 lavoratori, un caso di mesotelioma è già un evento eccezionale, poiché le percentuali di comparsa di tale malattia sono molto più rare; mentre l’asbestosi insorge solo in caso di esposizioni molto elevate, superiori a quella esistente in quell’azienda.
La Corte ritiene altresì, condividendo sul punto le valutazioni del Tribunale, che si configuri la colpa di tutti gli imputati. Pur in presenza di elevati quantitativi di amianto dispersi nell’aria, non era stata adottata alcuna precauzione: mancavano aspiratori ambientali e maschere personali; le polveri venivano movimentate e spazzate senza alcuna cautela. D’altra parte, già all’epoca dei fatti, appropriate cautele avrebbero potuto essere utilmente adottate, come ritenuto dagli esperti.
Per la Corte i valori dell’amianto disperso nell’aria erano significativi e sicuramente superiori al limite di due particelle per centimetro cubico. Inoltre, il rischio di patologie neoplastiche connesso all’esposizione all’amianto era già noto negli anni settanta dello scorso secolo; anche in riferimento all’ambito ferroviario. E gli imputati avrebbero potuto acquisire consapevolezza di tale rischio, eventualmente in collaborazione con soggetti scientificamente qualificati.
Quanto alla causalità, la Corte censura la prima sentenza: essa, dopo aver accolto la tesi del mesotelioma come tumore dose-correlato, non ne ha fatto discendere le conseguenze doverose. La critica coglie sia la valutazione che riguarda gli imputati ( P., Po., T., B., L., Cr.) che hanno ricoperto incarichi tra (omissis), in concomitanza con l’innesco del processo patogenetico; sia quella afferente agli imputati che hanno operato successivamente, tra (omissis) ( C., Co., L., Cr., M., W., V., Be.).
Il Tribunale ha affermato che l’effetto acceleratore è solo un dato epidemiologico inidoneo a fondatore l’imputazione, attesa la sua base probabilistica. Ritiene invece la Corte d’appello che l’effetto acceleratore sia un dato costante e fermamente acquisito in ambito scientifico, “supportato da evidenziazioni e pubblicazioni scientifiche di indubbio valore”. Il Tribunale si esprime in termini probabilistici, trascurando che era possibile pervenire ad un giudizio di certezza sulla base di diversi studi epidemiologici che evidenziano la relazione tra entità dell’esposizione e durata della latenza; di indagini molecolari che confermano la relazione causale in questione; delle più accreditate conoscenze scientifiche sul tema; della mancata dimostrazione, da parte degli autori aderenti alla tesi della non correlazione, delle ragioni per le quali si avrebbe solo per il mesotelioma una risposta dell’organismo non rapportata al protrarsi dell’esposizione.
In conclusione, per la Corte territoriale quella del tumore dose- correlato non è una legge universale ed assoluta quanto piuttosto una generalizzazione statistica idonea a dimostrare il nesso causale, come ritenuto dalle Sezioni Unite e dalla giurisprudenza di legittimità. In conseguenza, se gli imputati avessero adottato le opportune misure di prevenzione, avrebbero ridotto l’esposizione e quindi accresciuto la durata del periodo di latenza, così ritardando l’esito letale.
La Corte, inoltre, non dubita dell’esistenza di posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati. Il C. rivestiva ruolo dirigenziale di vertice in ambito tecnico; ed era quindi gravato dell’obbligo di vigilare sulla correttezza delle lavorazioni, di pretendere l’adozione di misure di prevenzione e di segnalare il rischio di esposizione all’amianto: interventi mai adottati.
L’imputato è responsabile poiché aveva la possibilità di prevedere ed evitare l’evento.
I componenti del Consiglio di amministrazione, come già ritenuto dal Tribunale, hanno la veste di datori di lavoro; tranne che vi sia delega di poteri. Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non vi fu alcuna delega nei confronti di C. o di altri. L’analisi delle deliberazioni dell’organo collegiale mostra che esso si occupò di tutti gli aspetti dell’attività aziendale, dai più alti a quelli di minuta amministrazione; ed inoltre che fu rigorosamente contenuta entro limiti assai ristretti l’autonomia del personale dirigenziale.
Le condotte degli amministratori si sono protratte per periodi non inferiori a due anni e sono quindi idonee a radicare il giudizio di responsabilità. Gli imputati, infatti, avrebbero dovuto assumere le iniziative del caso al fine di conoscere i rischi afferenti all’attività aziendale, eventualmente coinvolgendo su tale tema personale dotato delle conoscenze tecnici occorrenti.
2. Ricorrono per Cassazione gli imputati.
2.1. I difensori degli imputati L., Co., Be., V., W., M., C. e Cr., con unico ricorso, propongono diversi motivi:
2.1.1 Con il primo motivo si prospetta violazione di legge e vizio della motivazione per ciò che attiene alla ritenuta esistenza del nesso causale.
Si confuta in primo luogo la tesi che il mesotelioma che ha colpito il lavoratore si associ ineludibilmente all’esposizione ad amianto, non essendo stati acquisiti adeguati dati storici sulla vita privata e sulle precedenti attività lavorative; ed essendo ben noto che in una percentuale non trascurabile di casi (20, 30 %) la patologia in questione si riscontra in situazioni in cui non vi è stata una pregressa esposizione alla sostanza. Indicazioni in tal senso sono pervenute dallo stesso consulente prof. Bi., che ha messo in luce l’importanza dell’analisi della storia del paziente.
Un’ulteriore censura riguarda l’affermazione, che ha fondato l’affermazione di responsabilità, secondo cui il mesotelioma è un tumore dose-correlato. Al contrario è emerso dalle indagini peritali e dalle opinioni dei consulenti delle diverse parti, oltre che dalla letteratura scientifica, che il tumore è dose-indipendente e che irrilevanti sono le dosi successive a quella che ha innescato il processo patogenetico. Si assume che la giurisprudenza di legittimità ha fatto propria la tesi della correlazione tra dose e tumore; e che tuttavia tale apprezzamento deve essere confutato. La letteratura scientifica sul punto afferma la dose indipendenza e la assoluta irrilevanza delle dosi successive. Vengono esposte informazioni desunte dalla letteratura scientifica secondo le quali si può ragionare sul fatto che per l’inizio della carcinogenesi sia necessaria una certa dose scatenante ma, una volta che questa è stata assorbita, un dosaggio ulteriore non avrà alcun effetto sulla comparsa del tumore; ed inoltre, la dose innescante può essere piccola, in certi casi straordinariamente piccola. Tale tesi, si aggiunge, è stata accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito.
Si rammenta, poi, la giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo cui il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico, non detiene proprie conoscenze privilegiate ed è chiamato soltanto a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto.
Il punto è, secondo i ricorrenti, che la Corte d’appello non si è attenuta a tale principio, essendosi limitata a fare proprie le tesi esposte dal pubblico ministero appellante e dal Tribunale, senza tener conto delle obiezioni critiche dei consulenti della difesa e degli stessi periti d’ufficio.
Si lamenta ancora che non è emersa dal dibattimento l’esposizione massiccia e prolungata del lavoratore all’amianto. Pur dandosi atto che tale lato della questione sarebbe irrilevante ove fosse accolta la tesi principale sostenuta dalla difesa, secondo cui anche una piccola dose può essere eziologica, si rimarca che la massiccia esposizione ritenuta dalla Corte di merito è priva di adeguato supporto probatorio. Una esaustiva valutazione dello specifico caso avrebbe in realtà richiesto una dettagliata ricostruzione della storia personale, delle attività lavorative ed extra lavorative pregresse ed un’indagine sulla predisposizione individuale, sulla effettiva presenza di fibre di amianto nella sede della neoplasia.
È pure mancata un’indagine sulle modalità e sulla quantità dell’esposizione: informazioni sufficientemente specifiche al riguardo non sono pervenute dai testi escussi.
La Corte ha pure omesso di analizzare le prospettazioni difensive: un consulente aveva evidenziato che una esposizione elevata avrebbe dovuto determinare diversi casi di asbestosi e mesotelioma, mentre non si è verificato alcun episodio di asbestosi ed uno solo di mesotelioma. Tali dati indicano, sempre secondo il consulente, livelli contenuti di potenziale esposizione ad amianto.
Si afferma, infine, che l’azienda aveva adottato tutte le misure di protezione dei lavoratori disponibili all’epoca del fatto a fronte delle conoscenze scientifiche e tecniche allora esistenti.
2.1.2 Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 43 c.p. e vizio della motivazione.
La Corte d’appello non ha minimamente risposto alle prospettazioni difensive secondo cui gli imputati non erano mai venuti a conoscenza della presenza di amianto nell’ambiente di lavoro ma erano anzi stati indotti a credere nella sua assenza. La pronunzia reca al riguardo argomentazioni meramente apodittiche. Non può avere rilievo la documentazione risalente al 1963 proveniente dalla ditta costruttrice di macchinari nella quale si evidenzia la presenza di amianto. Tale documentazione, a seguito di una alluvione, era finita in fondo ad un vecchio deposito d’archivio. Per contro, come provato in giudizio, nella documentazione consegnata dalla ditta costruttrice degli elettrotreni non vi era mai menzione dell’amianto. Non è dato quindi di comprendere perché gli imputati non potessero fare legittimo affidamento sulle indicazioni dei manuali d’uso.
2.1.3 Con il terzo motivo si deduce mancanza di motivazione sulla causalità delle condotte addebitate ai singoli imputati. Costoro hanno ricoperto le rispettive posizioni di garanzia in periodi tra loro differenti ed in molti casi assai distanti dal periodo di riconosciuta insorgenza del mesotelioma, riconducibile ai primissimi anni della presunta esposizione del defunto lavoratore alla polvere da amianto. Anche a voler dare per dimostrata la prova della causalità materiale dell’evento, ciò non basta per inferirne automaticamente la responsabilità di tutti coloro che, anche per periodi assai brevi, si sono avvicendati all’interno dell’azienda.
2.1.4 Il quarto motivo censura ancora la valutazione della Corte d’appello per ciò che attiene alla violazione dell’art. 43 c.p..
La Corte ha attribuito all’ing. C. l’addebito di non aver segnalato al consiglio d’amministrazione l’esistenza di un rischio amianto. Ma tale argomentazione, se può rilevare nei confronti del professionista, vale per converso ad esonerare da responsabilità i consiglieri di amministrazione che mai vennero a conoscenza dell’esistenza della sostanza in questione.
2.1.5 L’ultimo motivo attiene alla mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. Il giudice d’appello ben avrebbe potuto concedere tale beneficio, la cui applicazione viene ora richiesta a questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2. 2.1.6 Con motivi nuovi si è rimarcato che l’assunzione della veste di consigliere non implica l’immediata ed automatica acquisizione di una posizione di garanzia. Una simile eventualità implicherebbe una immediata verifica in ordine a tutti gli aspetti dell’attività aziendale, che sarebbe irrazionale in considerazione del fatto che la stessa azienda era attiva da moltissimi anni ed aveva un apparato tecnico consolidato. D’altra parte, la valutazione della Corte è stata sommaria per quanto concerne i diversi ruoli ed i diversi tempi degli incarichi ricoperti.
2.2 I difensori dell’ing. C. prospettano tre motivi.
2.2.1 Con il primo motivo si deduce vizio della motivazione per ciò che attiene alla ricostruzione del nesso causale. Si afferma che la pronuncia d’appello è pervenuta all’affermazione del nesso causale sulla base della teoria del mesotelioma come tumore dose-dipendente:
la dose di amianto a cui un soggetto è esposto è rilevante sia ai fini dell’insorgenza del tumore che ai fini della durata del periodo di latenza, destinato ad abbreviarsi man mano che aumenta il periodo di esposizione. In applicazione di tale teoria si è ritenuto che la protratta esposizione non solo ha innescato ma ha anche accelerato il processo tumorale; con conseguente responsabilità anche di tutti i consiglieri di amministrazione che hanno assunto il loro incarico in epoca successiva all’innesco del meccanismo patogenetico.
Tale teoria, tuttavia, non solo non è corroborata dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale, ma è in aperto contrasto con la più recente ed accreditata letteratura scientifica al riguardo. La tesi accusatoria è sorretta dai pareri del dottor S. e del prof. Bi.; mentre è contrastata sia dal perito del Tribunale dottor B. che dal dottor Ca., consulente del P.M, oltre che dai consulenti del responsabile civile che, a differenza degli altri, hanno fatto riferimento a solidi ed inequivocabili dati della letteratura scientifica. A sostegno di tale assunto il ricorrente produce una sintesi delle valutazioni compiute dai diversi professionisti, orientate nel senso della sufficienza, per il mesotelioma (a differenza del tumore polmonare) di una modesta dose iniziale innescante e della scarsa o nulla rilevanza di eventuali altre successive dosi. Tali valutazioni si accordano, sempre ad avviso del ricorrente, con enunciazioni ormai concordi nella letteratura scientifica.
Tale punto di vista è stato recepito pure dalla giurisprudenza di merito, anche sulla base delle valutazioni scientifiche espresse dal consulente dr. Ca.. Si tratta di conclusione che conduce a ritenere che i rischi connaturati alla presenza dell’amianto possano essere eliminati solo con l’azzeramento dell’esposizione. Ciò ha determinato, nel 1992, la proibizione dell’uso della sostanza. In tale situazione si reputa che la pronuncia della Corte d’appello è totalmente carente di motivazione. Essa, infatti, produce enunciazioni assolutamente generiche: si evocano studi epidemiologici e biomolecolari del prof. Bi. e del prof. S., nonché le più accreditate conoscenze scientifiche senza indicarne la fonte o comunque di autori. La Corte non spiega neppure perché gli studi degli indicati professionisti debbano prevalere rispetto alle opinioni di altri consulenti e periti nonché rispetto alla letteratura scientifica nazionale ed internazionale.
Oltre a ciò, comunque, la Corte d’appello tradisce il contenuto della valutazione del professor Bi. il quale si esprime solo in via generale, in termini meramente possibilistici e di verosimiglianza; e non con riguardo alla singola individuale patologia. La Corte, d’altra parte, ha anche travisato l’opinione del consulente dell’accusa, il quale ha dato atto che la letteratura evidenzia anche casi di mesotelioma insorti dopo esposizioni ad amianto brevissime ed a bassa intensità. Quest’affermazione finisce con il confermare la teoria della frigger dose. La Corte d’appello finisce con il confondere l’incremento del rischio sulla popolazione generale con l’incidenza di tale rischio sul caso individuale. In breve, non vi è dubbio che il perdurare dell’esposizione nell’ambito di popolazioni lavorative incrementa il rischio di ammalarsi. Ma questo non vuoi dire che l’aumento di un rischio per la popolazione rappresenti un fattore peggiorativo nei confronti del singolo individuo affetto da mesotelioma, ipotizzando che la perdurante esposizione contribuisca alla progressione del tumore o ne accorci la latenza. In questo senso le valutazioni dei diversi consulenti e periti finiscono per sovrapporsi. D’altra parte, lo stesso consulente dr. Ca. ha esplicitamente enunciato che il rischio aumenta con la dose ma questa non fa diminuire il periodo di latenza.
La Corte d’appello, prosegue il ricorrente, non solo ha disatteso l’indicata legge scientifica relativa alla insorgenza della patologia in questione, ma ha pure mancato di considerare che una eventuale situazione di dubbio avrebbe dovuto essere valutata nel senso favorevole agli imputati.
La Corte territoriale ha tratto argomento da alcune pronunzie di legittimità, trascurando da un lato la diversità profonda delle coordinate fattuali e dall’altro la circostanza che in quei procedimenti erano prospettate opinioni scientifiche parziali, a differenza del caso qui esaminato che ha condotto all’acquisizione di risultati scientifici completi e di segno opposto. Nel presente giudizio si è infatti dimostrato che la comunità scientifica, fugando ogni dubbio al riguardo, ha ormai generalmente condiviso ed accolto la qualificazione del mesotelioma pleurico quale tumore non dose-correlato.
Il ricorso censura altresì la ritenuta continuativa esposizione a quantitativi significativi di polveri di amianto. La pronunzia non ha fornito alcun supporto obiettivo. L’erroneità dell’enunciato fattuale viene altresì dimostrata dalla circostanza che nessun altro lavoratore ha subito patologie da asbesto: Né mesotelioma Né asbestosi. Del resto, uno studio compiuto sul personale che ha lavorato nelle ferrovie dello Stato in Toscana ha evidenziato concentrazioni di fibre ben inferiori al limite di cinque per c.c. individuato come misura limite.
Ulteriore profilo della censura riguarda l’individuazione della causalità. Il riconoscimento della teoria della dose-indipendenza non consente per sua stessa natura di collocare temporalmente l’inalazione della dose di amianto che ha scatenato la patologia. Ma se anche si volesse ritenere fondata la teoria opposta, sarebbe in ogni caso lecito ritenere che la patologia sia insorta nei primi cinque anni di attività e quindi in un’epoca in cui l’ing. C. non aveva ancora assunto alcun ruolo. Lo stesso consulente dottor Bi. è pervenuto a tale conclusione. L’impossibilità di rispondere al quesito cronologico determina l’impossibilità di svolgere il giudizio controfattuale con conseguente necessità di assolvere l’imputato.
Altra censura riguarda la carenza di motivazione in ordine all’esclusione di decorsi causali alternativi. Il problema è stato risolto semplicisticamente sulla base di alcune testimonianze, ma senza alcun tipo di analisi volta a ricostruire la storia personale, professionale ed ambientale del lavoratore, al fine di individuare esposizioni lavorative ed extralavorative.
In conclusione, alla luce dei noti principi espressi dalle Sezioni unite in tema di causalità omissiva una pronunzia assolutoria si sarebbe imposta.
2.2.2 Un ulteriore capitolo del gravame riguarda censure relative all’elemento soggettivo del reato. Si assume che la Corte d’appello ha trascurato la decisiva circostanza che, entro determinati limiti, fino all’anno 1992 è stata consentita l’utilizzazione dell’amianto;
che la colpa va valutata con riferimento alle conoscenze disponibili al tempo della condotta, cioè tra il 1971 ed il 1982; che la soglia limite era di cinque fibre. Né si comprende per quale ragione tale valore debba essere piuttosto quantificato in due fibre per c.c..
La Corte d’appello, d’altra parte, ha fondato il giudizio di responsabilità colposa partendo dal presupposto indimostrato che il lavoratore sia stato esposto a dosi massicce di amianto. Vengono a tale riguardo riproposte argomentazioni già esposte a proposito del nesso causale, per ribadire l’assenza di informazioni anamnestiche puntuali; e per sottolineare nuovamente la significatività della circostanza che nessun altro lavoratore si è ammalato di affezioni correlate all’asbesto. La pronunzia, a tale riguardo, è giunta a travisare le dichiarazioni del consulente dr. Silvestri, assumendo erroneamente che questi abbia in dibattimento confutato il contenuto della propria relazione scritta.
Si rammenta, poi, che fino alla fine degli anni 80 la legislazione di gran parte dei paesi industrializzati considerava l’amianto una sostanza il cui utilizzo era lecito, purché condotto entro limiti di polverosità e di concentrazione di fibre ritenute accettabili. Solo agli inizi degli anni 90, preso atto dell’impossibilità di determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l’amianto non comporta rischi di cancro, è prevalsa l’impostazione volta a vietare pressochè ogni forma di utilizzo industriale del materiale.
