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Penale Procedura Penale Sentenze

Cassazione penale, sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084

Redazionedi Redazione11 Dicembre 2018Aggiornato il:11 Dicembre 2018
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084

RITENUTO IN FATTO

1. B.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale, in sede di rinvio, è stata dichiarata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 609-bis cod. pen., perché, con violenza consistita nell’afferrare il capo della vittima e con abuso di autorità e delle condizioni di inferiorità fisica e psichica di D.F.S., costringeva quest’ultima a subire e a compiere atti sessuali, consistiti in ripetuti tentativi di baciare la donna, nel palpeggiamento del seno e in un rapporto orale, culminato nel coito.
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché il G.u.p., che, nella sentenza assolutoria di primo grado, ha evidenziato la tendenza della ragazza alla fantasticheria autistica, con eventuale perdita di confini tra realtà interna ed esterna, emersa dalla consulenza espletata, ha fatto riferimento a un rapporto sessuale non voluto e non ad una violenza sessuale. La non accettazione dell’atto sessuale non si è infatti estrinsecata in comportamenti di dissenso, oggettivamente percepibili dall’uomo. Indimostrata è pure la violenza fisica consistente nella pressione sul capo della vittima, la quale non lamentava dolenzia al collo e ben avrebbe potuto opporre resistenza, non aprendo la bocca oppure mordendo l’uomo sull’organo genitale o graffiandolo proprio sul braccio con cui esercitava l’asserita violenza. La manovra del braccio e della mano sulla testa della persona offesa, in realtà, era solo un modo per guidare, nella foga dell’eccitazione sessuale, la donna nel rapporto orale. La Corte d’appello ha omesso un approfondito vaglio critico dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, la quale ha, per di più, affermato di aver sporto querela in quanto intenzionata a non subire più e a riacquistare un suo equilibrio psicologico con il sesso maschile. Da ciò il giudice di primo grado ha correttamente inferito la sussistenza di una componente di rivalsa in relazione a pregresse esperienze sessuali negative. Non vi sono neanche validi riscontri al racconto della ragazza, in quanto il rinvenimento del fazzoletto intriso di sperma prova solo l’avvenuto coito orale ma non la violenza sessuale.
2.1. Non è stato comunque rinnovato, in sede di appello, l’esame della persona offesa, in violazione dei principi espressi dalla giurisprudenza sul punto, confermati anche in relazione alla celebrazione del processo di primo grado con rito abbreviato.
2.2. È inutilizzabile, anche nel giudizio abbreviato, la registrazione del colloquio avvenuto tra l’imputato e la parte lesa, effettuata d’intesa tra quest’ultima e la polizia giudiziaria, che le fornì anche la strumentazione tecnica, in assenza di un provvedimento motivato del pubblico ministero. In ogni caso, i contenuti di questo colloquio sono stati travisati, perché da essi non è desumibile alcun elemento di segno accusatorio ma soltanto il risentimento della ragazza per una frase che sembrava connotarla come “donna facile”: frase mai pronunciata dall’imputato.
2.3. Ingiustificatamente non è stata ravvisata l’ipotesi della minore gravità, nonostante la ragazza non abbia posto in essere atti di resistenza e di dissenso inequivocabili e l’imputato non fosse neanche a conoscenza delle condizioni psicologiche della parte lesa, affetta da disturbo bipolare.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Conviene prendere le mosse dall’analisi del secondo motivo di ricorso, che è fondato. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza n. 8999 del 5 luglio 2011, Dan. C Moldavia, si è espressa nel senso che il giudice che, per ultimo, ha la responsabilità di decidere in merito alla colpevolezza o all’innocenza di un imputato deve ascoltare personalmente i testimoni dalla cui deposizione deriva la prova principale dei fatti, poiché la valutazione della loro attendibilità è un compito complesso, che non può ridursi alla mera lettura dei verbali delle loro dichiarazioni (conf. CEDU, n. 36605 del 5/3/2013; CEDU, n. 17520 del 9/4/2013). Il principio è stato ribadito dalle Sezioni unite, che, con sentenza del 28/4/2016, Dasgupta, hanno condivisibilmente stabilito che il giudice di appello, qualora ritenga di riformare nel senso dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, la sentenza di proscioglimento di primo grado, sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva dal primo giudice, deve, in ragione di una interpretazione convenzionalmente orientata, ex art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 603 cod. proc. pen., disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mediante l’esame dei soggetti che hanno reso le relative dichiarazioni. Ne deriva che la sentenza del giudice di appello che, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, affermi la responsabilità dell’imputato sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, senza avere proceduto alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è affetta da vizio di motivazione, in quanto la condanna contrasta, in tal caso, con la regola di giudizio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1. Gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado sull’appello promosso dalla parte civile.