In concreto, tra il 1971 ed il 1978, il valore limite nell’ambiente di lavoro era fissato in cinque fibre, successivamente ridotto nel 1978 e fino al 1993, allorchè è stata fissata la soglia limite di 0,2. La difesa non si è sottratta all’individuazione di una misura limite di due fibre per c.c. ed ha dimostrato che le lavorazioni cui era addetto il lavoratore indicavano un massimo di esposizione di 0,8 fibre. Il resto delle affermazioni della sentenza sono solo congetture. Del resto, lo stesso consulente del pubblico ministero ha testualmente affermato che indagini compiute in molti paesi hanno dimostrato che l’asbestosi non compare in popolazioni professionalmente esposte a concentrazioni inferiori ad una o due fibre. La circostanza che nessun lavoratore ha contratto l’asbestosi conferma la modesta rilevanza dei livelli di concentrazione di fibre nello stabilimento.
Il gravame lamenta pure che la pronunzia ha omesso di considerare che all’epoca dei fatti la pericolosità dell’amianto a basse esposizioni non era nota agli operatori del settore ferroviario. In tal senso erano sia la comunità scientifica che il legislatore. Data per scontata la consapevolezza della capacità delle fibre di amianto di provocare l’insorgenza di malattie tumorali, si afferma che tale dannosità non poteva essere nota agli operatori del settore ferroviario, poiché le conoscenze scientifiche del tempo inducevano a ritenere che la presenza di bassissimi quantitativi di fibre di amianto, quali quelli riscontrati a livello sperimentale in tipologie di lavorazioni identiche a quelle del caso di specie, non rappresentassero un pericolo nemmeno minimo per la salute umana. Tali quantitativi all’epoca non erano considerati potenzialmente idonei all’insorgenza dell’asbestosi Né di altre patologie, come dimostrato dalla soglia limite di cinque fibre o, al più, di due fibre: al di sotto di quel limite l’esposizione ad amianto era ritenuta pienamente tollerata e priva di conseguenze dannose. Ed ancora oggi la direttiva CEE del 2003 riconoscere un limite sia pure bassissimo (di 0,1 c.c.) al di sotto del quale non vi sono rischi per la salute. Tutto ciò premesso, è evidente che l’evento non era prevedibile in relazione allo stato delle conoscenze scientifiche. È ben vero che già negli anni 60 era noto, in ambito scientifico, un rischio legato all’inalazione delle fibre di amianto. Ma tale affermazione ha un valore unicamente per le industrie estrattive e manufatturiere oltre che per le opere di coibentazione. Solo in questi settori, infatti, era ragionevole aspettarsi l’aerodispersione di notevoli quantità di fibre di amianto, proprio per le caratteristiche delle attività in oggetto. Non ci si poneva alcun problema, invece, in settori industriali in cui le fibre disperse rientravano al di sotto dei limiti allora ritenuti di sicurezza. Tra gli addetti nel settore ferroviario il rischio di patologie tumorali da amianto ha cominciato ad essere descritto nella letteratura medica solo alla metà degli anni 80. Come riferito dai consulenti Ca. e Bi., le acquisizioni scientifiche sull’inesistenza di limiti di sicurezza sono recenti, successive al 1983 e si sono consolidate nel corso degli anni 90 e 2000. Il primo documento ufficiale sulla pericolosità dell’amianto in ambito ferroviario è del 1983, successivo al termine dell’attività della vittima ((omissis)).
Un’ulteriore censura riguarda la ritenuta evitabilità dell’evento.
La Corte dedica al tema solo alcune brevi e vaghe considerazioni. Si è trascurato che il dr. Ca. ha chiarito che in relazione ai tumori da amianto non esistono limiti di sicurezza. In particolare, l’abbattimento delle polveri non avrebbe potuto far scomparire del tutto le fibre di asbesto. L’eliminazione completa di tale rischio non è ancora nel presente possibile.
2.2.3 L’ultima censura riguarda la posizione di garanzia. L’ing. C. ha assunto ruolo dirigenziale dal 1977 al 1982. La Corte pone a carico dell’imputato, in virtù di tale posizione di garanzia, una serie di obblighi che elenca, desunti dal D.P.R. n. 303 del 1956, art. 4, trascurando che il rischio specifico era in quel tempo ignoto. Si è pure trascurando che l’imputato era privo di deleghe, non aveva potere di spesa ed agiva nei limiti delle decisioni adottate dal Consiglio di amministrazione e forniva unicamente un apporto tecnico secondo le proprie competenze specifiche.
2.3 L’imputato Po. propone diversi motivi.
2.3.1 Con il primo si censura la ritenuta esistenza di colpa.
L’imputato ha dimostrato di essere stato consigliere di amministrazione dal 1971 al 1973, di aver partecipato solo a tre consigli di amministrazione, di non aver mai discusso di problemi afferenti alla sicurezza, di non essere a conoscenza di problematiche relative alla presenza di amianto nelle carrozze, che si posero solo in epoca successiva, nel 1988. La Corte ha omesso di considerare tali difese e si è limitata ad estendere al ricorrente la responsabilità quale mero corollario di quella del principale imputato dr. C..
2.3.2 Si censura altresì il giudizio sull’esistenza del nesso causale. Si è trascurato il fatto che esisteva una delega non formale ma piena nei confronti del geometra B., unica persona competente in materia. Anche al riguardo la Corte d’appello omette qualunque argomentato apprezzamento.
2.3.3 Il terzo motivo censura la incongrua equiparazione di tutte le posizioni, senza alcuna diversificazione in rapporto alla diversità dei ruoli ed alla durata degli incarichi.
2.3.4 Il gravame, infine, fa propri i motivi proposti dagli altri difensori in tema di causalità. 2.4 Gli imputati P. e B., con unico atto, deducono i seguenti motivi.
2.4.1 Con il primo motivo si prospettano questioni afferenti al rapporto causale, esponendo argomenti non dissimili da quelli prospettai dalle altre difese e sopra riassunti. L’affermazione di responsabilità si fonda sulla tesi del mesotelioma come tumore dose- correlato, sulla massiccia esposizione del lavoratore alla sostanza;
sull’assenza di misure preventive. Tutti tali enunciati sono stati confutati. Si è dimostrato che il tumore non è dose correlato e non è attribuibile esclusivamente all’amianto. Si è pure posto in luce che è mancato qualunque serio approfondimento anamnestico idoneo a determinare l’entità della reale esposizione alla sostanza. D’altra parte, l’assenza di altre patologie nei restanti dipendenti dimostra l’assenza di esposizioni massive.
2.4.2 Con il secondo motivo si lamenta la mancanza di motivazione sulla colpa. Si è dimostrato che il problema dell’amianto si pose per la prima volta solo nel 1988 ed ebbe esito negativo poiché un’analisi sul materiale coibente disposta dall’ing. C. fu negativa. Solo indagini del 1990 evidenziarono la presenza della sostanza. Negli stessi manuali d’uso non si faceva menzione dell’uso di amianto per l’isolamento termico. Questo dato fattuale caratterizza lo specifico processo rispetto ad altri analoghi. Qui non solo era ignoto il rischio ma era anche ignota la presenza dell’amianto. La Corte trascura la questione e si limita ad enunciazioni generiche ed apodittiche.
2.4.3 Si censura altresì la mancanza di motivazione sulla causalità delle condotte addebitate ai singoli imputati, che hanno ricoperto i loro ruoli in epoche diverse ed hanno rivestito cariche di mera rappresentanza politica e non di controllo delle maestranze.
2.4.4 Il quarto motivo lamenta l’estensione ai consiglieri di amministrazione della responsabilità attribuita dalla Corte al C. e consistita nella mancata segnalazione del pericolo amianto.
2.4.5 Il quinto motivo concerne la mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, in termini coincidenti con prospettazione di cui si è già dato conto più sopra.
2.4.6 Con motivi aggiunti si è nuovamente rimarcato che gli incarichi dei consiglieri erano politici e non tecnici; che P. ha operato nel consiglio di amministrazione dal 1974 al 1976 e che non si comprende come tale limitato ruolo possa fondare la responsabilità. 2.5 L’imputato T. deduce quattro motivi.
2.5.1 Con i primi tre motivi si lamenta che si era prodotta documentazione (verbale del consiglio d’amministrazione) dalla quale emerge che l’ente attribuiva potere di firma al Presidente ed al Vicepresidente, dato indicativo di ampio conferimento di poteri, che limita il ruolo dei semplici consiglieri. Tale documentazione è stata prodotta sia al Tribunale che alla Corte d’appello che ne ha completamente pretermesso l’esame, così pervenendo ad un’affermazione di responsabilità priva di motivazione. La Corte d’appello ha in particolare errato nel ritenere l’inesistenza di alcuna delega, desumibile invece proprio dal documento prodotto. Ove pure si voglia ipotizzare l’inesistenza di tale delega, si configurerebbe comunque errore scusabile ex art. 47 c.p..
2.5.2 Con l’ultimo motivo si lamenta l’attribuzione di un ruolo causale basato su una collettiva responsabilità di posizione estesa a tutti i consiglieri di amministrazione. Non vi è prova controfattuale che un alternativo comportamento virtuoso avrebbe potuto scongiurare l’evento, considerata anche l’assenza di qualunque potere decisionale, tanto più in una situazione in cui fino al 1988 era ancora esclusa la presenza di amianto nel materiale ferroviario.
3. I ricorsi propongono, sia pure con accenti in parte diversi, due complesse ed assorbenti questioni afferenti alla causalità ed alla colpa. Sono fondate, nei termini che saranno in appreso specificati, le censure afferenti alla causalità materiale; mentre sono prive di pregio quelle relative al ruolo di garanti degli imputati ed all’esistenza di condotte colpose.
La vicenda in esame si presenta altamente complessa e controversa. La difficoltà è lumeggiata dalla pluralità delle indagini peritali, dalla divergenza delle valutazioni scientifiche espresse dagli esperti; dai contrastanti apprezzamenti dei giudici di merito; dalla varietà delle argomentazioni critiche prospettate dai ricorrenti. Si può dire, in breve, che vengono poste innanzi a questa Corte tutte le questioni che nel recente passato hanno caratterizzato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale in tema di causalità e di colpa, e che hanno trovato il punto di più controversa emersione nei processi afferenti a reati connessi all’esposizione professionale a sostanze dannose.
Il contesto è quello di patologie che trovano la causa o una causa nel contatto, nel corso dell’attività lavorativa, con sostanze la cui tossicità è ritenuta sulla base di informazioni epidemiologiche. Si tratta dunque, in primo luogo, di accertare se la patologia che ha colpito il lavoratore abbia effettivamente la sua causa nell’esposizione lavorativa; o se, invece, siano concretamente ipotizzabili altre ipotesi causali che riconducano l’evento lesivo a distinti fattori eziologici o ad esposizioni extralavorative o lavorative ma diverse da quella ipotizzata dall’accusa.
In tale ambito si pone un primo, delicato problema causale: si tratta di stabilire se e come le informazioni epidemiologiche, che hanno contenuto probabilistico e riguardano la cosiddetta causalità generale, possano essere utilizzate per stabilire relazioni causali concernenti un singolo, concreto caso.
Subito dopo si aggiunge un altro, ancor più complicato problema che riguarda l’attribuibilità delle condotte lesive agli imputati. La complessità del problema è generata dal fatto che l’esposizione lavorativa si è solitamente protratta per un lungo arco di tempo, nel corso del quale si sono succeduti diversi responsabili dell’organizzazione del lavoro. È conseguentemente difficile stabilire, nelle malattie neoplastiche, in quale momento sia avvenuto l’avvio, l’iniziazione del processo che, talvolta dopo una lunghissima latenza, conduce alla formazione della prima cellula tumorale e quindi all’evento lesivo. La determinazione di tale momento, d’altra parte, ha evidente rilievo ai fini dell’individuazione delle responsabilità individuali.
La soluzione di questi problemi può avvenire, evidentemente, solo sulla base di affidabili conoscenze scientifiche. Anche qui insorgono diversi problemi, lungamente e vivacemente dibattuti. Si tratta di stabilire a quali condizioni possa essere stabilita la validità di una generalizzazione esplicativa scientifica. Occorre inoltre chiarire in che modo debba essere articolato il ragionamento inferenziale che trasferisce le conoscenze scientifiche nell’indagine su un fatto storico; che cioè fa leva, ai fini della spiegazione dell’evento, sul sapere generalizzante.
Nel processo in esame tali temi hanno avuto forte evidenza ed hanno costituito, forse, il nucleo più significativo e controverso della discussione. Il punto più dibattuto riguarda la contestata esistenza di un’enunciazione scientificamente affidabile afferente all’esistenza di un effetto acceleratore del processo carcinogenetico derivante dalla protrazione dell’esposizione dannosa nel corso dell’attività lavorativa. La dimostrazione di tale effetto acceleratore consentirebbe, nei modi che saranno esposti più avanti, di attribuire rilievo causale anche alle condotte che hanno determinato la protrazione dell’esposizione dannosa dopo l’iniziazione del processo patogenetico. Il tema è stato già ripetutamente dibattuto in giurisprudenza ed è stato pure a più riprese esaminato da questa Corte Suprema in diverse pronunzie che saranno esaminate nel prosieguo.
L’esistenza di un dibattito irrisolto ha anche indotto le difese a sollecitare l’assegnazione del processo alle Sezioni unite, affinché siano esse a stabilire se la dibattuta legge scientifica esista a meno. Tale prospettazione aggiunge alla discussione un ulteriore problema, che riguarda il ruolo della Corte di legittimità nel giudizio che riguarda il sapere scientifico e la sua affidabilità. 4. Ciascuno dei problemi sopra enunciati richiede a questa Corte una breve ma compiuta disamina.
Il primo tema in discussione riguarda le informazioni probabilistiche dell’epidemiologia e la loro utilizzazione. A tale proposito occorre considerare che in ambito biomedico noi ci troviamo frequentemente davanti a leggi scientifiche che affermano relazioni causali che hanno contenuto probabilistico, e cioè non si manifestano immancabilmente: si è solo in presenza di un incremento della probabilità degli effetti, di una rilevanza statistica positiva.
Tale dato viene in epistemologia ritenuto significativo, sia pure a determinate condizioni: è corretto affermare, sul piano della causalità generale, che un evento è causa di un altro solo se all’apparire del primo segue con un’alta probabilità l’apparire del secondo e non vi è un terzo elemento che annulla il significato causale della relazione probabilistica. In breve, è l’incremento delle probabilità, l’accrescimento della frequenza che caratterizza la connessione tra determinate categorie di condizioni e di eventi ad evidenziare l’esistenza di connessioni causali. La struttura probabilistica dell’enunciato nomico implica che, pur essendo certa la cancerogenecità di una sostanza, l’esposizione ad essa non comporta la certa insorgenza della patologia ma solo un incremento di probabilità: l’induzione e lo sviluppo di un’affezione tumorale può dipendere da numerosi fattori speso non completamente noti.
Naturalmente, occorre comprendere se l’incremento delle probabilità studiato dall’epidemiologia quale base per l’individuazione e la dimostrazione con certezza, sul piano della causalità generale, di una relazione nomica, costituisca un dato di cui sia possibile far uso nel giudizio penale relativo ad un caso concreto. La questione è delicata poiché si è compreso che spesso fattori di confondimento distorcono in vario modo la simmetria tra incremento di frequenza e relazione causale: in alcuni casi la relazione causale è occultata, in altri è mostrata in modo ingannevole. Dunque le nude relazioni statistiche, le relazioni numeriche, sono solo un primo indicatore nomico che deve essere sottoposto ad un attento vaglio critico, con approccio scientifico, per evitare il pericolo di individuare erroneamente relazioni causali generali. Tuttavia, con tutta la cautela suggerita dall’incombente rischio dell’errore, è ben possibile che possa essere infine enunciata una affidabile relazione causale di tipo probabilistico accolta dalla comunità scientifica:
l’epidemiologia è nata proprio per condurre con metodo scientifico la verifica critica in ordine alla fondatezza dell’ipotesi eziologia basata sul dato statistico costituito dall’incremento di probabilità. D’altra parte, si è pure compreso che, anche in presenza di un dato statisticamente significativo, oltre alla correttezza metodologica dell’indagine epidemiologica, assumono grande importanza sia la presenza di informazioni d’ordine biologico che spieghino “dall’interno” i meccanismi della relazione causale che l’epidemiologia stessa ha desunto dalla relazione probabilistica, sia il positivo riscontro dell’utilità delle misure preventive adottate dopo la scoperta della relazione causale.
5. L’esito di rigorose ed accreditate indagini scientifiche indica al giudice un enunciato scientifico di natura generale relativo, ad esempio, alle proprietà oncogene di una determinata sostanza, di cui si potrà e dovrà vagliare la pertinenza nel caso concreto oggetto del processo. Questo momento segna il passaggio dalla causalità generale, che costituisce solo un preliminare dispiegamento di scenario, alla causalità singolare; e pone un ulteriore problema, cui si è già fatto cenno, che riguarda i modi dell’utilizzazione delle generalizzazioni probabilistiche nel processo.
Nel giudizio in esame è ammessa senza contestazioni l’esistenza di una legge scientifica inerente alla relazione causale probabilistica tra l’inalazione delle polveri di amianto e l’affezione tumorale denominata mesotelioma pleurico. Per evitare fraintendimenti presenti anche in questo processo, occorre chiarire che l’enunciato è probabilistico non nel senso che la sua affidabilità sia solo probabile. Al contrario, l’esistenza di una relazione causale di carattere generale è indiscussa, ma tale relazione si concretizza non immancabilmente bensì solo in una definita percentuale di casi.
D’altra parte, il contesto biomedico in cui ci si trova aiuta molto bene a comprendere, a spiegare la dimensione probabilistica della causalità generale. In tale ambito, infatti si configura spesso una complessa, sottile interazione tra fattori eterogenei, talora di segno diverso, che enfatizza la dimensione processuale, sistemica della causalità. Proprio tale complicata interazione tra diversi fattori spiega perché una causa produca determinati effetti solo in alcuni casi e non in modo immancabile.
Assodato, dunque, che l’asbesto è possibile causa del mesotelioma che ha colpito il lavoratore, resta da comprendere se ed in quale modo tale informazione possa essere utilizzata nel ragionamento probatorio inerente alle responsabilità individuali.
Le generalizzazioni scientifiche probabilistiche vengono spesso viste con diffidenza, alimentata dall’idea che il ragionamento causale sia sempre di tipo rigidamente deduttivo e che, conseguentemente, le leggi utilizzabili siano solo quelle universali o prossime ad uno.
Tale indiscriminata avversione non può essere condivisa. Certamente, nell’ambito di un’inferenza di tipo deduttivo, dal generale al particolare, è di grande rilievo la certezza o il grado di probabilità della premessa maggiore che si trasmette alla conclusione del sillogismo. Il punto davvero cruciale (che questa Corte tiene a rimarcare) è, tuttavia, che il ragionamento causale, nell’ambito delle scienze storiche, orientate cioè sulla ricostruzione di eventi concreti, non è quasi mai di tipo rigidamente deduttivo; e che in realtà i ragionamenti causali sono di diverse categorie, che si articolano in modo differente.
Un esempio ci può condurre con immediatezza nel mezzo del problema di cui si discute, orientandoci a comprendere che il coefficiente probabilistico espresso dalla legge scientifica che noi utilizziamo è talora irrilevante; ed è invece essenziale che la legge stessa abbia significato causale, esprima una indiscussa relazione eziologia tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi. Pensiamo ad una eziologia monofattoriale: accertato che una persona è affetta da asbestosi, si risale con certezza alla causa costituita dall’esposizione protratta all’amianto, visto che è scientificamente certo che tale esposizione è l’unico fattore che può determinare l’insorgenza dell’affezione. Contingenze di tale genere ci aiutano a cogliere che, piuttosto che proporre un atteggiamento di generalizzata diffidenza, conviene tentare di comprendere in quale contesto la legge viene utilizzata e quale è il tipo di ragionamento probatorio che noi siamo chiamati a sviluppare.
Del resto, le incertezze in ordine all’utilizzabilità di generalizzazioni probabilistiche sono state fugate dalle Sezioni unite di questa Suprema Corte (S.U. 10 luglio 2002, Franzese) che hanno espresso al riguardo una condivisa presa di posizione. La Corte ha considerato utopistico un modello di indagine fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, cioè affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali o quasi. Tale modello è stato ritenuto insufficiente a governare, da solo, il complesso contesto del diritto penale, che si trova di fronte le manifestazioni più varie della realtà. Accade frequentemente che nel giudizio si debbano utilizzare leggi statistiche ampiamente diffuse nell’ambito delle scienze naturali, talvolta dotate di coefficienti medio-bassi di probabilità frequentista, generalizzazioni del senso comune, le cosiddette massime di esperienza, nonché rilevazioni epidemiologiche. Occorre in tali ambiti una verifica particolarmente attenta sulla fondatezza delle generalizzazioni e sulla loro applicabilità nella fattispecie concreta, ma – concludono le S.U. – nulla impedisce che, quando sia esclusa l’incidenza nel caso specifico di fattori interagenti in via alternativa, possa giungersi alla dimostrazione del nesso di condizionamento.
6. Dunque, occorre sia pure succintamente esaminare le due più importanti categorie di ragionamenti cui si è già fatto cenno. Da un lato abbiamo i ragionamenti esplicativi che guardano al passato, tentano di spiegare le ragioni di un accadimento, di individuare i fattori che lo hanno generato. Il giudice, come lo storico, l’investigatore, il medico, compie continuamente tale tipo di ragionamento. Egli, per restare al nostro ambito, di fronte allo sviluppo di una patologia, si chiede quali siano state le cause.
Dall’altro lato si collocano i ragionamenti predittivi che riguardano la verificazione di eventi futuri. Tali ragionamenti sono frequenti in ambito scientifico, ove si compie sperimentazione controllata proprio producendo e verificando previsioni. D’altra parte, l’utilizzazione delle leggi scientifiche avviene in campo pratico proprio articolando previsioni con un ragionamento deduttivo che proietta sui casi concreti le informazioni causali espresse dalla legge scientifica. Un ragionamento predittivo compie ad esempio il medico che formula la prognosi di una malattia. Ma anche il giudice articola particolari previsioni quando si trova a chiedersi cosa sarebbe accaduto se un’azione fosse stata omessa o se, al contrario, fosse stato tenuto il comportamento richiesto dall’ordinamento: si tratta di ragionamenti controfattuali che riguardano sia la causalità materiale sia l’evitabilità dell’evento che qualifica la giuridica rilevanza della colpa.
La distinzione dei due indicati ragionamenti è di grande importanza, anche perché differente è il peso che vi ha il coefficiente probabilistico che caratterizza le leggi scientifiche utilizzate.
7. Nell’ambito dei ragionamenti esplicativi noi giungiamo ad esprimere giudizi causali sulla base di generalizzazioni causali congiunte con l’analisi di contingenze fattuali. In tale ambito il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante. Ciò che è invece importante è, come si è già accennato, che la generalizzazione o legge esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi.
Per comprendere come, nell’ambito dei ragionamenti esplicativi, noi utilizziamo il sapere scientifico occorre considerare che di rado una categoria di eventi trova la radice in un solo fattore eziologico. In tale situazione peraltro non frequente, l’inferenza causale non presenta aspetti problematici: nell’esempio già fatto, dalla diagnosi di asbestosi si risale con certezza all’esposizione protratta all’amianto che ne costituisce l’unico fattore eziologico.
Invece, nella maggior parte dei casi un evento può trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori. In tale frequente situazione le generalizzazioni che enunciano le diverse categorie di relazioni causali costituiscono solo delle ipotesi causali alternative. Emerge, così, che il problema dell’indagine causale è, nella maggior parte dei casi, quello della pluralità delle cause.
Occorre allora comprendere come noi articoliamo il ragionamento probatorio quando si prospettano diverse alternative ipotesi esplicative. Se guardiamo al nostro agire ideativo, sia nel mondo della vita che in quello della giurisprudenza, constatiamo che con istintiva immediatezza noi ci interroghiamo su quali affidabili generalizzazioni esplicative possano essere rilevanti nel caso concreto; e cerchiamo sul terreno, cioè nell’ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate. Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale:
ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla. Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologia; a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un’alternativa, plausibile ipotesi esplicativa. Dunque, riassuntivamente può affermarsi che scopo dell’indagine è la verifica critica in ordine all’ipotesi che riguarda la riferibilità di un evento concreto ad una spiegazione racchiusa in una legge scientifica: un tipo di ragionamento che qualche studioso denomina efficacemente “abduzione selettiva”.
L’indicata struttura del ragionamento consente di ribadire che non è decisivo che la generalizzazione esprima una relazione immancabile tra condizione ed evento o invece solo una relazione di tipo probabilistico. In realtà sia le leggi universali che quelle probabilistiche possono essere poste alla base della spiegazione di un evento all’esito del ragionamento ipotetico cui si è fatto cenno.
Sempre per restare al campo delle esposizioni professionali di cui ci si occupa in questo giudizio, nel caso in cui si riscontri un’affezione, come ad esempio il tumore polmonare, che può essere ricondotta a diversi fattori causali come l’esposizione al fumo di tabacco o a numerose altre sostanze oncogene, l’indagine causale dovrà tentare di indagare nella vita del paziente e studiare i reperti biologici per cercare di individuare quale sia stato l’agente che ha innescato il processo carcinogenetico.
Il modello esplicativo di tipo ipotetico qui sinteticamente delineato trova corrispondenza nell’ambito dell’epistemologia scientifica, ove pure si propongono esigenze stringenti di rigorosità ed oggettività in ordine alla scientificità dell’indagine ed alla verità degli enunciati. Qui è stato posto in luce un dato logico che si coniuga con quello psicologico: la deduzione implica la trasmissione della verità e la ritrasmissione della falsità. In un’inferenza deduttivamente valida la verità è trasmessa dalle premesse alla conclusione. Ma la falsità (il fatto che confuta la tesi) è anche ritrasmessa dalla conclusione ad almeno una delle premesse del ragionamento: la ripercussione della falsità dalla conclusione alle premesse è un corollario della trasmissione della verità dalle premesse alla conclusione. Anche il contesto scientifico, dunque, connette vigorosamente, in chiave critica, le teoria con i fatti:
l’affidabilità di un assunto è temprata non solo e non tanto dalle conferme che esso riceve quanto dalla ricerca disinteressata e strenua di fatti che la mettano in crisi, che la falsifichino.
Tutto questo vuoi dire che le istanze di certezza che permeano il giudizio penale impongono di svolgere l’indicata indagine causale in modo rigoroso. Occorre un approccio critico: la teoria del caso concreto deve confrontarsi con i fatti, non solo per rinvenirvi i segni che vi si conformano ma anche e forse soprattutto per cercare elementi di critica, di crisi. Non può esservi conoscenza senza un siffatto maturo e rigoroso atteggiamento critico, senza un disinteressato impegno ad analizzare severamente le proprie congetture ed i fatti sui quali esse si basano. La spiegazione di un accadimento richiede sempre tale approccio dialettico che, tuttavia, non è semplice contesa verbale tra opinioni a confronto (che alimenta degenerazioni di tipo retorico) quanto piuttosto di contraddizioni all’interno dell’ipotesi esplicativa e soprattutto tra tale ipotesi ed alcuni fatti. La dialettica di cui si parla è dunque confronto tra l’ipotesi e i fatti; e tra le diverse ipotesi, alla ricerca della più accreditata alla luce delle concrete contingenze di ciascuna fattispecie. La congruenza dell’ipotesi non discende dalla sua coerenza formale o dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo deduttivo, bensì dalla aderenza ai fatti espressi da una situazione data. In breve occorre rivolgersi ai fatti, ricercarli ed analizzarli con determinazione.
Questo stile d’indagine, d’altra parte, risponde all’obiezione che scorge nel procedimento per esclusione il pericolo di inversione dell’onere della prova. Esso, infatti, incorpora la critica basata sui fatti nella struttura del ragionamento esplicativo. Non c’è dimostrazione senza un serrato confronto con le prove, di qualunque segno esse siano, da ricercare con accanimento.
Per scendere nel concreto restando al presente campo di indagine, la verifica critica di cui si parla potrà riguardare, ad esempio, il riscontro del dato storico relativo all’effettiva esposizione ai diversi fattori patogeni o la ricerca di tracce delle sostanze nocive nei reperti biologici o di altri segni che accompagnano l’azione causale degli stessi fattori.
L’ordine di idee qui espresso non è dissimile da quello che traspare dalla già richiamata, importante pronunzia delle Sezioni Unite nella quale sia la giurisprudenza di legittimità che quella di merito si sono sin qui senza incertezze riconosciute. La pronunzia non distingue tra ragionamento esplicativo e ragionamento predittivo, ma sembra riferirsi in primo luogo proprio al primo. Se si raccolgono insieme alcuni accenni sparsi vi si può scorgere il nucleo del pensiero ipotetico. Si parla infatti di abduzione, cioè di ipotesi, e di copiosa caratterizzazione del fatto storico, cioè di induzione:
induzione ed abduzione si intrecciano dialetticamente e l’induzione, cioè il fatto storico, costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa. La prospettiva, come è noto, è quella di una ricostruzione del fatto dotata di elevata probabilità logica.
Tale ultima espressione, nata nell’ambito della filosofia della scienza, è stata utilizzata da alcuni studiosi nel contesto della giurisprudenza. In breve, nel processo come nell’indagine scientifica, si è in presenza di una base fattuale o induttiva costituita dalle prove disponibili e si tratta di compiere una valutazione relativa al grado di conferma che l’ipotesi ha ricevuto sulla base delle prove: se tale grado è ritenuto sufficiente, l’ipotesi è attendibile e quindi può essere assunta come base della decisione.
Occorre tuttavia sottolineare vigorosamente che la valutazione che si conclude con il giudizio di elevata probabilità logica, di credibilità razionale dell’ipotesi esplicativa, ha un ineliminabile contenuto valutativo, è vaga per eccellenza, sfugge ad ogni rigida determinazione quantitativa, manifestandosi con essa (come è stato efficacemente considerato in dottrina) il prudente apprezzamento ed il libero seppure non arbitrario convincimento del giudice.
Tale elaborazione concettuale, accreditata anche dalla pronuncia delle Sezioni unite, è andata incontro ad alcuni inconvenienti che si registrano frequentemente nella prassi.
Da un lato la probabilità logica viene spesso confusa con la probabilità statistica che, invece, esprime il coefficiente numerico della relazione tra una classe di condizioni ed una classe di eventi ed è quindi scevra da contenuti valutativi. Se si vuole, per evitare fraintendimenti tra i diversi usi del termine probabilità, il concetto di probabilità logica può essere sostituito con quello di corroborazione dell’ipotesi; alludendosi con ciò al resoconto che sintetizza l’esito della discussione critica sulle prove, alimentata dai segni di conferma o di confutazione delle ipotesi esplicative. In ogni caso, quando si parla di probabilità occorre aver presente la polisemia: si deve evitare l’errore di confondere le due categorie, e va pure vinta la tentazione di superare le difficoltà ingenerate, in alcuni casi, nell’indagine causale dall’insufficiente coefficiente numerico dell’informazione statistica, sostituendo fittiziamente alla probabilità statistica la probabilità logica. Si tratta di errori di cui occorre qui prendere preliminarmente nota per il decisivo rilievo che assumono nel presente giudizio; come sarà mostrato nel prosieguo.
Dall’altro lato, proprio l’indicato contenuto valutativo, discrezionale dell’idea di probabilità logica ha aperto la strada a degenerazioni di tipo retorico nell’uso di tale strumento concettuale: si propone una qualunque argomentazione causale e si afferma apoditticamente che essa è, appunto, dotata di alta probabilità logica, così eludendo l’esigenza di una ricostruzione rigorosa del nesso causale. È chiaro che la componente valutativa insita nel concetto di cui ci occupiamo lo rende particolarmente adatto all’uso giurisprudenziale. Ma deve essere pure chiaro che ciò può avvenire solo in un modo rigidamente controllato; ed il controllo critico può essere costituito solo da una rigorosa attenzione ai fatti ed ai dettagli di ciascuna contingenza quali fattori di superamento di ciò che di astratto, retorico, fumoso può esservi in tale elaborazione concettuale. Si tratta di un’esigenza di concretezza e di attenzione ai fatti che, del resto, può essere senz’altro scorta nella recente giurisprudenza di legittimità. 8. L’analisi dei diversi ragionamenti probatori deve essere completata proponendo un breve accenno sull’inferenza predittiva.
Come si è anticipato, il giudice penale svolge tale tipo di ragionamento di carattere previsionale, anche se si rivolge al passato, quando, per restare alle problematiche eziologiche, si interroga, nell’ambito della causalità omissiva, in ordine all’evitabilità dell’evento per effetto delle condotte doverose mancate.
Non deve in primo luogo stupire che, con riguardo ad eventi passati, si faccia riferimento all’idea di previsione, giacché essa è caratterizzata dal fatto di inferire, predire l’ignoto dal noto.
Occorre inoltre chiarire che anche nell’ambito della causalità omissiva noi abbiamo comunque un fatto, nel nostro campo l’andamento di una patologia, di cui dobbiamo in primo luogo dare una spiegazione complessiva prima di interrogarci sul ruolo causale dell’omissione che ci interessa. In questa prima parte dell’indagine causale noi utilizziamo quasi sempre il modello esplicativo ipotetico sin qui esaminato.
Entro il complessivo contesto fattuale così investigato dobbiamo poi inserire la condotta umana doverosa che è invece mancata: si tratta di un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato, cioè di una prognosi. Noi ci interroghiamo su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.
In questo ragionamento insorgono peculiari difficoltà.
L’omissione costituisce un nulla dal punto di vista naturalistico, sicché nel giudizio controfattuale noi inseriamo una condotta astratta, idealizzata. Inoltre in tale contesto, evidentemente, per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili. Occorre dunque rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale che c’interessa. Qui noi utilizziamo le generalizzazioni scientifiche in chiave eminentemente deduttiva e, per tale ragione, è assai importante il coefficiente probabilistico (parliamo di probabilità statistica) della regolarità causale che utilizziamo. La misura di certezza o d’incertezza che caratterizza la legge scientifica si trasferisce, infatti, dalla premessa maggiore alla conclusione del sillogismo probatorio.
L’uso dello strumento deduttivo può tuttavia implicare gravi problemi, soprattutto in ambiti complessi come quello biomedico.
Infatti, spesso non disponiamo affatto di generalizzazioni affidabili ma solo di lacunose ed in qualche caso anche contraddittorie informazioni statistiche, che talvolta erroneamente chiamiamo leggi scientifiche. Ma anche quando disponiamo di informazioni sufficientemente esaustive ed affidabili, esse hanno carattere molto generale e non appaiono focalizzate sui tratti della specifica vicenda oggetto del processo. Una descrizione dell’evento non priva di qualche specificità ci farà trovare di fronte all’assenza di informazioni pertinenti. Ad esempio, sappiamo che una determinata percentuale di persone sopravvive dopo essere stata curata a seguito di infarto del miocardio, ma non sappiamo quale esatto peso vi abbiano i diversi fattori di rischio quali l’età, il sesso, le condizioni generali e numerose altre variabili individuali. La conclusione è che noi non disponiamo quasi mai di uno strumento deduttivo sufficientemente affidabile. Tale situazione, che rischia di frustrare in radice le inferenze della causalità omissiva, apre la strada all’introduzione di un aggiuntivo momento di tipo induttivo nella complessiva argomentazione probatoria. In breve, le generalizzazioni scientifiche disponibili, di cui è già stata mostrata la vocazione, nel contesto in esame, all’utilizzazione in chiave deduttiva, vengono integrate da un passaggio di tipo induttivo elaborato dal giudice sulla base delle particolarità del caso concreto. Perciò, per restare all’esempio dell’infarto, se il paziente era giovane, l’infarto non devastante, le condizioni generali buone, si può giungere a ritenere che diagnosi e trattamento tempestivi avrebbero evitato l’evento. La valutazione finale si esprimerà anche qui in termini di elevata probabilità logica, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite, ovvero di corroborazione dell’ipotesi: è ciò che accade oggi nella prassi. In breve le Sezioni unite hanno enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva e, di fronte alle già accennate difficoltà insite nel controfattuale della causalità omissiva, hanno indicato un itinerario probatorio percorribile: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario, si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel già detto giudizio di elevata probabilità logica. Insomma, le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto, quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica. È il piano processuale che, richiedendo un approccio valutativo, può in alcuni casi consentire di metabolizzare la misura d’incertezza che spesso si riscontra nei giudizi della giurisprudenza, particolarmente nell’ambito biomedico di cui qui ci si occupa. Il tramite è costituito da già indicato concetto di probabilità logica che, come pure si è visto, non consente rigide quantificazioni numeriche.
Tale soluzione rende praticabile il giudizio d’imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose. Anche qui tuttavia occorre ribadire il pericolo di degenerazioni di tipo retorico che, come si riscontra talvolta nella prassi, imprimono arbitrariamente il suggello dell’elevata probabilità logica su ragionamenti probatori che rimangono altamente incerti quanto al carattere salvifico delle condotte mancate e che non si confrontano adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta. Anche in tale ambito, il rischio di ingannevoli distorsioni del giudizio può essere evitato solo attraverso una serrata ricerca prima ed analisi poi delle contingenze nel caso concreto che, come si è accennato, in qualche caso ma non sempre, possono consentire di superare in chiave induttiva il tratto probabilistico (in chiave numerica) dell’inferenza deduttiva. Anche di questa conclusione occorre prendere nota per le implicazioni rilevanti nel presente giudizio, di cui pure si parlerà nel prosieguo.
9. Alla luce delle enunciazioni di principio sin qui proposte è possibile analizzare alcuni passaggi delle pronunce di merito afferenti al nesso causale.