Nel medesimo ordine di idee, Sez. U., 19/1/2017, Patalano, ha condivisibilmente fornito risposta affermativa al quesito se, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento emessa all’esito del giudizio abbreviato, per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, il giudice di appello che riformi la sentenza impugnata debba disporre l’esame delle persone che hanno reso tali dichiarazioni.
Questa prospettiva interpretativa è stata ribadita da Corte EDU, Lorefice c. Italia, n. 63446 del 2016, la quale pronunciandosi sul primo caso “italiano” di violazione del principio del “fair trial”, per la condanna in appello di un imputato assolto in primo grado, sulla base di prove testimoniali non riassunte in secondo grado, ha ritenuto che ciò fosse in contrasto con l’art. 6, p. 1 (diritto a un giusto processo) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte europea ha rilevato, in particolare, che il ribaltamento dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado senza la nuova audizione dei testimoni di fronte alla Corte d’appello compromette l’equità del processo a carico dell’imputato. Ragion per cui il giudice sovranazionale ha ribadito che coloro che hanno la responsabilità di decidere in merito alla colpevolezza o all’innocenza di un imputato devono, in linea di principio, sentire i testimoni di persona, onde poterne valutare appieno la credibilità (in senso conforme, Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, n. 16206/90; Serrano Contreras c. Spagna, 20 marzo 2012, n. 49183/08; Lazu c. Moldavia, 5 luglio 2016, n. 46182/08).
2. Nel caso di specie, non risulta che la Corte d’appello abbia disposto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, procedendo a nuovo esame della persona offesa. Quest’ultimo sarebbe stato, viceversa, necessario, essendo enucleabile dal tessuto argomentativo della pronuncia impugnata la sussistenza di tre problematiche: 1) le modalità di coercizione poste in essere dall’imputato ai danni della persona offesa; 2) la percezione, da parte dell’imputato, del dissenso della ragazza; 3) le condizioni psichiche di quest’ultima e la consapevolezza di esse da parte del B.. È evidente la centralità dell’esame del soggetto passivo in relazione a tutti e tre questi profili. In ordine al primo punto, dall’apparato giustificativo della sentenza in esame si evince che la ragazza, pur essendosi recata al Pronto Soccorso, non risultò vittima di percosse o lesioni. Il giudice a quo sottolinea che l’unico gesto idoneo ad assumere una valenza coercitiva, in senso materiale, è stato la pressione della mano sulla testa della persona offesa: gesto che, secondo la Corte d’appello, non può essere interpretato come una modalità d’estrinsecazione dell’eccitazione sessuale del momento, costituendo una vera e propria coercizione. D’altronde, dal tessuto argomentativo della pronuncia in esame non risulta che siano state proferite dall’imputato esplicite minacce. Tuttavia la frase: “…Tu lo devi fare perché lo sai fare”, caratterizzata dall’uso del verbo all’imperativo, avrebbe avuto, secondo il giudice a quo, un inequivoco significato impositivo, evidenziando la volontà di vincere l’altrui ritrosia. È evidente come un contributo probatorio insostituibile, al riguardo, può essere apportato dalla viva voce della persona offesa, di fronte ai giudici di secondo grado. Così come quest’ultima potrà chiarire se e con quali modalità ella abbia manifestato al B. il proprio dissenso al rapporto sessuale. In ordine al terzo nucleo tematico occorre osservare come risulti dalla motivazione della sentenza impugnata che dalla consulenza psicologica espletata è emerso un comportamento razionale e lucido da parte della ragazza. Donde l’affermazione del G.u.p. secondo cui appare problematico ritenere, a fronte del comportamento complessivamente tenuto dalla D.F., che la ragazza avesse manifestato un contegno tale da consentire al B. di cogliere i sintomi di una fragilità psichica, di cui approfittare. Così come il giudice a quo evidenzia che dalla consulenza psicologica è emersa anche la tendenza della ragazza alla fantasticheria autistica, con eventuale perdita dei confini tra realtà interna e realtà esterna. Ed ancora dalla trama argomentativa della sentenza in esame si evince che, in sede di colloquio con la psicologa incaricata dal pubblico ministero di effettuare la consulenza, la D.F. affermò di aver deciso di sporgere querela perché non voleva più subire e stava cercando di riacquistare il suo equilibrio psicologico con il sesso maschile. Di qui la considerazione del primo giudice secondo cui è difficile escludere, nella persona offesa, una componente di rivalsa in relazione a precedenti, sgradevoli contatti con l’altro sesso. In ordine a tali profili importanza centrale potrà pertanto assumere, nel contesto del panorama probatorio, l’apporto conoscitivo derivante dalle dichiarazioni della D.F..