Si è già detto che nel presente giudizio non è insorto alcun dubbio sul ruolo eziologico dell’amianto nell’ambito dell’affezione tumorale denominata mesotelioma pleurico. È pure emerso, tuttavia, che tale affezione ha carattere multifattoriale e riconosce, accanto all’amianto, altri meno rilevanti fattori eziologici. Si prospetta, dunque, il problema, cui si è sopra fatto cenno, della pluralità delle cause: il ragionamento esplicativo che riconduce l’evento ad uno piuttosto che ad un altro fattore eziologico risulta concludente quando è possibile attribuire, sulla base di affidabili informazioni scientifiche, rilevanza causale al fattore considerato; e non vi sono elementi concreti che consentano di ipotizzare plausibilmente, ragionevolmente, la riconducibilità dell’evento stesso ad un distinto fattore oncogeno.
I giudici di merito mostrano di avere avvertita consapevolezza di tale aspetto dell’indagine causale. Infatti, da un lato si è fornita dimostrazione della significativa esposizione all’amianto e dall’altro si è esclusa l’esistenza di concreti indizi che possano accreditare alternative ipotesi eziologiche riconducibili a pregresse esposizioni lavorative all’amianto o ad esposizione ad altri fattori oncogeni.
Tale valutazione si sottrae alle censure prospettate dalle difese. Si è posto in luce, infatti, la protrazione per oltre un decennio della prestazione lavorativa; e si è rimarcata (sulla base di numerose deposizioni testimoniali) l’esposizione ricorrente e rilevante alle polveri d’amianto sia nell’attività ordinaria di manutenzione delle carrozze, sia nel corso delle attività di manutenzione straordinaria, nel corso delle quali i pannelli di amianto rimanevano esposti spesso sgretolandosi. Oltre a ciò, vi era la necessità di scoprire i condotti elettrici delle carrozze, imbottiti o coperti da amianto, liberandoli dalle loro protezioni. Infine, si è aggiunto che la polverosità dell’ambiente era accresciuta dalla consuetudine di pulire con delle semplici scope ed in assenza di qualsiasi precauzione le polveri contaminate depositate sui pavimenti; e da quella di spruzzare getti d’aria sulle stesse polveri. A tale riguardo il Tribunale ha poi posto un argomento scientifico che rende particolarmente significativo il contesto descritto. Si è infatti evidenziato che la semplice intensità dell’esposizione non esprime un valore apprezzabile in assoluto: essa deve essere coniugata con la durata dell’esposizione in modo da individuare la “dose cumulativa”.
La Corte territoriale, inoltre, ha plausibilmente confutato la tesi difensiva secondo cui si sarebbe in presenza esposizioni non significative, come dimostrato dalla insorgenza di un solo caso di mesotelioma e di nessun caso di asbestosi. La risposta a tali obiezione è puntuale e palesemente immune da vizi logici. Si evidenzia, come si è sopra accennato, sulla base di non contestate valutazioni del consulente del pubblico ministero, che l’insorgenza di un caso su una coorte di 50 lavoratori è un dato altamente significativo sul piano statistico in rapporto alle percentuali di comparsa di tale affezione in ambito lavorativo e non; e che inoltre l’asbestosi ha una distinta eziologia, collegata ad esposizioni particolarmente elevate, sicché non rileva il mancato riscontro di tale affezione tra i lavoratori della FTM. La stessa Corte esclude pure la plausibilità di ipotesi esplicative che riconducono l’evento all’esposizione ad altri fattori causali, non essendo emerse indicazioni in tal senso dall’attività istruttoria. Pure le censure prospettate a tale ultimo riguardo risultano infondate. Infatti, la pronuncia d’appello dimostra che la vicenda personale della vittima è stata adeguatamente investigata.
Si è fatto riferimento alle dichiarazioni del lavoratore relative alle sue esperienze lavorative pregresse, nonché alle dichiarazioni di testi che hanno condiviso tali attività, dalle quali è emerso che il B., nella veste di elettricista, ricopriva incarichi che non implicavano alcuna concreta possibilità di contatto con l’amianto. Si è posto pure in luce che non vi è traccia dell’esposizione ad erionite o a radiazioni ionizzanti e neppure di patologie infiammatorie.
D’altra parte, il Tribunale, con diffuso e ben argomentato apprezzamento condiviso dal giudice d’appello, confuta la tesi secondo cui l’innesco della patologia possa essere determinato anche dall’occasionale esposizione a bassissime dosi di amianto e possa aver quindi avuto luogo anche in ambito extra lavorativo ed in contingenze che non possono essere ricostruite. La confutazione è basata non solo sulle valutazioni degli esperti che vengono ritenuti più attendibili, ma anche sulla lettura integrale in udienza dell’opinione del riconosciuto massimo esperto nella materia (il prof. Se.), sottoposta alla successiva discussione critica tra le parti. A tale riguardo, recependo le valutazioni degli esperti, si pone in luce che il pensiero di tale studioso è stato distorto e decontestualizzato. Egli, in realtà, si oppose sempre all’idea di fatalità del fenomeno sostenuta dalla difesa; ed al contrario confutò la tesi che una minima esposizione equivalga ad una massiccia. Tale punto di vista, afferma ancora il Tribunale, si desume in modo lineare dalla lettura integrale del documento. Rileva, dunque, come fattore causale la concreta e significativa esposizione in ambito lavorativo. Condividendo le valutazioni espresse in proposito dal perito dr. S., cui si attribuisce particolare qualificazione professionale, si rileva che nel caso in esame è assente qualsiasi sospetto di esposizioni significative a radiazioni ionizzanti o ad altre cause che in letteratura sono state accreditate di essere alternative all’amianto nella determinazione della malattia. Si conclude che, in conseguenza, è “processualmente certo in termini di sicurezza logica per il difetto di alternative seriamente proponibili o anche solo proposte nel processo, che la morte del Bo. per mesotelioma sia riconducale all’esposizione all’amianto nel corso dell’attività lavorativa prestata” presso l’azienda FTM. Dunque, per i giudici di merito, l’ipotesi che riconduce l’evento all’esposizione lavorativa di cui ci si occupa è caratterizzata da elevata probabilità logica. Tale apprezzamento in fatto è arricchito da quanto esposto nella sentenza del Tribunale a proposito dell’individuazione (da parte del consulente Bi. cui si riconosce particolare affidabilità) dei corpi dell’asbesto nei reperti istologici del tessuto polmonare.
La ponderazione dei giudici di merito è conforme ai principi sopra esposti a proposto del ragionamento esplicativo: la selezione dell’ipotesi eziologica più attendibile avviene dopo aver confutato le alternative ipotesi causali, quella dell’esposizione lavorativa anteriore all’impiego in FTM e quella di esposizione extralavorativa a bassi dosaggi. A tale ultimo riguardo è ineccepibile la considerazione che se anche l’inalazione di una piccola dose di amianto non è completamente priva di rischio teorico, tale rischio è concreto ed “infinitamente più grave” tra i soggetti esposti.
Dunque il confronto è tra un’ipotesi esplicativa che postula un rischio minimo, teorico, virtuale; ed un’ipotesi che da corpo ad un rischio davvero altissimo plasticamente condensato nelle fibre patogene che vorticano nell’aria spinte dai getti d’aria e dai colpi di scopa. In una situazione di tale genere il realismo della giurisprudenza correttamente seleziona l’ipotesi eziologia conferente al caso concreto, accreditando quella che fa perno sull’esposizione lavorativa. Il tema sarà comunque ripreso più avanti nel contesto della discussione sul sapere scientifico disponibile.
10. Alla luce di tali acquisizioni, il Tribunale e la Corte d’appello hanno esaminato la posizione dei singoli imputati sotto differenti prospettive. Infatti, come si è già accennato, il Tribunale ha ritenuto l’esistenza di una posizione di garanzia nei confronti del solo direttore di esercizio ing. C.; mentre la Corte d’appello ha ravvisato che il ruolo di garante coinvolgeva tutti gli imputati che in vari momenti hanno ricoperto il ruolo di consigliere d’amministrazione.
Lo stesso Tribunale, quanto a C., ha ritenuto che il momento dell’iniziazione del processo patogenetico è pacificamente collocabile, sulla base di non contestate informazioni scientifiche, nella fase iniziale dell’attività lavorativa; e che l’imputato ha assunto il ruolo direttivo altrettanto sicuramente dopo che l’iniziazione stessa aveva avuto luogo. È stato quindi a lungo esaminato il tema scientifico inerente all’esistenza o meno di un effetto acceleratore del processo morboso connesso alla protrazione dell’esposizione alla sostanza dannosa dopo la ridetta iniziazione;
pervenendo alla conclusione che l’accelerazione dell’insorgenza della patologia (o l’abbreviazione del periodo di latenza) si riscontra solo in alcuni casi e che, conseguentemente, tale informazione non può essere utilizzata per la soluzione del problema causale nello specifico caso.
La Corte d’appello, invece, da un lato ha ritenuto l’esistenza di una posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati; e dall’altro non solo ha ritenuto che l’accelerazione sia un dato acquisito alla conoscenza scientifica, ma ha anche ravvisato che, pur trattandosi di informazione probabilistica, essa sia idonea a fondare l’imputazione dell’evento letale nei confronti degli imputati.
Tale questione, può senz’altro affermarsi, costituisce il nucleo più dibattuto tra le parti nel giudizio in esame. Dalla sintesi delle opinioni espresse al riguardo dai periti e dai consulenti delle parti è possibile trarre la conclusione che si tratta di tema molto controverso. Tale incertezza, d’altra parte, si rinviene nella giurisprudenza di merito e di legittimità che della questione si è ormai ripetutamente occupata.
Si è in effetti in presenza di un problema altamente complesso che presenta almeno due aspetti ben distinti. Da un lato si tratta di comprendere se l’enunciazione scientifica inerente all’effetto acceleratore della protratta esposizione sia sufficientemente affidabile; e di chiarire inoltre, in caso di risposta affermativa a tale iniziale quesito, se l’accelerazione di cui si discute si determini immancabilmente o solo in alcuni casi. Dall’altro lato, poi, ove sia provata la scientificità dell’enunciato, occorre comprendere come esso possa essere utilizzato nell’inferenza probatoria.
11. Delle divergenti valutazioni dei giudici di merito in ordine a tale decisivo aspetto scientifico della sentenza si darà conto con maggiore dettaglio più avanti. Qui, preliminarmente, pare più utile mostrare in che modo la giurisprudenza che ha ritenuto l’esistenza dell’effetto acceleratore ha utilizzato logicamente tale acquisizione scientifica nel ragionamento probatorio.
A tale riguardo è di particolare interesse la prima sentenza (Cass. 11 luglio 2002, Macola) che, condividendo la logicità dell’itinerario probatorio percorso dalla Corte d’appello di Venezia, ha affermato l’esistenza dell’effetto acceleratore in una vicenda che presenta forti analogie con quella in esame. Infatti era in questione la responsabilità di alcuni amministratori di una società per azioni che gestiva la produzione, riparazione e demolizione di carrozze ferroviarie. Negli stabilimenti si verificava una forte ed incontrollata esposizione all’inalazione di polveri d’amianto; ed i giudici di merito avevano riconosciuto ciascuno degli amministratori responsabile dell’evento morte di alcuni lavoratori, affetti da mesotelioma pleurico e peritoneale, a causa dell’incontrollata esposizione alla sostanza per distinti periodi di circa tre anni.
Peraltro, i lavoratori erano stati esposti alla sostanza, nel complesso, per periodi ben maggiori. I motivi di ricorso delle difese erano centrati sulla mancata dimostrazione della connessione eziologica tra l’esposizione incontrollata all’amianto nei periodi oggetto dell’imputazione e l’evento letale, giacché con ogni probabilità l’iniziazione del processo patologico era avvenuta in epoca ben anteriore al verificarsi delle condotte addebitate agli imputati.
L’aspetto decisivo della pronunzia di legittimità riguarda la valutazione delle informazioni scientifiche sugli effetti delle polveri di amianto utilizzate dalla Corte di merito, basate sull’esistenza di un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita, determinata dalla concentrazione e dalla durata dell’esposizione, e risposta tumorale. La tesi scientifica era stata sintetizzata dalla Corte territoriale nei seguenti termini: “i periti ed i consulenti tecnici hanno evidenziato il rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla durata e dalla concentrazione dell’esposizione) e risposta tumorale: aumentando le dosi di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte”.
Dunque, secondo questa tesi, la risposta all’esposizione si esprime in due direzioni: aumentando la dose di cancerogeno, da un lato aumenta l’incidenza dei tumori, dall’altro si abbrevia la durata della latenza con conseguente anticipazione della morte.
L’accelerazione del processo morboso è per la prima volta analizzata appieno dalla Corte Suprema nelle sue ricadute sotto il profilo dell’imputazione causale. Si afferma, infatti, che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto la rilevanza causale dell’indiscriminata esposizione all’amianto per oltre un triennio addebitata agli imputati. Tale esposizione ha infatti concorso a determinare l’insorgenza della malattia o a ridurre il periodo di latenza e quindi ad anticipare l’evento morte.
La sentenza colloca tale decisiva valutazione nella sua corretta cornice teorica: si evidenzia l’indiscusso ruolo eziologico della condotta che anticipa l’evento e si chiarisce che la soglia di anticipazione che segna la rilevanza causale della condotta non è quella di ore o minuti, lasciando così intendere che è significativa anche un’anticipazione di pochissimi giorni.
Sulla base di tali premesse la Corte giunge a ritenere causalmente rilevante il mancato controllo delle polveri per un significatico, pluriennale arco di tempo, poiché la massiccia esposizione all’amianto derivatane ha agito senz’altro in due possibili modi, ambedue eziologicamente rilevanti: o ha determinato l’insorgenza della neoplasia, o ne ha abbreviato i tempi di latenza. Non è possibile determinare quale di tali ipotesi si sia concretizzata ma la Corte, riportandosi a condivise opinioni dottrinali, rammenta che la spiegazione causale non deve riguardare tutti gli anelli della catena causale. In effetti, quando sono prospettabili diversi sviluppi della catena causale, il criterio condizionalistico d’imputazione richiede solo che la condotta umana considerata sia condizionante, cioè ineliminabile, ai fini della spiegazione dell’evento, in tutti gli ipotizzati e possibili processi causali.
Nel caso di specie, rispetto ad ambedue i possibili sviluppi causali considerati (connessione dell’esposizione all’amianto con l’insorgenza o con i tempi di sviluppo della patologia), la condotta degli imputati è condizionante. La rilevanza della esposizione all’inalazione di massicce dosi di amianto è causale nel caso in cui essa abbia contribuito all’accelerazione dei tempi di latenza della malattia già iniziata in epoca precedente. Qui il discorso della pronunzia è sufficientemente chiaro ed in linea con la contestata enunciazione scientifica che, come si è visto, correla i tempi della fase di latenza con i tempi e l’intensità dell’esposizione: il processo degenerativo era già iniziato a causa delle pregressa esposizione alla sostanza, ma la continuazione dell’esposizione ha accelerato la progressione. Pertanto l’evento storicamente determinato si sarebbe senz’altro prodotto in epoca di gran lunga successiva, nel caso in cui l’esposizione alle polveri fosse stata esclusa o fortemente limitata nel periodo considerato.
Ma la Corte ritiene causale l’esposizione alle polveri anche nel caso in cui si ipotizzi che il triennale contatto attribuito agli imputati sia avvenuto in un fase in cui l’iniziazione della degenerazione non era ancora avvenuta. Qui la dimostrazione del nesso diventa più complicata: i lavoratori hanno inalato amianto per moltissimi anni, prima e dopo il triennio in esame e si tratta di stabilire se il periodo considerato sia stato condizionante ai fini dell’insorgenza della malattia. È chiaro che isolare, ai fini del giudizio controfattuale, gli effetti di tale esposizione al fine di verificarne la rilevanza condizionante è veramente arduo. La Corte risolve il problema ritornando ancora alle modalità dell’azione dell’amianto, che si estrinseca in funzione delle dosi non solo per ciò che riguarda la progressione dei tempi di latenza, ma anche per quanto attiene ai tempi d’insorgenza. Insomma, sembra voler ritenere la Corte, la malattia sarebbe con ogni probabilità insorta anche senza l’esposizione oggetto del giudizio, e tuttavia anche in tale ipotesi, quella stessa esposizione ha accelerato i tempi d’insorgenza dell’alterazione cellulare alla base del fenomeno neoplastico. Anche in questo caso, quindi, l’evento storicamente determinatosi, cioè la morte in un determinato giorno, è stato condizionato dall’esposizione di cui si parla: senza di essa l’iniziazione cellulare sarebbe avvenuta più tardivamente e per conseguenza l’evento morte sarebbe stato differito rispetto a quanto accaduto in concreto.
Come si vede, la pronunzia di legittimità, lungi dal proporre un proprio punto di vista scientifico, si limita a riscontrare le basi logiche del ragionamento del giudice di merito, articolatosi alla stregua di informazioni scientifiche in ordine all’effetto acceleratore dell’esposizione protratta penetrate nel processo nel corso del giudizio di appello.
Il punto di vista della sentenza Macola è stato ribadito in altre pronunzie sia in tema di mesotelioma (Cass. 4, 2 ottobre 2003, Monti;
Cass. 4, 11 aprile 2008, Mascarin, in Rv. n. 240517), sia in tema di carcinoma al naso a seguito di esposizione a polveri di legno (Cass. 4, 19 giugno 2003, Giacomelli).
Si registrano, tuttavia, pure sentenze problematiche sul tema.
In un caso (Cass. 4, 15 maggio 2003, Èva) è stata annullata con rinvio la pronunzia che aveva ritenuto dimostrato l’effetto delle esposizioni successive all’iniziazione sulla base di un enunciato scientifico ritenuto discutibile (la possibilità di ipotizzare “ulteriori focolai di malignità” dopo il primo avvio della cancerogenesi).
Pure un’altra pronunzia (Sez. 4, 29 novembre 2004, Marchiorello) relativa a fatti accaduti nella stessa azienda cui si riferisce la sentenza Macola, mostra aspetti problematici. Infatti, il primo giudice ha espresso pronunzia di condanna; il giudice d’appello ha invece assolto sulla base di alcuni passaggi delle dichiarazioni dibattimentali dei periti ritenute problematiche circa l’esistenza di un sicuro effetto di abbreviazione della latenza del processo carcinogenetico. La Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto tale conclusione non sufficientemente motivata in raffronto con la sentenza di primo grado, che ha dato atto di importanti studi sul tema ed ha riferito le conclusioni dei periti nel senso che, con la diminuzione dell’esposizione, ci si sarebbe dovuto attendere un effetto positivo anche in termini di aumento della latenza.
In conseguenza, la pronunzia d’appello è stata annullata con rinvio.
Anche in altra recente sentenza questa Corte ha colto incongruenze quanto all’utilizzazione del sapere scientifico afferente al mesotelioma (Cass. 4, 12 novembre 2007, rv. 238777); e con una recentissima pronunzia (in un caso assai simile a quello in esame) ha annullato con rinvio la sentenza di merito recante l’affermazione di responsabilità degli imputati sulla base di una non motivata adesione alla tesi dell’effetto acceleratore dell’esposizione protratta (Cass. 4, 10 giugno 2010, Quaglierini).
Tale sintesi della giurisprudenza rende chiaro che la possibilità di dimostrare il nesso causale in chiave condizionalistica, e quindi nel rispetto dei principi dell’ordinamento penale, dipende in larga misura dall’esistenza e dalla configurazione della legge scientifica oggetto di discussione, relativa all’effetto acceleratore dell’esposizione protratta. Pertanto occorre a questo punto analizzare con maggiore dettaglio le prese di posizione dei giudici di merito in proposito.
12. Secondo alcuni consulenti delle difese la malattia, a differenza dell’asbestosi e del tumore polmonare, non è correlata alla dose cumulativa di esposizione (non è dose-dipendente) e cioè la probabilità della sua ricorrenza non dipende dalla durata e dall’intensità dell’esposizione all’inalazione; e tali elementi non influenzano neppure il tempo di latenza, che è sempre molto alto (da 25 a 50 anni). L’amianto è un inquinante ubiquitario e la concentrazione patogena può anche essere molto bassa, anche poche particelle per c.c., talmente bassa che nessun sistema di abbattimento potrebbe eliminarla. È la tesi della frigger dose. Essa è sorretta dalla citazione di alcuni lavori scientifici e da alcuni esempi: quello della moglie che lavava le tute del marito e si ammalò negli stessi tempi del coniuge; e quello dei turchi di K. esposti all’erionite ed ammalatisi in tempi non diversi sia che avessero continuato a risiedere in Turchia, sia che si fossero trasferiti all’estero allontanandosi dai luoghi dell’esposizione.
Si è già dato conto dell’argomentata e persuasiva confutazione che i giudici di merito hanno dato della tesi della trigger dose: un ubiquitario rischio infinitesimale, teorico, non può essere realisticamente raffrontato con il rischio davvero elevatissimo determinato dal continuo contatto con fibre aerodisperse e drammaticamente concretizzatosi. Ma occorre pure aggiungere che il tema della dose che può spiegare l’iniziazione è logicamente distinto da quello afferente all’effetto acceleratore: quale che sia la soluzione data al problema dell’innesco, dell’iniziazione del processo patogenetico, resta separato ed aperto il quesito in ordine all’ipotesi che enuncia l’abbreviazione della latenza per effetto della prosecuzione dell’esposizione dopo l’iniziazione.
D’altra parte, tale ultimo tema è l’unico rilevante per l’imputato C.. Infatti l’esposizione si era protratta per ben cinque anni prima che costui assumesse, all’inizio del 1977, il suo incarico; e, considerati anche i tempi medi di insorgenza della patologia, i periti collocano concordemente nel primo periodo di lavoro della vittima gli episodi di esposizione decisivi ai fini della determinazione dell’evento. Dunque, per determinare il ruolo eziologico della condotta di tale imputato occorre valutare se possa ritenersi con ragionevole certezza che la protrazione dell’esposizione abbia abbreviato il periodo di latenza. Situazione non dissimile si configura per altri imputati che, secondo i giudici di merito, hanno ricoperto il ruolo di consigliere di amministrazione dopo che l’iniziazione aveva avuto luogo.
Risalta, dunque, la centralità del problema dell’effetto acceleratore che può riguardare sia l’accelerazione dell’iniziazione, sia il distinto tema dell’abbreviazione del periodo di latenza che intercorre tra iniziazione del processo patogenetico e la formazione della prima cellula cancerosa; con l’importante precisazione che i due ambiti problematici non sono necessariamente coincidenti.
In proposito la prima sentenza da conto della tesi sostenuta dai consulenti dell’accusa secondo cui, pur essendo l’amianto un inquinante ubiquitario, le categorie professionali intensamente esposte corrono rischi infinitamente più elevati. Si tratta di un punto di vista che coincide con quello espresso dal prof. Se..
I citati consulenti assumono che la tesi dell’indipendenza della patologia dalla dose di esposizione non ha alcuna plausibilità biologica: è una regola generale che il rischio aumenta in proporzione alla dose e non si comprende perché il mesotelioma dovrebbe rappresentare l’unica eccezione a tale regola. Se la dose di amianto fosse irrilevante il rischio di mesotelioma dovrebbe coinvolgere tutta la popolazione urbana, ma ciò che si osserva è proprio il contrario.
La sentenza da pure conto che detti consulenti analizzano criticamente gli esempi contrari (i casi della moglie che lava le tute e dei turchi esposti ad erionite) prospettati dalla parte avversa confutandone la significatività.
La conclusione provvisoria cui il Tribunale giunge è che si è davvero in presenza di temi assai complessi; Né i precedenti giudiziari aiutano, giacché in essi sono penetrate informazioni in fatto e scientifiche che non possono essere automaticamente trasposte all’interno del processo in esame, ove le tesi scientifiche si contrappongono in modo ben più problematico ed irrisolto.
Fatta questa premessa, la pronuncia di merito entra nella parte più problematica della disamina, che riguarda l’analisi critica delle diverse opinioni prospettate da periti e consulenti. Si da conto al riguardo che i contrasti evidenziatisi nel corso dei diversi incidenti probatori si sono ulteriormente accentuati in udienza.
Il giudice reputa in primo luogo apprezzabili e persuasive le conclusioni cui giunge il perito dr. S. per la coerenza degli argomenti prospettati, per la presenza di una dotta bibliografia, per la prospettazione di un “panorama eccezionalmente chiaro” del fenomeno del collegamento tra mesotelioma ed esposizione all’amianto nel suo complesso. Per quel che qui interessa maggiormente, la conclusione del perito è che pur non esistendo una dose senza effetto, vi è un rapporto tra entità dell’esposizione ed entità della risposta neoplastica. Inoltre, agenti cancerogeni anche di natura diversa possono avere un effetto additivo e moltiplicativo sulla risposta neoplastica anche solo nel senso di abbreviare il periodo di latenza.
Tale apprezzamento viene integrato con la ponderazione della valutazione compiuta dal consulente tecnico professor Bi. cui viene riconosciuta speciale autorevolezza per la specifica e qualificata competenza nella materia. Si da conto che l’esperto ritiene che l’effetto acceleratore dell’esposizione protratta è caratteristico di tutte indistintamente le affezioni tumorali e quindi anche del mesotelioma: “la dose è un fattore in tutti i tumori, altrimenti tutta l’epidemiologia del mesotelioma sarebbe assolutamente inspiegabile”. Il Tribunale da conto di aver tuttavia sollecitato il professionista ad un ulteriore approfondimento su un punto che segna il passaggio dalla causalità generale alla causalità singolare nel caso concreto, in cui è certa l’iniziazione del processo patogenetico prima che l’imputato assumesse il suo ruolo in azienda. La domanda è se possa essere ritenuta nel caso concreto la certa rilevanza, quale fattore di riduzione della latenza, dell’esposizione protrattasi per circa sei anni nel corso della gestione imputabile al C.. Il giudice trascrive la risposta che è utile riportare anche nella presente sede: “questo nel caso singolo non è dimostrabile, su base medica non si può rispondere.
Si può rispondere solo in base generale che la dose conta, che molto plausibilmente le dosi aggiunte hanno aggravato la situazione, anche perché l’amianto può produrre una riduzione delle difese immunitarie. Quello che possiamo dire dal punto di vista medico è questo, non di più secondo me”. Il consulente spiega anche che nello sviluppo del processo patologico interagiscono diversi fattori e “questo rende ancora molto più difficile anche dal punto di vista teorico dire se le esposizioni successive sono state veramente determinanti”.
Infine, la pronuncia da conto degli apprezzamenti compiuti in udienza dal perito dottor S. che, pur avendo fornito un qualificato contributo, ha espresso valutazioni oscillanti, influenzate dal tenore delle domande, che in alcuni passaggi sembrano anche prospettare la plausibilità della tesi della irrilevanza della esposizione nella parte finale dell’attività lavorativa anche in considerazione della diversità del ruolo e della minore esposizione che ne derivava.
Sulla base di tali elementi di giudizio il Tribunale trae le conclusioni. Si rammenta che nel processo penale il principio cardine è quello della certezza degli elementi costitutivi del reato, che non può essere confuso con il dubbio sulla fondatezza in ordine alle proposizioni difensive o con la comparazione di probabilità tra le due tesi in fatto che si contrappongono in causa.
Alla luce di tale principio si considera che “lo sviluppo della patologia si caratterizza per la sovrapposizione nel tempo della quantità di fibre, perché la malattia risente della durata ed intensità dell’esposizione, anche successiva all’alterazione del patrimonio genetico”: tale situazione incrementa il rischio.
Tuttavia nel caso esaminato l’esposizione anteriore all’intervento dell’imputato si era protratta per un lungo periodo ed aveva consolidato i suoi effetti sicché, se è possibile ed anzi probabile che in ragione dell’ulteriore esposizione vi fu una abbreviazione dei tempi di latenza, tuttavia non può essere raggiunta al riguardo alcuna certezza logica: “una condanna non può fondarsi su una semplice constatazione di probabilità quale quella che il consulente tecnico e il perito invece indiscutibilmente formulano”. Il canone di giudizio, ribadisce ancora il Tribunale, è quello della certezza enunciato dalle Sezioni unite.
La diversità delle informazioni scientifiche utilizzabili, conclude il primo giudice, spiega perché la decisione sia diversa da quella formulata nel processo Macola in cui, sulla base delle acquisizioni conseguite in quella sede processuale, è stata ritenuta la certa esistenza di una fase di aggravamento successiva all’iniziazione.
13. La valutazione della Corte d’appello è difforme. Con argomenti che saranno analizzati nel prosieguo, è stata ritenuta l’esistenza di posizione di garanzia gravante su tutti gli imputati e la addebitabilità soggettiva delle condotte. Il giudice dell’impugnazione, in conseguenza, è stata chiamato ad esprimere il giudizio causale in riferimento alla posizione di tutti gli imputati che in tempi diversi hanno operato in seno al consiglio di amministrazione dell’ente.
A tale riguardo la Corte territoriale ritiene significative e decisive alcune acquisizioni che vengono sinteticamente enunciate:
gli studi epidemiologici compiuti proprio dal professor Bi. in grado di mettere in evidenza la significativa diversità dei periodi di latenza del mesotelioma per singole categorie di lavoratori; gli analoghi studi epidemiologia di altri autori, idonei a dimostrare l’influenza dell’entità della dose sul periodo di latenza; le indagini biomolecolari che evidenziano il rapporto diretto tra quantità di fibra e periodo di latenza; le concordanti indagini sperimentali sui fatti; la mancanza di spiegazioni in ordine all’assunta peculiarità del mesotelioma, che sarebbe l’unica affezione non influenzata dall’entità della dose assunta; le affermazioni degli esperti S. e Bi. sulla rilevanza della protratta esposizione.
Sulla base di tali acquisizioni ritiene la Corte che la tesi del tumore dose-correlato, se non costituisce una legge universale, è in ogni caso un sapere scientifico probabilistico idoneo a fare ritenere provata con elevato grado di credibilità razionale la necessaria correlazione tra il periodo di esposizione all’amianto e gli effetti nocivi dai quali deriva l’insorgere di affezioni tumorali accelerate proprio dalla protrazione all’esposizione. Tale conclusione, afferma ancora la Corte, è in linea con la giurisprudenza delle Sezioni unite che consente l’utilizzazione non solo di leggi universali ma anche di leggi statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico nonché di generalizzazioni empiriche del senso comune e di rilevazioni epidemiologiche.
Tale conclusione è implicitamente valida con riguardo a tutti gli imputati e, conclude definitivamente la Corte d’appello, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità. 14. Le valutazioni dei giudici di merito sono state oggetto di confutazione da parte delle difese, nei termini di cui si è sopra dato conto. In breve, la censura ha riguardato l’affidamento acritico nelle valutazioni espresse da alcuni degli esperti; il disinteresse per le opinioni avverse; il parziale travisamento delle opinioni scientifiche. Il tema controverso ha assunto tale centrale evidenza che, come si è accennato, una delle difese ha sollecitato l’assegnazione del processo alle Sezioni unite, affinché la Corte Suprema esprima un giudizio definitivo sulla scientificità dell’assunto di cui si discute. Il problema, dunque, si amplia ulteriormente. Occorre infatti comprendere a quali condizioni possa essere ritenuta la scientificità di un enunciato; ed in che modo il giudice di legittimità possa esprimersi sulla scientificità di un assunto utilizzato nell’argomentazione probatoria.
Per tentare di rispondere a tali davvero cruciali problemi, che colgono alla radice il tema dell’utilizzazione del sapere scientifico nel processo penale, occorre in primo luogo considerare che il problema della prova scientifica prende corpo quando l’inferenza probatoria che è alla base dell’accertamento del fatto non può essere articolata sulla base delle conoscenze ordinarie, del sapere diffuso. Si tratta di una contingenza che con frequenza si concretizza in processi come quello in esame, in cui l’indagine sulla relazione eziologica implica la necessità di tentare di comprendere intricati e spesso oscuri, ignoti intrecci che si muovono all’interno del processo che conduce all’esplosione di una patologia. In tali situazioni il sapere scientifico costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito: si tratta di tentare di metabolizzare la complessità e di pervenire, così, ad una spiegazione degli accadimenti che risulti infine comprensibile per tutti, ostensibile. Tale passaggio dal complesso ed oscuro ad un definito, corroborato enunciato fattuale richiede non di rado la soluzione di problemi che riguardano da un lato l’affidabilità, l’imparzialità, delle informazioni che, solitamente attraverso l’indagine peritale, penetrano nel processo; e dall’altro attengono alla logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza. Tali momenti topici dell’indagine fattuale vengono discussi nella dialettica processuale e conducono infine al giudizio critico che il giudice di merito è chiamato ad esprimere sulle valutazioni tecniche compiute nel processo. La razionale ponderazione, naturalmente, trova il suo momento di obiettiva emersione nella motivazione della sentenza, in cui occorre in primo luogo dar conto del controllo esercitato sull’affidabilità delle basi scientifiche del giudizio. Si tratta di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum:
custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo. Le indicate modalità di acquisizione ed elaborazione del sapere scientifico all’interno del processo rendono chiaro che esso è uno strumento al servizio dell’accertamento del fatto e, in una peculiare guisa, parte dell’indagine che conduce all’enunciato fattuale. Ne consegue con logica evidenza che la Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all’affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata.
Tale valutazione, giova ripeterlo, attiene al fatto, è al servizio dell’attendibilità dell’argomentazione probatoria ed è dunque rimessa al giudice di merito che dispone, soprattutto attraverso la perizia, degli strumenti per accedere al mondo della scienza. Al contrario, il controllo che la Corte Suprema è chiamato ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime.
Del resto questa Corte Suprema ha già avuto modo di enunciare che il giudice di legittimità “non è giudice del sapere scientifico, e non detiene proprie conoscenze privilegiate. Esso è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto” (Cass. 4, 30 settembre 2008, n. 42128). Tuttavia la questione è tanto importante che richiede qualche ulteriore breve approfondimento.
È sotto gli occhi di tutti che l’impegnativo tema di cui ci si occupa ha determinato nella giurisprudenza lo sviluppo della cultura dell’epistemologia e del discorso scientifico. Questo salutare ampliamento degli orizzonti del giudice deve essere tuttavia condotto con grande cautela. Occorre liberarsi dell’idea ingenua che l’epistemologia ci possa indicare un metodo infallibile per l’approccio al sapere scientifico e per la sua utilizzazione nell’inferenza probatoria. Per rendersene conto è sufficiente osservare la varietà delle teorie che si contendono il campo nell’ambito della filosofia della scienza. La scelta dell’una o dell’altra corrente di pensiero rischia di rendere la giurisprudenza succube di complicate ed a volte astruse disquisizioni teoretiche, e di allontanarla dalla sfera della sensatezza, della comune comprensibilità. Il pericolo maggiore è quello di esporre al rischio dell’errore o del fraintendimento enunciazioni vitali per il discorso sulla inferenza fattuale e quindi di minare alla base la credibilità dello stile della giurisprudenza nell’articolazione del ragionamento probatorio: un pericolo testimoniato dalle censure, fondate o infondate che siano, che hanno colpito le Corti supreme, quella italiana compresa, quando hanno indicato uno stile dell’indagine fattuale.
Non si tratta, dunque, di indicare un metodo del corretto esercizio della conoscenza (una sorta di formula magica) quanto piuttosto di attenersi ad un criterio più debole e pragmatico; di individuare una base sicura, un punto fermo che indirizzi il lavoro del giudice di merito. Tale nucleo essenziale e veramente fermo è la ragione, l’agire ideativo in modo oggettivo e logicamente ineccepibile, cioè basato sulla serrata ricerca ed analisi dei fatti concreti, mosso dalla disinteressata ricerca del traguardo invisibile costituito dalla certezza. Un agire razionale obiettivato in un atto, la motivazione, che della razionalità strenuamente applicata ai fatti è la condensazione ostensibile e criticabile.
Traducendo con maggiore concretezza le enunciazioni proposte, il vigilato esercizio della ragione implica la necessità di comprendere, per ciascuna delle numerose inferenze che vengono agite nel corso del complessivo ragionamento probatorio, qual è la struttura dell’operazione logica che si compie e qual è il ruolo che è chiamato a svolgervi il sapere scientifico. L’individuazione della struttura logica di ciascuna inferenza costituisce il primo e più affidabile strumento per sfuggire all’errore e per stornare il pericolo di abbandonare il criterio di obiettiva razionalità per rifugiarsi in argomentazioni di tipo retorico. Si tratta di un itinerario di cui si è dato conto più sopra e che sarà meglio chiarito quando saranno posti in luce gli aspetti critici dei ragionamenti sulla causalità articolati dalla Corte d’appello.
15. Prima, però, occorre riprendere un tema solo accennato e che riveste vitale interesse nel presente giudizio, quello dell’approccio al sapere scientifico, quando esso non è consolidato, non è comunemente accennato perché vi sono tesi in irrisolto conflitto o si è in presenza di problemi causali in tutto o in parte nuovi. Si fa naturalmente riferimento alla contrastata tesi, di cui si è dato conto, della dose-dipendenza e dell’effetto acceleratore dell’esposizione protratta.
Sul punto i giudici di merito non sono d’accordo Né tra loro Né con le difese. La fondata censura che le stesse difese muovono particolarmente alla sentenza d’appello è quella, in sintesi estrema, di aver privilegiato la tesi dell’effetto acceleratore, trascurando di spiegarne a fondo le ragioni e di analizzare la tesi contrapposta della dose-indipendenza. La censura è giunta a sostenere che la Corte territoriale ha arbitrariamente enunciato una propria tesi senza spiegarla, senza ancorarla al sapere scientifico;
e di aver quindi fondato l’imputazione causale dell’evento sulla base di una mera, arbitraria massima d’esperienza.
L’esame di questa censura richiede qualche considerazione di carattere generale. L’idea di causa è parte essenziale dell’immagine che l’uomo ha del mondo ed è uno strumento concettuale insostituibile per la soluzione di problemi conoscitivi che continuamente insorgono nel mondo della vita come in quello della giurisprudenza. In conseguenza, non può essere accettata l’idea che la risoluzione di un problema causale debba sempre sottendere una base scientifica precostituita e certa. Occorre invece considerare che sia pure in rare circostanze le emergenze fattuali sono tante e tanto chiare da consentire di articolare il ragionamento probatorio in chiave induttiva, cioè sulla base della mera analisi logica dei fatti. Si tratta del baconiano ragionamento induttivo i cui canoni si rinvengono, sviluppati, pure in J. S. MILL. L’esempio classico è quello dell’agente che patisce quando assume una determinata sostanza ed è invece immune da sofferenza quando non l’assume. Il danno è maggiore quando l’assunzione è abbondante. È escluso che la lesione sia determinata da altre sostanze assunte in concomitanza, poiché esse fanno parte delle consolidate ed innocue abitudini del soggetto.