3. Fondato è anche il terzo motivo di ricorso. Èstato, infatti, superato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nell’ipotesi di registrazione di conversazione eseguita da uno degli interlocutori, su incarico o suggerimento della polizia giudiziaria, la registrazione non necessita Né di autorizzazione da parte del g.i.p., ai sensi dell’art. 267 cod. proc. pen., Né di un decreto dispositivo da parte del pubblico ministero, essendo ammissibile come documento, ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. (Cass., Sez. 6, n. 16982 del 24/2/2009, Rv. 243256; Sez. 1, n. 6297 del 10/12/2009, Rv. 246106; Sez. 2, n. 16886 dell’11/4/2007). Conclusione che resterebbe valida anche in caso di ascolto, a distanza e in contemporanea, della conversazione da parte della polizia giudiziaria (Cass., Sez. 1 n. 14829 del 19/2/2009, Rv. 243741; Sez. 4, n. 40332 del 4/10/2007, Rv, 237789). È stato, infatti, condivisibilmente osservato, in senso contrario, che le registrazioni di conversazioni effettuate, in assenza di autorizzazione del giudice, da uno degli interlocutori, con strumenti di captazione predisposti dalla polizia giudiziaria, sono inutilizzabili, atteso che, in tal modo, si realizza un surrettizio aggiramento delle regole che impongono strumenti tipici per comprimere la segretezza delle comunicazioni, costituzionalmente protetta (Cass., Sez. 6, n. 44128 del 6/11/2008, Rv. 241610; Sez. 5, n. 6947 dell’11/5/2000, Caputo). In questa prospettiva, Corte cost., 4/12/2009, n. 320, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 234 e 266 cod. proc. pen. nella parte in cui tali norme includono fra i documenti, anziché tra le intercettazioni, le registrazioni di conversazioni, telefoniche o tra presenti, effettuate da uno degli interlocutori, all’insaputa degli altri, d’intesa con la polizia giudiziaria ed eventualmente con strumenti da essa forniti. La Corte costituzionale ha invitato quindi il giudice a valutare, ove ritenga che l’attività investigativa in questione contrasti con diritti fondamentali, la praticabilità di una soluzione analoga, mutatis mutandis, a quella adottata da Sez. U., n. 26795 del 28/3/2006, Prisco (Rv. 234267), in materia di videoregistrazioni. Con quest’ultima pronuncia, le Sezioni unite hanno condivisibilmente stabilito che occorre un apposito provvedimento dell’autorità procedente (pubblico ministero o giudice) per l’effettuazione di videoriprese che, pur non comportando intrusione domiciliare, possano violare la riservatezza personale (come, ad esempio,le riprese effettuate dalla polizia giudiziaria in un bagno pubblico). A seguito di tale pronuncia, sono state ritenute inutilizzabili, in giurisprudenza, in assenza di un provvedimento motivato di autorizzazione dell’Autorità giudiziaria procedente, le registrazioni di conversazioni, telefoniche o tra presenti, effettuate da uno degli interlocutori, all’insaputa degli altri, d’intesa con la polizia giudiziaria ed eventualmente con strumenti da essa forniti, non essendo applicabili le disposizioni relative alle intercettazioni ed essendo sufficiente un intervento di garanzia minore da parte dell’autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto del p.m. (Cass., Sez. 6, n. 23742 del 7/4/2010, Rv. 247384).
4. Nel caso di specie, la registrazione del colloquio è avvenuta, ad opera della D.F., d’intesa con i Carabinieri, come emerge dalle trascrizioni relative alle dichiarazioni rese dalla persona offesa ed allegate al ricorso (p. 17), senza che risulti l’emanazione, da parte del pubblico ministero, di apposito decreto motivato. Essa è, quindi, inutilizzabile. Trattandosi di inutilizzabilità patologica, essa rileva anche nel giudizio abbreviato (Sez. U., 21/6/2000, Tammaro, Rv, 216246). Si impone, pertanto, un pronunciamento rescindente sul punto, con rinvio al giudice di merito, il quale dovrà effettuare la c.d. “prova di resistenza”, valutando se, una volta espunte dal compendio probatorio le risultanze di questa registrazione, residuino o meno, a carico dell’imputato, considerato anche l’esito della nuova audizione della parte lesa, elementi di prova di spessore dimostrativo tale da valicare la soglia del “ragionevole dubbio”
5. La sentenza impugnata va dunque annullata, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, per nuovo esame. Va inoltre disposto, in ragione del titolo di reato, l’oscuramento dei dati personali. L’effetto rescindente di quest’epilogo decisorio determina l’ultroneità della disamina degli ulteriori motivi di ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, per nuovo esame. Dispone l’oscuramento dei dati.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2017

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