E così via. Si giunge così alla vindemiatio, cioè all’individuazione del fattore che determina l’affezione. Si è in tali casi in presenza di una analisi causale retrospettiva dei dati che procede pur in assenza di precise conoscenze scientifiche. Una tale contingenza è davvero estrema, tanto più nel presente che vede quasi sempre la possibilità di utilizzare in qualche modo informazioni scientifiche di sfondo nell’analisi causale di un accadimento. In realtà, anche quando non si dispone di preesistenti generalizzazioni ad hoc, la conoscenza di base aiuta quasi sempre ad analizzare ed inquadrare qualche aspetto del problema da risolvere.
Acquisito dunque che, particolarmente nei casi complessi, l’apporto scientifico è necessario e comunque utile, il discorso si complica quando, come nel caso in esame, si sia in presenza di diverse teorie esplicative antagoniste e vi sia disparità di opinioni tra gli esperti. Senza dubbio, non è possibile ritenere che l’utilizzazione di una legge scientifica imponga che essa abbia riconoscimento unanime. Infatti, un consenso davvero generale nell’ambito della comunità scientifica si registra poco frequentemente. Al riguardo le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno già avuto modo di affermare, condivisibilmente, che le acquisizioni scientifiche cui è possibile attingere nel giudizio penale sono quelle “più generalmente accolte, più condivise”, non potendosi pretendere l’unanimità alla luce della ormai diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità del sapere scientifico (Sez. Un. 25 gennaio 2005, Rv. 230317).
D’altra parte il contesto della dialettica processuale sembra fatto apposta per enfatizzare la diversità delle opinioni, soprattutto attraverso l’azione degli esperti. A tale proposito una vasta letteratura internazionale e lo stesso esercizio dell’attività giudicante nel merito mostrano che la valutazione dell’attendibilità degli enunciati della scienza è aperta a vari pericoli: la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali o occulte tra i membri di una comunità scientifica; il carattere distruttivo delle affermazioni scientifiche che si sviluppa nella dialettica dibattimentale, particolarmente nel processo accusatorio; la complessità e la drammaticità di alcuni grandi eventi e la difficoltà di esaminare i fatti con uno sguardo neutro dal punto di vista dei valori; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche.
Tale situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante un ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico.
Da questo punto di vista, come è stato autorevolmente considerato, un ordinamento processuale come quello italiano presenta qualche aspetto positivo: il giudice professionista, protagonista dell’ammissione della prova peritale come atto neutro e della ricostruzione probatoria del fatto; l’obbligo di razionale giustificazione delle scelte decisorie attraverso la motivazione;
infine, il controllo di razionalità affidato alla Corte di legittimità.
Tuttavia la difficoltà dell’indagine e la prospettiva dell’errore non possono essere nascoste. Si è visto che il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle leggi scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall’apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto. Di tale aspetto dell’indagine il Tribunale mostra di avere piena consapevolezza. Esso esplicita diffusamente le ragioni che accreditano l’autorità scientifica di due studiosi (il prof. Bi. ed il dr. S.) che hanno una qualificata competenze maturatasi sul campo ed hanno offerto argomentazioni che vengono riconosciute come coerenti, razionali, basate anche su rimandi bibliografici. Occorre tuttavia prendere atto che tutto questo, in situazione complesse come quella in esame, può non bastare e nel caso in esame certamente non basta. Il fatto è che il tema del ruolo patogeno dell’amianto non è cronologicamente nuovo, ma presenta ancora ampi parti oscure e soprattutto conflitti tra differenti scuole di pensiero.
In particolare, alla luce di quanto esposto in questa ed in altre sentenze, se è indiscusso l’effetto patogeno, non sono stati invece compresi completamente i sottili, riposti meccanismi processuali che, attraverso l’interazione di diversi fattori, conducono alla formazione, dopo una latenza straordinariamente lunga, alla prima cellula degenerata. Su tali questioni, ed è l’aspetto che maggiormente interessa, il dibattito è stato ed è planetario.
Su alcune questioni controverse il Tribunale è riuscito a fornire risposte appaganti, condivise dalla Corte d’appello. Si fa riferimento al tema della frigger dose di cui si è già parlato più sopra. La risposta dei giudici di merito è basata, oltre che sull’opinione degli esperti più qualificati intervenuti nel processo, sul punto di vista del più autorevole studioso ( Se.), analizza il suo punto di vista ed i tentativi che sono stati compiuti per deviarne il significato con strumentale decontestualizzazione di alcune espressioni. La valutazione dei giudici di merito (lo si è già messo in luce, ma il tema merita di essere ripreso) è d’altra parte in linea con lo stile e con le regole di giudizio della giurisprudenza. È vero che non esiste una dose completamente innocua, tuttavia il rischio cresce in modo esponenziale con l’accrescersi dell’esposizione e si materializza proprio nei confronti delle persone, solitamente i lavoratori, che sono stati più lungamente ed intensamente a contatto con la sostanza e ne hanno inalato le fibre. Dunque, da un lato un rischio assolutamente teorico; dall’altro un ben concreto, drammatico rischio che si mostra in contingenze come quella in esame: pannelli di amianto smembrati, protezioni dei cavi strappate, polveri di amianto rese volatili con getti di aria compressa o con colpi di scopa. Qui il vigilato realismo della giurisprudenza si impone, in linea peraltro con la struttura logica del pensiero congetturale cui si è fatto sopra cenno: l’ipotesi meramente teorica, fondata su un rischio del tutto virtuale, è sopraffatta senza incertezze da quella fondata sulla conoscenza del meccanismo patogeno che, come si è visto, mette in luce il vertiginoso incremento di probabilità connesso all’intensità dell’esposizione (lavorativa e non) e sul riscontro, nel caso concreto, del continuo contatto con le fibre, documentato anche dai reperti polmonari. Tale valutazione, come pure si è visto, è completata dall’esclusione di teorici, alternativi profili di rischio connessi ad altre sostanze patogene. Sin qui, dunque, il ragionamento è corretto. Esso consente, in linea di principio di determinare (con le precisazioni che saranno espresse nel prosieguo) il ruolo causale degli imputati che hanno amministrato l’azienda nell’epoca che precedette l’iniziazione ed hanno quindi determinato la massiva esposizione cui deve attribuirsi l’evento letale. Tale possibilità è nel caso concreto accresciuta dal fatto che non risultano massive esposizioni lavorative in epoca anteriore alla prestazioni lavorativa nella FTM; e, dunque, non occorre prendere in considerazione l’ipotesi che l’esposizione aziendale abbia solo accelerato il processo patogeno iniziato prima dell’assunzione.
Il lato scientifico di questo processo, al pari di molti altri che hanno caratterizzato la recente esperienza giudiziaria, presenta tuttavia un aspetto molto meno chiaro ed oggetto di vivaci controversie, rese palesi dal dibattito tra gli esperti e dai motivi di ricorso. Si tratta della già evocata questione dell’effetto acceleratore della protratta esposizione. Con la precisazione, che deve essere ancora ribadita, che esso si scompone, in relazione alle problematiche relative all’attribuzione del fatto ad imputati che hanno agito in azienda in tempi diversi, in due sottoproblemi non necessariamente coincidenti, relativi all’accelerazione del processo di iniziazione; ed all’abbreviazione del periodo di latenza tra l’iniziazione stessa e la formazione della prima cellula patologica.
Per comprendere la diversità dei problemi probatori e scientifici è sufficiente riandare alla sintesi della sentenza Macola sopra proposta.
Sul tema scientifico dell’accelerazione dei processi eziologici si registra nella giurisprudenza una situazione che, magari giustificata all’interno di ciascun processo e delle informazioni e valutazioni scientifiche che vi penetrano, risulta tuttavia inaccettabile nel suo complesso. Si fa riferimento al fatto che, come nel presente giudizio, il ridetto effetto acceleratore viene ammesso, escluso, o magari riconosciuto solo parzialmente, con apprezzamenti difformi dei giudici di merito. Questa Corte di legittimità, d’altra parte, come pure si è tentato di chiarire, è chiamata ad esprimere solo un giudizio di razionalità, di logicità dell’argomentazione esplicativa. È dunque errato affermare che essa abbia ritenuto o escluso l’esistenza di tale fenomeno. In realtà la Corte ha solo riconosciuto l’assenza di vizi logici del ragionamento causale articolato sulla base della legge scientifica (ritenuta fondata dai giudici di merito) afferente all’abbreviazione della latenza nel caso di esposizione protratta. La situazione di incertezza è intollerabile per il sistema, tanto più che si tratta di drammatica fenomenologia che con crescente frequenza si riscontra nella prassi.
16. Tale incertezza chiama in causa questa Corte Suprema non (lo si vuole ancora ripetere) per stabilire se la legge scientifica sia affidabile o meno, questione sulla quale essa non ha proprio alcuna competenza o qualificazione; quanto piuttosto per definire quale debba essere l’itinerario razionale di un’indagine che si colloca su un terreno non proprio nuovo, ma caratterizzato da lati oscuri, da molti studi contraddittori e da vasto dibattito internazionale.
Orbene, in situazioni di tale genere il primo passo da muovere, come si è già fatto cenno, è quello di valutare la qualificazione e l’imparzialità dell’esperto. Il Tribunale, come si è già esposto, lo ha fatto. Il problema è che questo può non essere sufficiente.
L’esperto, per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell’attività di studio e ricerca, costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma personale; ed offre, quindi, una visione forse incompleta del tema. Su queste basi il giudice di merito può trovarsi nella condizione di non poter esprimere con piena cognizione di causa il finale giudizio demandatogli in ordine all’affidabilità dell’enunciazione scientifica. Infatti non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze.
L’insufficienza del punto di vista dei singoli è testimoniata nella sia pur puntuale, penetrante indagine condotta dal Tribunale, animata dalla corretta consapevolezza di dover passare dalle informazioni epidemiologiche probabilistiche al giudizio di razionale certezza proprio dell’imputazione causale. Infatti, il punto cruciale dell’effetto acceleratore (che, come si confida di aver mostrato, è questione distinta da quella della trigger dose) non è chiarito fino in fondo alla stregua di una panoramica sullo stato complessivo del dibattito scientifico: l’opinione dei periti non è collocata entro l’essenziale sfondo del sapere condiviso. Soprattutto, non risulta risolta la centrale questione dell’effetto immancabile o solo probabilistico della protratta esposizione dopo l’iniziazione. Qui tutto resta affidato ad un breve passaggio della deposizione dibattimentale del Prof. Bi., in risposta ad una puntuale ma estemporanea richiesta di chiarimenti del giudice, che spiega ai perito come si articoli l’indagine causale condizionalistica della causalità giuridica. L’opinione del dr. S. poi, nonostante gli sforzi compiuti di razionalizzarla facendo la sintesi delle valutazioni espresse nel corso dell’esame dibattimentale, resta non sufficientemente definita. Resta pure non chiarito il peso di un accenno ai dubbi sull’effetto acceleratore espressi dal consulente dell’accusa dr. Ca.. D’altra parte, stabilire se l’effetto acceleratore sia certo o solo probabile fa una differenza decisiva, che sarà meglio posta in luce nel prosieguo. Sul punto, dunque, questa Corte, chiamata al giudizio critico sulla razionalità dell’argomentazione, deve esprimere una censura.
La stessa censura colpisce la breve, laconica argomentazione della Corte d’appello, che ha ribaltato la valutazione del Tribunale senza tuttavia dare adeguatamente conto delle ragioni di tale opposta valutazione, che ha il non trascurabile effetto di estendere l’imputazione causale nei confronti di molti imputati, che tra l’altro si trovano in posizioni fortemente differenziate quanto all’epoca ed alla durata del ruolo aziendale. La stessa Corte, poi, commette un grave errore logico quando passa ad utilizzare nell’inferenza causale il dato scientifico afferente al probabilistico effetto acceleratore. Di ciò si dirà meglio nel prosieguo. Qui invece è bene concludere il discorso di carattere generale in ordine al metodo che, in casi supercomplicati come quello in esame, deve orientare la ricerca in ordine all’affidabilità dell’enunciato scientifico.
Sul tema esiste una letteratura ciclopica e sofisticata, ricca di implicazioni filosofiche. Al riguardo, tuttavia, il giudice penale deve prudentemente attenersi ad un atteggiamento di grande prudenza:
si tratta, come si è già accennato, di evitare il rischio di perdersi in oscure dispute; di mettere la risoluzione delle controversie nella mani di qualche Autorità; di corrodere gli strumenti euristici, fondamentalmente basati sulla logica, sulla disinteressata attenzione ai fatti e sulla dialettica processuale, che governano il raffinato sistema di conoscenza del fatto proprio della giurisprudenza, da più parti visto come esemplare.
Occorre dunque avere sensibilità per i problemi epistemologici, ma guardarli con attento distacco. Per alcuni filosofi della scienza la base della scientificità di un enunciato è costituita dalla sua conferma induttiva; per altri, invece, l’induzione “non esiste” ed è piuttosto la falsificabilità dell’ipotesi ad essere la chiave di volta del metodo scientifico; per altri ancora, con approccio più pragmatista, è piuttosto importante ciò che “funziona”. E così via.
Ovviamente, per pronunziare delle buone sentenze non è per nulla necessario preferire l’una o l’altra tesi. Tuttavia il dibattito epistemologico, e più ancora le criticità che l’esperienza giudiziaria alle quali si è già fatto cenno, ci forniscono alcune indicazioni basilari.
Si può provare ad indicarne alcune. Per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. È ovvio che, in tema di amianto, un conto è un’indagine condotta da un organismo pubblico, istituzionale, realmente indipendente; ed altra cosa è un’indagine commissionata o gestita da soggetti coinvolti nelle dispute giuridiche.
D’altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni di cui si parla relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, per le ragioni che si sono ormai ripetutamente dette, non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una “metateoria” in grado di guidare affidabilmente l’indagine. Di tale complessa indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto.
La Corte ha la consapevolezza di indicare al giudice di merito un compito assai impegnativo. D’altra parte, le difficoltà non possono essere nascoste ma, vanno poste in luce e, se possibile, vanno risolte. La giurisprudenza di merito, d’altra parte, ha dimostrato di saper governare complesse e ciclopiche vicende, imperniate sulla ricostruzione dell’eziologia di numerose patologie connesse all’esposizione a sostanze patogene. Sicché l’itinerario suggerito appare concretamente percorribile. Del resto, considerati i conflitti che dividono esperti e giudici, tale itinerario appare come l’unico strumento per risolvere un dubbio inquietante, gravido di possibili errori di giudizio.
17. Dopo aver messo in luce i dubbi scientifici che vulnerano l’affidabilità dei giudizi di merito e gli itinerari che potranno e dovranno essere percorsi per tentare di ovviarvi, occorre tornare con maggiore dettaglio sugli errori che colpiscono le sentenze in esame.
Delle ragioni che rendono inappagante la pur sagace indagine del Tribunale si è detto: essa fa emergere piuttosto che il complessivo quadro del sapere scientifico, le opinioni argomentate ed autorevoli di due esperti.
Della pronunzia della Corte d’appello cui direttamente s’indirizzano le impugnazioni occorre invece mettere in luce i plurimi errori logici cui si è già fatto cenno: errori ben comprensibili alla luce della particolare difficoltà delle problematiche esaminate e che tuttavia devono essere messi a nudo per evitare che essi si ripetano.
Come si è visto, sul tema dell’effetto acceleratore il Tribunale ha elaborato un proprio diffuso, riccamente argomentato itinerario argomentativo. Esso è stato confutato dalla Corte d’appello, che tuttavia non si è attenuta al consolidato insegnamento espresso da questa Suprema Corte anche Sezioni Unite: il giudice di appello che riformi la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (S.U. 12 luglio 2005, Mannino).
Invece, il giudice dell’impugnazione, come si è sopra esposto, si è limitato ad assumere che il Tribunale ha errato ed a portare a sostegno la scheletrica enunciazione di alcuni studi, senza fornire al riguardo alcuna chiarificazione che consenta di comprendere le ragioni del ribaltamento del giudizio; e senza analizzare le avverse tesi difensive. La motivazione è quindi sotto tale riguardo mancante.
Ancora, la pronunzia è anche internamente contraddittoria. Infatti da un lato si criticano le conclusioni cui il Tribunale è pervenuto circa il carattere probabilistico dell’effetto acceleratore; e dall’altro però si argomenta dando per ammesso tale aspetto probabilistico ed affermando che si configura “se non una legge universale ed assoluta in ogni caso un sapere scientifico idoneo senz’altro, alla luce della sentenza Franzese (……) a far ritenere provata con elevato grado di credibilità razionale la necessaria correlazione tra il periodo di esposizione all’amianto e gli effetti nocivi”.
Ma è in ogni caso tale ultimo passaggio che rivela il decisivo errore logico che pare possa essere colto agevolmente alla luce delle considerazioni che sono state sopra svolte a proposito del sapere probabilistico di carattere generale e della probabilità logica (o corroborazione) dell’ipotesi ricostruttiva della causalità nel caso singolo. Proprio tali considerazioni devono orientare a comprendere la peculiare struttura logica del ragionamento afferente al caso in esame: si discute nel presente processo di un “effetto” acceleratore che costituisce, a quanto pare, un fenomeno, un accadimento, un sub- evento all’interno del complessivo processo eziologico. Orbene, mentre l’evento mesotelioma è un dato osservabile ed è oggetto di informazioni scientifiche alquanto precise che consentono di costruire ragionamenti eziologici, in ordine a tale sub-evento non abbiamo nessuna conoscenza specifica. Esso non è direttamente osservabile, Né abbiamo informazioni biomediche che ci consentano di definire con qualche precisione e con sicura affidabilità la sua morfologia e le sue dinamiche interne, potendosi proporre al riguardo (per quanto sembra d’intendere alla luce delle sentenze di merito) solo delle controverse congetture. In breve, noi qui non abbiamo un evento accertato da spiegare, ma ci interroghiamo ancor prima sull’esistenza dell’evento, del fenomeno. Allora, la prima domanda a cui dobbiamo rispondere è: esiste un accadimento che chiamiamo convenzionalmente “effetto acceleratore”? Si è in presenza di una situazione alquanto peculiare (il dubbio sull’esistenza di un accadimento, di un evento) che a sua volta ci interroga sul modo in cui noi possiamo impostare il ragionamento probatorio.
Infatti, essendosi al cospetto di una scena vuota, di buio totale in ordine ad aspetti fenomenici, induttivi, in qualche guisa direttamente o indirettamente osservabili, la possibilità di risolvere il dubbio ontologico (l’essere o il non essere del fenomeno) è affidata esclusivamente all’esistenza o meno di una legge scientifica sufficientemente accreditata presso la comunità scientifica nei termini che si sono detti. Si tratta di comprendere se esista un sapere generalizzante che possa illuminare la scena.
Come si è visto ( 16 ), tale indagine costituisce il primo obiettivo che il giudice di merito deve (dovrà) perseguire.
Ammessa a fini argomentativi l’esistenza di tale legge, è di grande interesse comprendere come essa possa essere utilizzata all’interno del processo afferente ad un evento concreto; in quale guisa debba essere articolata l’inferenza fattuale. A tal fine è di decisivo rilievo comprendere se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica. Infatti è di tutta evidenza che una legge universale consentirebbe di articolare il sillogismo deduttivo della certezza: 1. l’esposizione protratta all’amianto dopo l’iniziazione determina sempre l’accelerazione dell’evento tumorale; 2. nel caso di specie tale esposizione si è concretata; 3. l’esposizione protratta ha dunque con certezza abbreviato la latenza e quindi la durata della vita. Si tratta dell’itinerario percorso dalla giurisprudenza nei processi che si sono prima menzionati (la sentenza Macola e le altre), nei quali, come si è molte volte ripetuto, i giudici di merito hanno ritenuto provata l’esistenza di una legge universale afferente all’effetto acceleratore.
Diverso sarebbe invece il ragionamento in caso di legge solo probabilistica, con la consueta precisazione che qui si parla di probabilità in senso statistico, numerico, afferente cioè alla frequenza dell’evento (l’effetto acceleratore), al rapporto cioè tra il numero delle esposizioni ed il numero degli eventi; e si è quindi in un tipico ambito di causalità generale. Infatti, come pure si è ripetutamente tentato di porre in luce, nell’ambito della componente deduttiva dell’inferenza fattuale, il sapere generalizzante probabilistico (in senso statistico) trasmette tal quale nella conclusione del ragionamento il coefficiente percentualistico che caratterizza la legge: se la probabilità di sopravvivere all’infarto è dell’85%, il singolo paziente sarà teoricamente portatore, in prima approssimazione, di una tale probabilità di salvezza. Le particolarità del caso potranno poi, eventualmente, modificare la prognosi in rapporto alla condizione del singolo, concreto malato.
Subentra, in tale secondo passaggio, un momento valutativo, “vago”, articolato alla luce della base induttiva, cioè delle peculiarità del caso concreto, che si esprimerà in termini di probabilità logica: espressione che designa (anche questo deve essere ripetuto) non un dato numerico ma un apprezzamento conclusivo, un giudizio dotato di particolare affidabilità, di speciale credibilità razionale.
Orbene facendo applicazione nel presente giudizio di tutto quanto sin qui esposto, appare chiaro che ove la legge relativa all’effetto acceleratore fosse solo probabilistica (come ritenuto dal Tribunale e, a quanto pare, anche dalla Corte d’appello), ciò significherebbe che lo stesso effetto si determinerebbe solo in una determinata percentuale dei casi e comunque non immancabilmente. Dunque, traducendo tale informazione probabilistica nell’inferenza deduttiva del caso concreto si perverrebbe alla conclusione che il lavoratore aveva solo la probabilità (statistica) di subire l’accelerazione dell’evoluzione del processo carcinogenetico; con l’ulteriore conseguenza che agli imputati che hanno operato in azienda dopo l’iniziazione non potrebbe essere mossa l’imputazione causale condizionalistica che, come è noto, richiede un certo ruolo eziologico della condotta rispetto all’evento.
Resta un’ultima, ormai consueta domanda: è possibile superare nell’ambito del giudizio concreto la probabilità statistica per giungere ad un giudizio di certezza (espresso in termini di probabilità logica, o corroborazione, o credibilità razionale)? La risposta è in linea astratta prudentemente positiva. E l’itinerario è sempre quello già indicato,rapportato alle peculiarità del caso.
Basta a tale riguardo richiamare quanto sopra esposto: ipotesi (abduzione), ed induzione (la copiosa caratterizzazione del caso storico) che si confrontano ed integrano dialetticamente. Orbene, perché questo itinerario possa essere percorso occorre che le contingenze del caso concreto siano appunto se possibile copiose e comunque significative; e, per le loro peculiari caratterizzazioni, riescano a risolvere il dubbio insito nel carattere probabilistico del sapere utilizzato nell’inferenza deduttiva.
Una tale possibilità non sembra allo stato emergere alla stregua delle informazioni fattuali esposte nelle sentenze di merito.
Il fatto è che, per ciò che attiene ai segni dell’accelerazione, il quadro probatorio è vuoto. Si vuoi dire che, in ipotesi astratta, il carattere probabilistico della legge potrebbe condurre alla dimostrazione del nesso condizionalistico solo ove fossero note informazioni cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione. Analogamente potrebbe argomentarsi ove fossero noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi fossero presenti nella concreta vicenda processuale. Si sono esposti, naturalmente, solo fatti ipotetici per tentare di chiarire ulteriormente quale sia l’itinerario probatorio percorribile dal giudice di merito in questo ed in altri analoghi casi.
Se così è, traspare l’errore logico commesso dalla Corte d’Appello:
l’impropria sovrapposizione di probabilità statistica e di probabilità logica e, soprattutto, l’utilizzazione della categoria concettuale della probabilità logica in chiave alogica, quale strumento retorico per enunciare apoditticamente l’esistenza di una relazione condizionalistica in realtà non dimostrata.
L’errore di giudizio riguarda senz’altro gli imputati che hanno operato dopo l’iniziazione; ma si estende anche agli altri. A tale ultimo riguardo è richiesta un’ulteriore precisazione. Si discute nel processo di dose-dipendenza e di effetto acceleratore come se fossero un unico problema. In realtà, almeno dall’angolo visuale del giudice e dei suoi ragionamenti probatori, la situazione sembra essere parzialmente diversa.
Si è ripetutamente chiarito che il ragionamento esplicativo della giurisprudenza giunge a ritenere, con realistica sensatezza, che è corroborata l’ipotesi esplicativa che, nel caso di lavoratore lungamente ed intensamente esposto, riconduce l’evento a tale drammatico contatto col veleno, rispetto a quella che ipotizza del tutto astrattamente un’eziologia dovuta a ben tenui, diverse esposizioni. Questo ragionamento riguarda la determinazione dei quantitativi della sostanza tossica necessari per l’iniziazione del processo patogenetico.
Un altro, distinto aspetto della discussione causale riguarda il lato cronologico dello sviluppo dell’affezione. Se ne è parlato in riferimento agli imputati che hanno operato dopo la presumibile epoca di iniziazione, ma il problema cronologico si pone, nel caso in esame, pure per gli altri, quelli cioè che hanno agito in azienda prima dell’iniziazione. La Corte d’appello ha con un breve inciso trasferito le conclusioni del suo discorso argomentativo anche a tali ultimi imputati presenti in azienda nei primi anni di lavoro del B.. Orbene, alla luce di tutto quanto sin qui esposto, è chiaro che, accertata l’origine lavorativa della patologia in connessione con le prestazioni in FTM, l’imputazione causale potrebbe essere ritenuta senza incertezze solo per coloro che avessero operato in azienda lungo tutto l’arco di tempo dall’assunzione (18 gennaio 1971) al momento dell’iniziazione stessa.
Una tale situazione non si verifica per alcuno degli imputati, anche se B. e T. sono entrati nel CDA solo pochi mesi dopo l’assunzione. Occorre, quindi, in primo luogo stabilire con ogni possibile certezza l’epoca dell’iniziazione. Il tema è stato affrontato in modo incompiuto dai giudici di merito, per diverse ragioni. Il Tribunale ha ritenuto che l’unico possibile responsabile fosse il C. e rispetto a costui ha ritenuto provata l’anteriorità dell’iniziazione sulla base del pur generico dato scientifico secondo cui tale accadimento ha luogo precocemente, cioè nelle prime fasi dell’attività lavorativa. La Corte d’appello neppure si è concretamente posto il problema visto che, con i criticabili argomenti che si sono visti, ha ritenuto provata la responsabilità indistintamente di tutti gli imputati.
Per gli imputati che hanno operato in azienda in epoca anteriore all’iniziazione (soprattutto per coloro che hanno agito per un tempo alquanto ristretto), si tratterà poi di comprendere se la loro condotta, che ha determinato il contatto dei B. con l’amianto, abbia avuto un autonomo ruolo eziologico, influenzando e forse accelerando l’iniziazione stessa, tenendo conto del fatto che, ovviamente, non è noto quale sia stato lo specifico episodio lavorativo che ha dato luogo all’inalazione delle fibre lesive.
Si pone dunque anche qui un problema scientifico connesso alla cronologia dell’evento; ma non è per nulla chiaro (alla luce di quanto esposto nelle sentenze di merito) se un tale problema teorico sia sovrapponiate a quello che riguarda l’accelerazione dopo l’iniziazione. Dunque, pure a tale riguardo si pone l’esigenza di un chiarimento scientifico. Tale problematica scientifica si coniuga con il già indicato problema fattuale che riguarda la determinazione, con la massima possibile precisione, del momento dell’iniziazione.
In conclusione, la sentenza deve essere annullata con rinvio per ciò che attiene alle indicate problematiche causali. Essendo stato accertato che la malattia letale è stata determinata dall’esposizione lavorativa in FTM, si tratterà di appurare:
1. Se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico;
2. Nell’affermativa, occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico.
3. Nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, occorrerà chiarire se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali.
4. Infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto (tutte) durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività lavorativa dannosa e l’iniziazione stessa, si dovrà appurare se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico.
18. Le censure sono prive di pregio per ciò che attiene alla posizione di garanzia ed alla colpa.
Quanto al primo tema, il Tribunale propone un’impostazione sicuramente corretta in linea teorica. I componenti del consiglio di amministrazione hanno la gestione e l’organizzazione dell’attività d’impresa e rivestono quindi la qualifica di datori di lavoro. Essi assumono, quindi, la connessa posizione di garanzia. Conclusione di carattere generale che, prosegue il giudice, trova concreta conferma nell’art. 26 dello statuto che, appunto, attribuisce al Consiglio i più ampi poteri di gestione ordinaria e straordinaria.
Tuttavia, nel caso esaminato solo il direttore di esercizio dr. C. si vedeva attribuita in concreto la gestione complessiva del lavoro nello stabilimento. È emerso in punto di fatto che il ruolo del consiglio di amministrazione era limitato a temi esclusivamente di interesse politico e cioè relativi alle scelte strategiche proprie della società, concessionaria di pubblico servizio. Si era quindi in una situazione di “ripartizione dei poteri e delle responsabilità (. . . .) È proprio la presenza del dirigente, con compiti reali e concreti di gestione, che manifesta la non responsabilità del consiglio di amministrazione per gli obblighi di prevenzione”. Vi fu, secondo il Tribunale, “una delega generica e di fatto, ma indiscutibile ed indiscussa nelle relazioni aziendali ed all’esterno dell’impresa al direttore generale su ogni tema attinente all’organizzazione del lavoro; di essa è ampio sintomo nei verbali del consiglio, che mai si occupano di questioni di organizzazione del lavoro o anche solo di rilievo tecnico”. Conclusivamente, “non vi fu delega formale, ma in concreto era lecito confidare nelle capacità dell’organo di direzione tecnica, per quanto concerneva l’approfondimento delle tematiche di settore. E tra queste non poteva mancare l’argomento delle misure di prevenzione di malattie professionali”.
Questo apprezzamento è parzialmente confutato dalla Corte d’appello.
Per ciò che attiene ai membri del consiglio di amministrazione in tempi diversi, la Corte condivide le valutazioni del Tribunale quanto alla responsabilità connessa, nelle società di capitali, all’assunzione della carica; tranne nei casi di trasferimento di poteri e responsabilità ad amministratore delegato o ad altri soggetti. D’altra parte, essendosi in presenza di condotte omissive, gli interessati non possono giovarsi del fatto di aver adempiuto solo parzialmente l’incarico, disinteressandosi di esplicare le funzioni loro demandate: e non rileva, quindi, ad esempio, che Po., nel corso di due anni, abbia partecipato solo a tre sedute. Inoltre, pur essendosi in presenza di nomine politiche, l’organo funziona nel rispetto delle norme del codice civile; tanto più che non risulta che si sia provveduto a delegare funzioni a soggetti tecnicamente preparati ed in grado di svolgere adeguatamente i compiti istituzionali. Né ha pregio la difesa T. che sottolinea il potere di firma affidato a presidente e vice presidente, posto che l’art. 26 dello statuto attribuisce al CDA i più ampi poteri nella gestione ordinaria e straordinaria.
Questo aspetto della valutazione, che radica la veste di garante in connessione con il ruolo nel CDA, è conforme ai principi e sostanzialmente non contestato dalle parti. D’altra parte, le censure del T. sono completamente inconferenti; essendo con tutta evidenza irrilevante l’attribuzione del potere di firma (che riguarda la manifestazione della volontà dell’ente verso l’esterno) nell’ambito di una problematica afferente alla penale responsabilità e quindi incentrata sulle condotte tenute in seno all’organo deliberativo costituito dal CDA. La Corte d’appello censura invece il Tribunale quando esclude la responsabilità per via del ruolo politico e di scelta strategica della società concessionaria di pubblico servizio e della delega di fatto, ma indiscussa, al direttore generale in tema di organizzazione del lavoro. Al contrario, risulta l’ampiezza dei poteri esercitati in ogni direzione dal CDA adottando anche deliberazioni di carattere squisitamente tecnico. Non esiste quindi la “ripartizione dei poteri e delle responsabilità” asserita dal Tribunale. In particolare, sono irrilevanti le deposizioni dei testi menzionati dal primo giudice, posto che essi fanno riferimento ad epoca successiva al 1982 e nulla hanno potuto dire su incarichi, mansioni e deleghe al C..
Si tratta di condotte protrattesi per non meno di due anni e quindi, secondo la Corte di merito, apprezzabili ai fini del giudizio di responsabilità per il mancato avvio di iniziative poste in esser solo nel 1988, in tema di sicurezza del lavoro in connessione con la polverosità delle sedi di lavoro. Esclude quindi il giudice d’appello che gli imputati non potessero conoscere e prevedere il rischio. Il componente di un CDA, pur non essendo un tecnico, ha l’obbligo di attivarsi sia personalmente, sia attraverso terzi, al fine di ottemperare agli obblighi impostigli. Gli imputati avevano il dovere di mettersi in condizione di conoscere ogni eventuale problema connesso all’attività lavorativa, eventualmente con una delega a persona esperta in tema di igiene e sicurezza del lavoro ed in grado di operare gli approfondimenti tecnici per acquisire le conoscenze scientifiche dell’epoca, che erano presenti non solo in ambito scientifico ma anche tra i dirigenti d’impresa, come del resto riconosciuto dallo stesso Tribunale. Né, infine, rileva l’inerzia degli organi ispettivi, come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità.
In particolare, per ciò che attiene al centrale problema della delega nei confronti del C., la Corte d’appello confuta puntigliosamente l’accertamento in fatto compiuto dal Tribunale, analizzando dettagliatamente l’attività del CDA, che non si limitò a delineare le linee strategiche della società, ma adottò tutte le decisioni riguardanti la gestione quotidiana ed ordinaria: delibere impegnative ed economicamente significative come l’alienazione di immobili o l’acquisto di nuove autolinee; altre di minor rilievo come l’acquisto di un’auto, di un impianto di lavaggio o di un carrello per il servizio di manutenzione o ancora l’acquisto di scarpe antinfortunistiche e di tutte da officina. Dettaglio quest’ultimo che viene nella pronunzia sottolineato per rimarcare evidentemente che il consiglio di amministrazione si occupava anche di temi afferenti alla sicurezza. Lo stesso consiglio, rileva ancora la Corte, si occupava dei rapporti con i sindacati, delle rivendicazioni sindacali in tema di mensa aziendale, indennità di trasferta ed altro, del governo economico e normativo dei dipendenti come pure e significativamente di questioni squisitamente tecniche afferenti alle vie rotabili.
Infine e soprattutto il consiglio evitava di rilasciare esplicite e formali deleghe al direttore di servizio in qualche settore di propria competenza ed anzi fissava in termini estremamente ridotti (L. un milione) la delega nei confronti del direttore di servizio con riguardo alla firma degli atti di ordinaria amministrazione; ed inoltre espressamente affermava la sua assoluta sovranità in tutti i campi dell’attività aziendale dell’azienda, dal personale alle competenze accessorie. Tale situazione contraddice l’esistenza della ripartizione di poteri e della delega nei confronti del direttore di esercizio erroneamente ritenuta dal Tribunale.
D’altra parte, prosegue il collegio, ciascun componente del consiglio di amministrazione avrebbe potuto, ai sensi dell’art. 25 dello statuto, investire l’organo delle problematiche concernenti la salute dei lavoratori al fine di ottenere l’adozione di iniziative volte a verificare l’esistenza di concreti rischi derivanti dalla polverosità delle lavorazioni e degli ambienti di lavoro. Gli amministratori, consci dei loro limiti e della loro ignoranza su temi tecnici differenti alla sicurezza avrebbero dovuto quantomeno sollecitare l’organo collegiale affinché procedesse a delegare i temi della sicurezza a persona esperta in grado di dedicarsi agli approfondimenti tecnici che avrebbero consentito di attingere alle conoscenze scientifiche dell’epoca.
Tale apprezzamento di fatto, che esclude l’esistenza di una delega idonea ad esonerare da responsabilità i componenti del consiglio di amministrazione, è con tutta evidenza riccamente argomentato sulla base di significative ed indiscutibili emergenze documentali, non presenta vizi logico-giuridici e non può essere in alcun modo sindacato nella presente sede di legittimità. Dunque, la veste di garante non è in discussione per i componenti del CDA. Quanto al C., il giudice dell’impugnazione non dubita dell’esistenza di posizione di garanzia. Indipendentemente dall’esistenza della delega negata dalla difesa, si afferma, non vi è dubbio che costui rivestisse ruolo dirigenziale (vertice della dirigenza tecnica) idoneo a radicare l’obbligo di evitare l’evento ai sensi del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 4. E pur ipotizzando che egli non avesse potere di spesa e completa autonomia gestionale, era comunque gravato dell’obbligo di vigilare sulla correttezza delle lavorazioni, di pretendere l’adozione di misure di prevenzione e di segnalare il rischio di esposizione all’amianto: interventi mai adottati. L’imputato è responsabile, poiché aveva la possibilità di prevedere ed evitare l’evento.
Pure tale valutazione è immune da censure. L’imputato rivestiva ruolo dirigenziale e quindi, indipendentemente da alcuna delega, aveva il dovere istituzionale di cooperare attivamente (anche in virtù delle sue competenze scientifiche) ad assicurare la sicurezza delle lavorazioni, sollecitando ove necessario il Consiglio ad assumere le opportune iniziative afferenti all’analisi dei rischi.
Dunque è priva di pregio la deduzione difensiva che, pur riconoscendo l’obbligo di dare un apporto tecnico all’azione aziendale in virtù del ruolo dirigenziale, esclude apoditticamente che ciò comportasse di agire sollecitando tutte le iniziative conoscitive afferenti alla sicurezza.
18.1 Proprio il tema dell’analisi dei rischi offre un argomento aggiuntivo per confutare le prospettazioni dei componenti del CDA che, con diverse sfumature, hanno argomentato circa l’inesistenza di un obbligo di gravarsi delle problematiche afferenti al rischio di cui si discute. In breve, essi erano politici e non tecnici e quindi, indipendentemente dalla discussa delega, non erano in condizione di apprezzare tale tema squisitamente scientifico, afferente ad un rischio ignoto in quell’epoca.
La questione è stata correttamente messa in luce dal Tribunale quando ha affermato che “Il datore di lavoro deve attivarsi per conoscere le situazioni e le fonti di pericolosità dell’attività lavorativa personalmente o a mezzo di capaci delegati”. Tale enunciazione non è stata però correttamente utilizzata ai fini del giudizio, essendosi implicitamente ritenuto che la (contestata) delega nei confronti del C. implicasse il trasferimento a costui delle problematiche afferenti alla analisi dei rischi.
Tale ultimo apprezzamento è censurabile; e la censura vale a confutare le tesi difensive prospettate nel presente giudizio di legittimità. In realtà il datore di lavoro, anche nel caso di delega di poteri, resta titolare di obblighi essenziali che non possono essere trasferiti ad alcuno. La legislazione più recente (da ultimo D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 28 e 29) ha messo in luce un primordiale aspetto della sicurezza imponendo lo strumento della valutazione dei rischi, documento che il datore di lavoro deve elaborare in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, e quindi con soggetti dotati di qualificazione professionale aperta agli aspetti più propriamente scientifici della sicurezza. L’essenzialità di tale documento deriva con evidenza dal fatto che, senza consapevolezza dei rischi, non è possibile una politica della sicurezza. Proprio la speciale importanza dell’analisi dei rischi giustifica la non delegabilità di tale adempimento (del richiamato D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 16 e 17).
La disciplina legale esprime un’obiettiva esigenza sistemica, già evidenziata, seppure in modo meno definito sia nella più risalente normativa che in consolidati arresti giurisprudenziali. Si fa riferimento, tra l’altro, al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4 del che, sull’implicito presupposto di una preliminare ricognizione dei rischi, pone a carico del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, l’obbligo di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti. La giurisprudenza, d’altra parte, ha ripetutamente posto a carico del datore di lavoro delegante un obbligo di vigilanza che, a sua volta, presuppone logicamente la consapevolezza dei rischi da governare.
La valutazione di cui si discute coinvolge tutte le competenze e le conoscenze delle figure istituzionali del sistema della sicurezza e riguarda quindi sia il datore di lavoro che i soggetti più qualificati sotto il profilo tecnico-scientifico, come il dirigente tecnico. Questa Corte, del resto, ha recentemente avuto modo di considerare, proprio nel contesto dell’esposizione ad amianto, che nell’esercizio di attività rischiose l’agente garante ha l’obbligo di acquisire le conoscenze disponibili nella comunità scientifica per assicurare la protezione richiesta dalla legge. Diversamente argomentando si perverrebbe all’esito, evidentemente inaccettabile, di consentire a chiunque, anche inesperto, di svolgere liberamente attività rischiose che richiedono conoscenze tecniche o scientifiche, adducendo la sua ignoranza in caso di verificazione di eventi avversi (Cass. 4, 1 aprile 2010, Giannoni) Non vi è dubbio, dunque, conclusivamente, che l’obbligo di indagare il ventaglio dei rischi connessi all’attività ferroviaria in questione coinvolgesse, a prescindere dalla delega esclusa dal giudice d’appello, sia i componenti del CDA che il dirigente tecnico dr. C..
19. Le censure dei ricorrenti sono infondate pure con riferimento alla colpa.
La Corte territoriale evidenzia che risultano provate le condotte colpose contestate agli imputati e di cui già il primo giudice ha ritenuto l’esistenza: in particolare, la mancata adozione di idonei impianti di aspirazione e la predisposizione solo di uno strumento rudimentale come le mascherine di carta, di cui non veniva neppure concretamente richiesto l’uso; infine, la violazione dell’obbligo di informazione nei confronti dei lavoratori. L’assenza di misure di prevenzione si accompagnava al compimento di operazioni tecniche caratterizzate da elevata polverosità, come la pulizia con delle semplici scope delle polveri contaminate depositate sui pavimenti, o il getto di aria compressa sulle parti lavorate. Tale situazione avrebbe potuto essere ovviata attraverso misure di prevenzione che già nel 1970 sarebbero state senz’altro attuabili, quali l’umidificazione del materiale per evitare la formazione di polvere, l’adozione di sistemi di aspirazione, l’uso di valide maschere filtranti.
Per quanto attiene, poi, al tema della violazione dei valori limite di esposizione agli agenti chimici, si rileva da un lato la mancata individuazione dei livelli di inquinamento nei locali aziendali in vista di un possibile confronto con le tabelle dei TLV; e dall’altro l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, mentre in azienda mancava qualunque misura di protezione dal rischio, giacché solo nel 1992 si cominciò a provvedere in tal senso. Né il datore di lavoro può addurre a propria discolpa l’inerzia della pubblica amministrazione nella definizione di parametri appropriati e certi di esposizione agli agenti dannosi, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità (pag. 26).
D’altra parte, prosegue la Corte di merito, già nel 1975 la Società italiana di diritto del lavoro, sulla falsariga di quanto stabilito negli USA nel 1972, in relazione al pericolo di mesotelioma, aveva fissato il limite tollerabile in 2 fibre per centimetro cubico. La Corte ritiene che tale livello fosse senz’altro superato nella situazione ambientale dello stabilimento, assai negativamente connotata; come evidenziato anche da indagini compiute nel 1992 in ambienti di lavoro già interessati ad interventi di protezione.
La pericolosità dell’esposizione all’amianto per il rischio di mesotelioma risale almeno agli anni sessanta in ambito ferroviario, tanto che già nel 1968 le Ferrovie inglesi hanno provveduto ad eliminare tutto l’amianto sulla base di conoscenze ben diffuse non solo nell’ambiente medico-legale ma anche in quello degli addetti ai lavori. Gli imputati avrebbero potuto acquisire tali conoscenze sia direttamente, sia tramite i soggetti eventualmente delegati in materia di igiene e sicurezza, attingendo anche al libretto d’istruzione del 1963 che segnalava la presenza di amianto. La presenza dell’amianto era evidenziata anche in un capitolato per la fornitura di automotrici del 1972.
Infine, indipendentemente dal rischio mesotelioma, la grave pericolosità dell’amianto per il rischio asbestosi era ampiamente nota ed avrebbe dovuto sollecitare adeguate misure di prevenzione.
L’evento mesotelioma era d’altra parte evitabile, considerato che si tratta di patologia dose-correlata.
Tale apprezzamento si sottrae alle censure prospettate dalla difese.
Esso, infatti, si basa su fatti di cui viene dimostrata l’esistenza alla luce di significative emergenze probatorie. D’altra parte, l’argomentazione è immune da vizi logico-giuridici e non è qui sindacabile.
Infatti, quanto alle informazioni sulla cancerogenicità dell’amianto la sentenza fa leva sulle conoscenze scientifiche già sufficientemente diffuse all’inizio degli anni settanta; e, per ciò che attiene alla conoscenza del rischio in ambito ferroviario, propone un argomento di decisivo rilievo che nessuno dei ricorrenti ha confutato: l’iniziativa delle ferrovie inglesi di bonificare le carrozze già nel 1968.
Parimenti ricca di riferimenti fattuali è la valutazione in ordine all’entità della contaminazione. La pronunzia, recependo indicazioni contenute pure nella sentenza del Tribunale, evidenzia che le fibre di amianto venivano regolarmente segate, lacerate, esposte, anche in connessione con interventi sulle parti elettriche, che rientravano nella sfera d’attività del B., che lavorava appunto come elettricista. Le polveri, inoltre, come si è già esposto, venivano malamente movimentate con scope e getti d’aria. In tale situazione non è per nulla incongruo che il Giudice eserciti l’apprezzamento in fatto demandatogli pervenendo alla argomentata conclusione che si era in presenza di livelli ben superiori al limite di 2 fibre per c.c..
20. Le difese, come si è visto, hanno argomentato l’ìmprevedibilità e l’inevitabilità dell’evento lesivo. Tali censure sono palesemente infondate per ciò che attiene alla possibilità di attingere informazioni circa la rischiosità della manipolazione dell’amianto con le modalità che si sono dette.
Infatti, è sufficiente osservare, richiamando considerazioni già sopra svolte, che le conoscenze sulla cancerogenicità erano attingibili in ambito scientifico ed erano diffuse in ambito imprenditoriale, come dimostrato dalle iniziative delle ferrovie inglesi. L’ignoranza del Consiglio di amministrazione e del dirigente tecnico dr. C. deriva da una colpa primigenia, che è alla base di tutte le condotte trascurate poste in essere nel corso degli anni: la mancata valutazione dei rischi con la collaborazione di figure professionali qualificate. Tale essendo la prima e decisiva fonte di tutte le negligenze contestate, è del tutto irrilevante che gli amministratori, non essendo degli esperti, non fossero personalmente al corrente della dannosità di cui si discute. In tale situazione, risultano pure del tutto inconferenti le discussioni su questioni davvero marginali come il contenuto e il luogo di conservazione dei libretti d’uso dei mezzi di locomozione utilizzati dall’azienda.
21. Quanto al tema dell’evitabilità dell’evento, le deduzioni difensive hanno due profili. Uno riguarda la circostanza che una prima indagine disposta dal C. sulla presenza di amianto nelle vetture ebbe esito negativo. L’argomento è difficilmente comprensibile. Da un lato se è vero che, come concordemente ritenuto dai giudici di merito alla luce di plurime deposizioni testimoniali, il lavoro elettrico comportava la continua lacerazione delle imbottiture in amianto non si riesce a comprendere come l’indagine evocata genericamente dal ricorrente possa avere avuto esito negativo. D’altra parte, il fatto che il C. abbia potuto errare nel 1988, con tutta evidenza non può rendere incolpevoli i precedenti errori suoi e del consiglio di amministrazione.
Più seria è l’altra censura afferente all’assunta impossibilità di azzerare il rischio: l’adozione di tecniche di abbattimento non avrebbe potuto eliminare del tutto la presenza di fibre tossiche.
Anche tale argomento, tuttavia, è infondato. Il giudice di merito ha evidenziato l’obbligo del datore di lavoro di agire per massimizzare la sicurezza. La motivazione sul punto deve essere tuttavia meglio chiarita con alcune considerazioni di carattere generale.
Si e già evidenziato in precedenza che in ambito giuridico accade frequentemente di articolare ragionamenti predittivi. Ci si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente non avesse compiuto l’azione addebitatagli o se avesse posto in essere la condotta doverosa omessa. Questi giudizi predittivi, dunque, vengono compiuti sia nell’ambito della causalità commissiva che di quella omissiva.
Ragionamenti predittivi vengono altresì articolati quando, ragionando intorno alla colpa, ci si interroga sull’evitabilità dell’evento per effetto della condotta che sarebbe stata dovuta. Tali inferenze si sviluppano in modo parzialmente diverso; e dunque, in questo come in quasi tutti gli altri contesti del ragionamento giuridico, è di essenziale e preliminare interesse cogliere qual è il ragionamento che noi articoliamo, quale è la sua struttura e quali sono le finalità giuridiche cui esso tende, quali sono le regole di giudizio che lo governano. Operare tali doverose preliminari distinzioni non è sempre agevole.
A tal fine ha grande importanza separare i contesti di causalità commissiva da quelli di causalità omissiva: operazione spesso non banale, soprattutto nei reati colposi. Infatti, noi solitamente ragioniamo come se tra causalità commissiva e causalità omissiva vi fosse sempre un confine netto. Tutto ciò costituisce solo una semplificazione della realtà che, invece, soprattutto in ambito colposo, mostra la compresenza di profili commissivi ed omissivi della condotta. D’altra parte, proprio nell’ambito dei reati colposi, si è istintivamente portati a parlare sempre di causalità omissiva, probabilmente a cagione del fatto che nella colpa emerge sempre come fattore preminente qualcosa che è mancato, che è stato omesso, appunto.
In realtà, se ci si ferma a riflettere alla luce dell’esperienza giudiziaria, il quadro che emerge è assai variegato. Si riscontrano frequentemente vicende che devono essere ricondotte all’ambito della causalità omissiva, come ad esempio nel caso del medico che omette radicalmente di intervenire in una situazione di emergenza. Altri casi mostrano invece una dominante componente commissiva: il chirurgo che erroneamente recide un’arteria determinando un’emorragia letale;
il datore di lavoro che consegna al dipendente una scala insicura che determina una rovinosa caduta; l’automobilista che, guidando imprudentemente, investe un pedone. Vi sono poi molti casi di incerta collocazione: il medico interviene, si adopera anche con condotte attive, ma omette di compiere un atto essenziale come ad esempio formulare una corretta diagnosi o prescrivere una terapia appropriata; oppure trapianta un organo senza compiere con la dovuta perizia le indagini preliminari per appurare che esso sia immune da patologie tumorali.
In queste situazioni, come si e accennato, soprattutto in giurisprudenza si riscontra la tendenza a parlare sempre di causalità omissiva, anche se spesso si articolano ragionamenti di causalità commissiva. A questo riguardo, tuttavia anche la sentenza delle Sezioni unite Franzese ha fornito, in un breve passaggio, un utile suggerimento, segnalando che molti casi che vengono trattati in termini di causalità omissiva sono in realtà riconducibili alla causalità commissiva.
Sebbene talvolta sia difficile stabilire se si sia in presenza dell’una o dell’altra forma di causalità, il fattore di orientamento deve essere costituito dal punto di vista giuridico, che è concentrato sulla attribuzione di paternità del fatto all’uomo, e su ciò che assume significato in questo senso. Così, per tornare agli esempi sopra proposti nell’ambito medico, l’errore terapeutico costituisce solitamente un reperto di causalità omissiva, ma in alcune situazioni domina la componente commissiva, come nei casi già proposti del taglio dell’arteria o del trapianto dell’organo malato.
Quello dell’esposizione a sostanze patogene è un campo incerto e tuttavia occorre ritenere che si sia in presenza di causalità commissiva, alimentata dalle perduranti scelte aziendali che determinano uno stato delle lavorazioni che espone a livelli dannosi delle sostanze trattate: si tratta, come è stato osservato in dottrina, di una situazione riconducibile all’archetipo dell’avvelenamento somministrato con dosi quotidiane.
La presenza, nell’ambito dei reati colposi, sia di situazioni riconducibili alla causalità commissiva sia di contingenze tipiche della causalità commissiva propone diversi problemi di non poco rilievo. Basti pensare che quando nell’ambito di reati commissivi parliamo di “garante” per definire la sfera di responsabilità di un soggetto usiamo il termine in un significato più ampio e diverso da quello evocato dall’art. 40 cpv. c.p.; e ci riferiamo al soggetto che, da solo o con altre figure istituzionali, è chiamato a gestire una sfera di rischio.
Ma la questione che qui maggiormente interessa è quella afferente ai ragionamenti sull’evitabilità dell’evento: in molte situazioni non è ben chiaro se il giudizio controfattuale che si è chiamati ad articolare afferisca alla causalità o alla colpa; ed il dubbio è precipuamente alimentato dal fatto che, come si è esposto, non è ben chiaro se si stia trattando un caso di causalità commissiva o omissiva.
Il tema, assai dibattuto ed obiettivamente complesso, può essere delineato sinteticamente nei seguenti termini. La causalità omissiva dal punto di vista naturalistico, fenomenico, è un nulla. Pertanto, per dimostrare il nesso di condizionamento dobbiamo inserire nell’atto immaginativo, controfattuale, qualcosa che è mancato in natura e che noi descriviamo in modo idealizzato, astratto. In particolare, nei reati colposi noi dobbiamo inserire nel controfattuale il comportamento perito, diligente; e chiederci se esso avrebbe consentito di evitare l’evento con la ragionevole certezza richiesta dallo statuto della causalità condizionalistica.
Questa inferenza è solitamente molto impegnativa, specialmente in contesti particolarmente complicati come quelli della responsabilità medica e dell’esposizione lavorativa, caratterizzati, come si è visto, dalla complessa interazione tra fattori di diverso segno. Ma ciò che interessa di più è che il giudizio sulla colpa e quello sulla causalità tendono, in prima approssimazione, a sovrapporsi. Ed il problema dell’evitabilità dell’evento (o della rilevanza del comportamento alternativo lecito) è in primo luogo un problema causale, che si carica quindi del connotato di ragionevole certezza proprio della causalità condizionalistica. Questa situazione, senza dubbio complessa e difficile da dipanare analiticamente, spiega la comprensibile ma pur sempre criticabile confusione che regna in giurisprudenza tra causalità e colpa in contesti come quello in esame. In ogni caso, la conclusione che noi possiamo trarre da queste considerazioni è che, normalmente, quando noi ci interroghiamo, nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione, sull’evitabilità dell’evento articoliamo un ragionamento di tipo causale basato, quindi, sulla regola di giudizio dell’umana certezza propria del condizionalismo.
Invece, nell’ambito della causalità commissiva il ragionamento probatorio è solitamente più semplice: il problema della causalità viene risolto ponderando la rilevanza del comportamento attivo concretamente accertato che, con un atto immaginativo, viene per così dire sottratto alla dinamica degli accadimenti. Si tratta di un apprezzamento che nella maggior parte dei casi viene giustamente sottinteso, tanta è la sua evidenza: se al lavoratore non fosse stata consegnata una scala rotta egli sicuramente non sarebbe caduto.
Allora, il problema dell’evitabilità dell’evento per effetto della condotta diligente e perita si causale in senso proprio (quello di cui parlano gli artt. 40 e 41 c.p.) che (in un’ideale sequenza) è stato risolto a monte, prima di intraprendere il ragionamento sulla colpa.
Da tali enunciazioni di principio è possibile trarre definite conclusione che integrano e chiariscono l’argomentazione dei giudici di merito. Si è detto che nell’ambito delle malattie lavorative determinate dall’esposizione all’amianto le vittime sono colpite da affezioni determinate dalla contaminazione con la sostanza e che la condotta attribuibile ai responsabili dell’azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva; giacché l’esposizione all’agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione di tipo organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché se il lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione l’evento non si sarebbe verificato. Così definito il problema causale, resta il problema dell’evitabilità dell’evento afferente alla valutazione della colpa: apprezzamento che, per le ragioni che si sono già esposte, è intrinsecamente aperto a valutazioni probabilistiche. In breve si è in presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando l’attuazione delle cautele esistenti all’epoca dei fatti avrebbero significativamente abbattuto la probabilità di contrarre la malattia. Tale conclusiva valutazione in fatto si rinviene nelle pronunzie di merito, nelle quali da un canto si mette in luce l’intensità dell’esposizione all’agente patogeno; e dall’altro si rimarca la totale assenza di misure di prevenzione, alcune molto semplici e di rilievo anche intuitivo, che avrebbero potuto diminuire drasticamente l’entità delle fibre disperse nell’ambiente di lavoro e quindi fortemente ridurre la probabilità di contrarre la malattia:
si parla di apparati di aspirazione, di maschere individuali, ma anche di maggiore cautela nella movimentazione delle polveri magari semplicemente bagnandole. Si è dunque in presenza di un compiuto apprezzamento del fatto conforme ai principi sopra lumeggiati e quindi immune da censure.
Per le ragioni sopra esposte la sentenza deve essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, per nuova valutazione in ordine alla causalità alla luce dei principi sopra esposti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano.