RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Palermo, con ordinanza
del 19 settembre 2011, rigettava la richiesta di riesame proposta
nell’interesse di B. R. avverso l’ordinanza in data 5 settembre 2011 del
Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale che aveva
applicato al medesimo la misura cautelare della custodia in carcere.
A
carico del R. il Pubblico ministero aveva richiesto l’applicazione di
detta misura cautelare in ordine al reato di cui agli artt. 99, 110, 61
n. 5, 56, 628, commi 2 e 3, nr. 1 e 3-bis cod. pen., perché, in concorso
con altri, al fine di profitto, introducendosi all’interno
dell’abitazione dei coniugi Vizzini in Palermo, Via Giorgio D’Antiochia,
14, compiva atti idonei e diretti in modo non equivoco ad impossessarsi
dei beni ivi presenti e, quindi, usava violenza nei confronti di
Vizzini Giuseppina, nel frattempo entrata nell’abitazione, per
guadagnare la fuga e l’impunità. In particolare il R. le metteva una
mano sulla bocca per non farla gridare mentre altro correo la teneva
ferma da dietro; intimandole i concorrenti di rimanere in silenzio, e
spingendola quindi all’interno dell’appartamento, dandosi poi tutti alla
fuga.
Il Tribunale, oltre ad affermare la sussistenza di gravi
indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, il quale era stato
riconosciuto dalla vittima ed aveva ammesso i fatti, e a reputare
sussistente il pericolo di reiterazione del reato, stante la particolare
proclività al delitto del R., riteneva corretta la qualificazione
giuridica dei fatti quale rapina impropria nella forma tentata,
dichiarando di aderire all’orientamento giurisprudenziale costante e
prevalente espresso, ex plurimis, da Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011,
espressamente citata, secondo il quale è configurabile il tentativo di
rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti
idonei all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento
per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o
minaccia per assicurarsi l’impunità.
Nel caso di specie, la parte
offesa aveva dichiarato che, rientrata a casa dopo una passeggiata con i
cani, trovava la propria abitazione a soqquadro e, all’interno, tre
individui che la bloccavano e le mettevano una mano davanti alla bocca
intimandole di non gridare e, dopo averla spinta, si davano alla fuga.
Sulla
base di tale ricostruzione dei fatti, il Tribunale riteneva indubbio
che l’indagato avesse compiuto atti idonei e univocamente diretti ad
impossessarsi dei beni presenti nell’appartamento ed avesse poi usato
violenza sulla vittima allo scopo di procurarsi l’impunità.
2.
Ricorre per cassazione B. R. personalmente lamentando, con unico motivo,
la «violazione di legge ed il vizio di motivazione ex artt. 606, lett.
b) ed e) in relazione agli artt. 628 cod. pen. e 274, 275, 292 cod.
proc. pen.».
Il ricorrente contesta la qualificazione giuridica dei
fatti e la sussunzione degli stessi nell’ambito della fattispecie della
rapina impropria sia pure nella forma tentata.
Secondo il ricorrente,
il quale cita a sostegno della tesi difensiva la dottrina prevalente e
la giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione, il tentativo di
rapina impropria sarebbe ipotizzabile solo quando la sottrazione della
cosa si sia realizzata, dovendosi invece ritenere integrato il tentativo
di furto, in concorso con altro reato contro la persona, quale minaccia
o percosse, in mancanza di detto presupposto. Riconoscere la rapina
impropria anche nell’ipotesi di sottrazione non realizzatasi
costituirebbe una forzatura della chiara lettera della legge e si
risolverebbe in un’applicazione analogica in malam partem, con il
conseguente aggravamento del carico sanzionatorio, così che una
riqualificazione giuridica del fatti potrebbe avere refluenza sul
giudizio di proporzione ed adeguatezza della misura cautelare disposta.
3.
La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con
ordinanza del 25 gennaio 2012, depositata il successivo 9 febbraio, ha
rilevato l’esistenza di due distinti orientamenti sulla questione della
configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in cui la
condotta di sottrazione della cosa non venga completata.
L’ordinanza mette a confronto le argomentazioni che sostengono i due indirizzi.
In
particolare, l’indirizzo maggioritario «presta scarsa attenzione al
tenore letterale della disposizione ed individua la medesima ratio, sul
piano delle valutazioni politico-criminali delle fattispecie: nel
delitto di rapina il legislatore, in ragione del nesso teleologico che
unisce le due offese – alla libertà morale e fisica, da un lato, al
patrimonio dall’altro, – ha attribuito maggior gravità al furto proprio
perché per commetterlo si aggredisce un interesse ben più rilevante
afferente alla persona. La stessa ratio presiederebbe la disciplina del
tentativo di rapina impropria nel caso che il nesso teleologico ed il
rapporto di immediatezza si configuri tra la violenza e la ricerca della
impunità perché maggior gravità deve ricollegarsi alla condotte di
aggressione del bene patrimonio e del bene integrità fisica o morale
alla persona rispetto alle due distinte lesioni ai predetti beni
giuridici, non collegate, le lesioni, nemmeno da un nesso di
immediatezza e di strumentalità».
Quanto all’indirizzo minoritario,
secondo l’ordinanza, esso «richiamandosi al principio di stretta
legalità e di tassatività della norma penale, valorizza il dato
letterale che pone la sottrazione quale prius ontologico della condotta
tipica della rapina impropria e configura il delitto quale fattispecie a
tempo circoscritto ovvero vincolato: la sottrazione non costituirebbe
una parte della condotta tipica della rapina impropria, ma solo un
presupposto fattuale che deve sussistere nella sua compiutezza tanto
nella consumazione quanto nel tentativo. Se così non si ragionasse, si
dovrebbe configurare la sottrazione quale inizio della esecuzione della
fattispecie, con risultati ingiusti e paradossali perché in violazione
del principio di tassatività delle fattispecie penali e del favor rei.
Si aggiunge, peraltro, che, in difetto di una sottrazione completamente
attuata, la violenza o la minaccia non potrebbero essere considerati
diretti e in modo inequivoco a commettere una rapina impropria. Ed,
ancora, che il dolo volto solo alla sottrazione non potrebbe, in corso
di opera, in seguito ad una condotta volta a garantirsi l’impunità,
convertirsi nel dolo di rapina, anche impropria, che presupporrebbe una
volontà rappresentativa fin dall’inizio di usare comunque violenza e
minaccia anche dopo solo una sottrazione tentata. Ed infine, quanto alla
ratio ed alle ragioni di politica criminale, si sottolinea il minor
disvalore giuridico-sociale della condotta di chi usi minaccia e
violenza per garantirsi solo l’impunità, senza aver sottratto nulla,
dalla condotta di chi agisce con l’intento di sottrarre ad altri ed
impossessarsi così della cosa altrui e di conseguenza, in aggiunta, di
garantirsi l’impunità».
4. Il Primo Presidente, con decreto del
21 febbraio 2012, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per
la trattazione l’odierna udienza.
5. Ha depositato memoria il
difensore di R., il quale afferma che la tesi giuridica secondo la quale
condotte e situazioni di fatto analoghe a quelle di cui al presente
procedimento vadano sussunte nell’ambito del tentativo di furto anziché
inquadrate come tentata rapina impropria appare più fondata, perché
compatibile con il tenore letterale della fattispecie incriminatrice di
cui all’art. 628 cod. pen., essendo la norma chiara nel riferirsi ad
un’aggressione alla persona commessa immediatamente dopo la sottrazione.
Il difensore, richiama, inoltre, la dottrina che configura la
sottrazione, nella rapina impropria, quale presupposto del fatto e non
condotta tipica di reato, intendendosi per presupposti del fatto gli
elementi materiali che precedono l’azione e sono necessari per la sua
esistenza, con la conseguenza che il tentativo non può riguardare i
presupposti di fatto della condotta ma esclusivamente la condotta tipica
del reato. Secondo la tesi difensiva, la sottrazione non è rilevante
sul piano dell’offesa tipica dei delitti di che trattasi, poiché è
l’illecito impossessamento il fulcro della lesione tipica del furto e
della rapina. La mancata sottrazione della cosa impedisce, inoltre, di
considerare in un unico contesto teleologico il tentativo di furto e la
successiva violenza o minaccia per conseguire l’impunità. Il soggetto
che pur potendo non si appropria della cosa con violenza o minaccia
dimostra, anche dal punto di vista soggettivo, un atteggiamento
psicologico incompatibile con l’espropriazione violenta tipica della
rapina impropria. Infine, secondo il difensore, sarebbe operazione
contra legem applicare la medesima risposta punitiva all’ipotesi di
mancata sottrazione seguita da reati contro la persona, proprio per la
minore offensività di quest’ultima ipotesi, e sostenere il contrario
significherebbe porsi in contrasto con il principio di legalità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
Il motivo di ricorso pone la seguente questione di diritto, in
relazione alla quale il ricorso stesso è stato rimesso a queste Sezioni
Unite: «Se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se
invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un
reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver
compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non
portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi
violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per
assicurarsi l’impunità».
2. Come già rilevato dall’ordinanza di
rimessione a queste Sezioni Unite, sulla suddetta questione si
registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo
l’orientamento ampiamente maggioritario della Cassazione ed anzi
consolidato fino al 1999, è configurabile il tentativo di rapina
impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei
diretti all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento
per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o
minaccia per assicurarsi l’impunità.
Per tale soluzione, volendo
limitare la citazione alle pronunce massimate degli ultimi anni, si
esprimono Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011, Lanza, Rv. 249390; Sez. 2, n.
44365 del 26/11/2010, Panebianco, Rv. 249185,; Sez. 2, n. 42961 del
18/11/2010, C.I., Rv. 249123; Sez. 2, n. 36723 del 23/09/2010, Solovchuk
Rv. 248616; Sez. 2, n. 22661 del 19/05/2010, Tushe, Rv. 247431; Sez. 2,
n. 23610 del 12/03/2010, Russomanno, Rv. 247292; Sez. 6, n. 25100 del
29/04/2009, Rosseghini, Rv. 244366; Sez. 2, n. 3769 del 16/12/2008, dep.
2009, Solimeo, Rv. 242558; Sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, Bastea, Rv.
241666; Sez. 2 , n. 19645 del 08/04/2008, Petocchi, Rv. 240408; Sez. 2,
n. 20258 del 26/03/2008, Boudegzdame, Rv. 240104; Sez. 2, n. 29477 del
29/02/2008, Chirullo, Rv. 240640; Sez. 2, n. 38586 del 25/09/2007,
Mancuso, Rv. 238017; Sez. 2 , n. 40156 del 10/11/2006, Taroni, Rv.
235448.
Tale orientamento si basa su una serie di argomentazioni.
La
prima è espressa da una lettura logico-sistematica e non meramente
letterale dell’art. 628, comma secondo, cod. pen., che descrive la
condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare
quella che configura la forma tentata del reato in questione ogni qual
volta l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi,
fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera
violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver
compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa
mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di fattori
sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia
nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico
delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del
tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto allorché un
tentativo di furto sfoci, come nel caso di specie, in violenza o
minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione
sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato
conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto
una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina
impropria (Sez. 2, n. 42961 del 2010 cit. e Sez. 2, n. 7264 del 2004
cit.).
Altra argomentazione fa riferimento ai concetto di fattispecie
criminosa complessa, alla quale deve ricondursi anche la rapina
impropria, ed afferma che le fattispecie componenti la figura in esame
(sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del
tentativo, sicché l’unitarietà della rapina resta tale anche quando
dette condotte si arrestino ad ipotesi tentate. Non sarebbe, in altri
termini, consentito procedere, proprio per l’unità della figura
delittuosa, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti
volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro
la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfocia in violenza o
minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due
tronconi, l’uno configurante un delitto consumato contro la persona
(lesioni, minaccia o altro) e l’altro un delitto tentato contro il
patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti ad un reato
complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione
organica, la quale non può non portare a concludere che è stata messa in
atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina
impropria, anche se non si era conseguita la sottrazione del bene altrui
(Sez. 2, n. 19645 del 2008 cit. e altre). Su tali basi si precisa che
la violenza successiva alla sottrazione non sta a rappresentare, in
questa prospettiva, un concetto di esaurimento “consumativo” del primo
momento in cui si articola la condotta criminosa, ma intende
normativamente sottolineare esclusivamente il profilo cronologico e
funzionale che colloca quella condotta come un prius rispetto all’altra,
lasciando inalterata l’applicabilità, a quella stessa condotta, degli
ordinari principi in tema di tentativo (Sez. 2, n 19645 del 2008, cit.).
Sotto
il profilo della ratio legis, si osserva che con le norme sulla rapina
il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del
reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia,
sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto
sottrarre ad uguale trattamento colui che pur sempre usando violenza o
minaccia attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per
cause estranee alla sua volontà.
3. L’orientamento minoritario
prende le mosse da Sez. 5, n. 3796 del 12/07/1999, Jovanovic, Rv.
215102, che, per la prima volta, contrasta la consolidata
giurisprudenza, aprendosi piuttosto alle argomentazioni della dottrina
maggioritaria, seguendola nell’opposta direzione della non
ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in mancanza del
presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare,
nel caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la
sottrazione, usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o di
procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad altro
autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la
minaccia.
Rimasta inizialmente del tutto isolata, detta tesi è stata,
successivamente, seguita anche da Sez. 5, n. 16952 del 14/12/2009, dep.
2010, Mezzasalma, Rv. 246860; Sez. 6, n. 4264 del 10/12/2008, dep.
2009, Coteanu, Rv. 243057; Sez. 6, n. 10984 del 27/11/2008, dep. 2009,
Strzezek, Rv. 243683; Sez. 6, n. 43773 del 30/10/2008, Muco, Rv. 241919;
Sez. 5, n. 32551 del 13/04/2007, Mekhatria, Rv. 236969.
Tale
orientamento si basa in primo luogo e principalmente sull’elemento
letterale, affermando che «il capoverso dell’art. 628 cod. pen. impone
claris verbis che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di
violenza o minaccia (“..adopera violenza o minaccia immediatamente dopo
la sottrazione..”) sicché l’agente, qualora – sorpreso prima di aver
compiuto la sottrazione – usi violenza o minaccia al solo fine di
fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata
rapina ma di tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato
avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia […] Nella
formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile nesso
temporale tra “sottrazione” e violenza/minaccia finalizzata rappresenta
l’essenza caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il
secondo comportamento, qualora rimanga avulso dal primo (venuto a
mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato di lesioni e/o
minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti
all’impossessamento (che non raggiungano, tuttavia, la soglia della
“sottrazione”) consente ancora la configurabilità del tentativo di
furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina impropria. In
definitiva, la mancanza di “sottrazione della cosa” impedisce che la
violenza successiva possa assurgere anche solo al rango di “atto idoneo
diretto in modo non equivoco” alla commissione di una rapina impropria»
(Sez. 5, n. 3796 del 1999).
4. Ad avviso delle Sezioni Unite non
si ravvisano argomentazioni idonee a superare il risalente e più volte
ribadito, anche in tempi recenti, orientamento maggioritario.
5.
Occorre, in primo luogo, sgombrare il campo dalla suggestiva
argomentazione, sostenuta dal ricorrente sulla scia della prevalente
dottrina, secondo la quale il tenore letterale del capoverso dell’art.
628 cod. pen. sarebbe tale che la tesi della configurabilità del
tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il
principio di legalità e con il divieto di analogia.
Queste Sezioni
Unite hanno avuto modo di chiarire (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep.
2011, Giordano) che il principio di legalità trova fondamento, oltre
che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus
comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto
principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility)
della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della
sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla
semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vivente” quale
risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto,
la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella
precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto
penale. Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di
legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del
risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale,
tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che
si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta
interpretazione (Corte EDU, 02/11/2006, Milazzo c. Italia; Grande
Camera, 17/02/2004, Maestri c. Italia; 17/02/2005, K.A. e A.D. c.
Belgio; 21/01/2003, Veeber c. Estonia; 08/07/1999, Baskaya e Okcuoglu c.
Turchia;
15/11/1996, Cantoni c. Francia; 22/09/1994, Hentrich c.
Francia; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; 08/07/1986, Lithgow e altri
c. Regno Unito).
Non vi è dubbio che nel caso in esame la
prevedibilità del risultato interpretativo con riferimento al “diritto
vivente” è piuttosto rappresentata da una giurisprudenza, non proprio
maggioritaria, ma addirittura granitica, per molti decenni, fino alla
pronuncia di alcune sentenze difformi. Si discute, pertanto, della
modifica di un risultato interpretativo “normalmente” prevedibile, in
quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, e
ciò può avvenire solo nel caso in cui tale risultato contrasti, in modo
chiaro ed evidente, con i prìncipi di precisione e di stretta
interpretazione. In verità, si tratta di una questione sulla quale si è
manifestata in modo evidente la differenza tra gli orientamenti assunti
dalla quasi totalità della giurisprudenza di legittimità e gli approdi
ermeneutici cui è pervenuta la maggior parte della dottrina. Gli
argomenti a favore della tesi giurisprudenziale minoritaria si traggono,
quindi, soprattutto dalla dottrina, alla quale si richiama il
ricorrente, e con tali argomenti occorre confrontarsi.
6. Su alcune considerazioni di base può ritenersi che vi sia sufficiente concordia di opinioni.
Nelle
diverse fattispecie descritte nell’art. 628 cod. pen. si manifesta
chiaramente la scelta normativa di tutelare i beni giuridici patrimonio e
persona, o, per meglio dire, i beni della inviolabilità del possesso e
contestualmente della sicurezza e libertà della persona.
Vi è ampio
consenso nel riconoscere il carattere plurioffensivo del reato di rapina
e la sua caratteristica di reato complesso: la condotta disegnata
nell’art. 628 cod. pen., infatti, è costituita dalla stessa azione di
sottrazione- impossessamento tipica del furto, cui si aggiunge
l’elemento della violenza alla persona o della minaccia. Da qui la
natura complessa del reato, risultante dalla commistione del reato di
furto con il corrispondente reato relativo al tipo di violenza di volta
in volta esercitata (percosse, minacce).
Sotto la comune
denominazione di rapina il codice colloca, però, due ipotesi distinte
dalla diversa successione delle condotte che compongono il delitto di
rapina e da una differente direzione finalistica del comportamento
violento o minaccioso. Nel caso in cui la violenza o la minaccia
esercitate rappresentino il mezzo, precedente o concomitante rispetto
all’impossessamento, usato per perseguire l’offesa al patrimonio, si
realizza l’ipotesi della rapina c.d. propria. Quando invece la violenza o
la minaccia servono come mezzo per assicurare il possesso della cosa
sottratta o, in alternativa, per procurare a sé o ad altri l’impunità,
si avrà la diversa fattispecie definita rapina impropria.
Nelle due
figure certamente il ruolo centrale è assunto dalla violenza o dalla
minaccia, che nella rapina propria precedono lo spossessamento e sono
funzionali ad esso, mentre nella rapina impropria seguono al medesimo,
ma entrambe le figure presuppongono che l’agente non abbia il possesso
della cosa che vuole sottrarre.
Entrambe le fattispecie legali sono considerate dal legislatore equivalenti sotto il profilo sanzionatorio.
7.
Alla tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria anche
nel caso in cui non venga portata a compimento la sottrazione della
cosa mobile altrui si muove, principalmente, la critica di trascurare il
dato testuale del capoverso dell’art. 628 cod. pen., che sarebbe
esplicito nel richiedere che violenza e minaccia siano utilizzate “dopo
la sottrazione”.
Tale critica appare infondata.
Deve osservarsi
che la formulazione della norma in esame ha una spiegazione logica ben
precisa: il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo”
intendeva stabilire il nesso temporale che deve intercorrere tra i
segmenti dell’azione criminosa complessa, ma non anche definire le
caratteristiche, consumate o tentate, di tali segmenti. In altri
termini, nella formulazione della norma svolge un ruolo centrale la
necessità di un collegamento logico-temporale tra le condotte di
aggressione al patrimonio e di aggressione alla persona, attraverso una
successione di immediatezza. È necessario e sufficiente che tra le due
diverse attività concernenti il patrimonio e la persona intercorra un
arco temporale tale da non interrompere il nesso di contestualità
dell’azione complessiva posta in essere. Questo è il punto centrale e il
solo indefettibile della norma incriminatrice del comma secondo
dell’art. 628 cod. pen. che giustifica l’equiparazione del trattamento
sanzionatorio tra la rapina propria e quella impropria,
indipendentemente dall’essere quelle stesse condotte consumate o solo
tentate.
Del resto, lo stesso dato testuale suggerisce, ponendo in
alternativa la finalità di assicurarsi il possesso e quella di
procurarsi l’impunità, che quest’ultima finalità può sussistere anche
senza previa sottrazione. In altri termini, la norma in esame punisce la
violenza o la minaccia anche se queste vengano poste in essere per
assicurarsi l’impunità, cioè esse non vengono considerate per sé sole o
in un contesto distinto e separato e, pertanto, il legislatore ha voluto
che fossero punite non come tali, cioè come entità giuridiche a sé
stanti, ma con riferimento all’attività criminosa per la quale il reo
intendeva assicurarsi l’impunità, attività la quale, pur se sintetizzata
nel termine “sottrazione”, non può non comprendere tutte le fasi in cui
essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del
tentativo di impossessamento a quello finale dell’impossessamento della
cosa che ne è oggetto.
8. La tesi propugnata dal ricorrente
richiama quella dottrina che configura la sottrazione come un mero
presupposto del reato di rapina impropria e non come parte della
condotta di tale reato. Ma proprio tale ricostruzione teorica della
fattispecie dimostra che il semplice dato testuale non è così chiaro e
univoco come si afferma, se per interpretarlo è necessario fare ricorso a
categorie dogmatiche quanto meno di dubbia applicabilità nel caso di
specie.
Secondo tale tesi, la sottrazione del bene è presupposto di
fatto e non condotta tipica del reato, con la conseguenza che, se l’art.
56 cod. pen. consente di equiparare sul piano della tipicità la
condotta compiuta e gli atti idonei diretti in modo non equivoco al suo
compimento, la clausola di apertura del tentativo può riguardare solo la
condotta tipica del reato e non i presupposti di fatto della condotta.
In questa costruzione teorica, inoltre, non ha senso porsi il problema
di una causazione volontaria del presupposto, essendo invece
determinante ai fini del dolo che il soggetto se ne rappresenti
l’esistenza.
Di contro deve osservarsi che è ben difficile attribuire
natura di mero presupposto alla sottrazione, trattandosi pur sempre di
una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo
di un elemento naturale o giuridico anteriore all’azione delittuosa ed
indipendente da essa. L’unico presupposto della rapina, nelle sue varie
forme, è la mancanza di possesso della cosa oggetto dell’azione.
Non
si comprende, poi, perché nella struttura della rapina propria, in cui
la violenza o la minaccia precedono e sono funzionali
all’impossessamento, si possano ravvisare due condotte tipiche, entrambe
suscettibili di estensione con il meccanismo del tentativo, mentre nel
caso della rapina impropria la sola condotta tipica sarebbe quella della
violenza o minaccia e la sottrazione si configurerebbe come mero
presupposto. Il delitto di rapina ha, nelle sue due configurazioni,
natura unitaria, quale reato plurioffensivo, in cui, con l’azione
violenta e la sottrazione del bene, si aggrediscono contemporaneamente
due beni giuridici, il patrimonio e la persona. Del resto, è opinione
ampiamente condivisa quella della natura unitaria del reato complesso;
pertanto, se la rapina costituisce un reato composto risultante dalla
fusione di due reati, non se ne può scindere l’unità valutando
separatamente i componenti costitutivi delle figure criminose
originarie; e se l’art. 628 cod. pen. opera un’unificazione tra
fattispecie consumate, la stessa unificazione dovrebbe continuare a
valere, salvo il diverso titolo di responsabilità, quando una di esse si
presentasse nello stadio del tentativo.
D’altro canto, non
condivisibile appare la lettura dell’elemento della sottrazione come
presupposto di fatto che non deve necessariamente essere oggetto di
dolo, purché l’agente se ne rappresenti l’esistenza, poiché ciò
equivarrebbe a dire che l’elemento soggettivo di un delitto contro il
patrimonio mediante violenza alle persone non dovrebbe necessariamente
cadere sulla condotta di aggressione al patrimonio, limitandosi ad
investire la condotta di violenza o minaccia, con la conseguenza
paradossale che si potrebbe rispondere di rapina impropria per una
sottrazione non voluta. In realtà, il dolo richiesto dalla fattispecie è
stato definito doppiamente specifico, in quanto integrato dal dolo del
furto, implicitamente richiamato, e dall’ulteriore scienza e volontà di
usare la violenza o minaccia al fine di assicurare a sé o ad altri il
possesso della cosa sottratta o di procurare a sé o ad altri l’impunità.
9.
La tesi che sta a fondamento del ricorso, sempre per giustificare
l’affermazione di indefettibilità del dato, che si pretende testuale,
della sottrazione compiutamente realizzata, fa ricorso alla impostazione
teorica secondo cui lo schema del delitto tentato può ritenersi
riferibile al reato complesso globalmente considerato anche allorquando
un troncone della condotta sia giunto a perfezione e l’altro sia rimasto
allo stadio de! tentativo penalmente significativo, ma soltanto se la
porzione della condotta compiutamente realizzata è quella che la norma
richiede sia realizzata per prima, oppure allorquando l’ordine
cronologico di realizzazione appaia indifferente, condizione
quest’ultima che non si realizzerebbe nella fattispecie di rapina
impropria, nella quale l’ordine dei fatti è sovvertito rispetto alla
sequenza tipica.
In verità, è opinione largamente diffusa, e
certamente preferibile, che si ha tentativo di delitto complesso sia
quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell’una né
dell’altra componente, sia quando sia stata raggiunta la consumazione
dell’una e non quella dell’altra.
Ciò, come si è detto, può ritenersi
pacifico con riferimento al delitto di rapina propria, né diversamente
può opinarsi con riguardo al delitto di rapina impropria, trattandosi di
affermazione indimostrata che l’ordine dei fatti di cui alla rapina
propria debba considerarsi “tipica”; anzi, è lo stesso legislatore che,
equiparando le due fattispecie del primo e del secondo comma dell’art.
628 cod. pen., mostra di considerare indifferente la sequenza, ferma
rimanendo la tipologia delle singole componenti del reato complesso. Del
resto, anche i sostenitori dell’interpretazione qui disattesa
riconoscono che sia configurabile il tentativo di rapina impropria nel
caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito
dopo abbia tentato un’azione violenta o anche minacciosa nei confronti
della vittima del reato o di terzi per assicurarsi il possesso del bene.
Non si vede, pertanto, la ragione di negare la configurabilità del
tentativo nel caso in cui rimanga incompiuta l’azione di sottrazione
della cosa altrui.
Si afferma anche che una violenza tentata che non
segua ad una sottrazione completamente realizzata non potrebbe dirsi
diretta in modo non equivoco alla realizzazione della rapina impropria.
Ma tale affermazione si scontra già con il dato concreto della realtà
criminale, quale è ben evidenziata proprio nel caso di cui al presente
processo, nel quale gli autori del reato si erano introdotti
nell’abitazione della vittima e la avevano “messa a soqquadro” senza
nulla sottrarre a causa dell’intervento della vittima medesima: è di
tutta evidenza il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco
alla sottrazione della cosa mobile altrui.
Piuttosto deve osservarsi
che il comma secondo dell’art. 628 cod. pen. fa riferimento alla sola
sottrazione e non anche all’impossessamento, ciò che conduce a ritenere
che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo
usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento,
sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma
dello stesso.
Il requisito della violenza o minaccia che caratterizza
il delitto di rapina, certamente può comportare una differenziazione in
ordine al momento consumativo rispetto al furto. Mentre, infatti, con
riferimento al furto, finché la cosa non sia uscita dalla sfera di
sorveglianza del possessore questi è ancora in grado di recuperarla,
così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero
tentativo, al contrario, nella rapina, la modalità violenta o minacciosa
dell’azione non lascia alla vittima alcuna possibilità di esercitare la
sorveglianza sulla res. Per la consumazione del delitto di rapina è
quindi sufficiente che la cosa sia passata sotto l’esclusivo potere
dell’agente, essendone stata la vittima spossessata materialmente, così
perdendo di fatto i relativi poteri di custodia e di disposizione
fisica. In considerazione della successione “invertita” delle due
condotte di aggressione al patrimonio e alla persona che caratterizza la
rapina impropria, il legislatore, al fine di mantenere equiparate le
due fattispecie criminose del primo e del secondo comma dell’art. 628
cod. pen., non richiede il vero e proprio impossessamento della cosa da
parte dell’agente, ritenendo sufficiente per la consumazione la sola
sottrazione, così lasciando spazio per il tentativo ai soli atti idonei
diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa altrui, atti che sono
di tutta evidenza sussistenti nel caso di cui al presente procedimento.
Ne
consegue la fondatezza della tesi della maggioritaria giurisprudenza,
secondo la quale, combinando la norma incriminatrice dell’art. 628,
comma secondo, cod. pen. con l’art. 56 cod. pen., se ne trae che se si
tenta un furto senza realizzare la sottrazione della cosa e si commette
immediatamente dopo un’azione violenta contro una persona, che ha per
fine di assicurare l’impunità per il tentativo di furto, l’azione
violenta resta strumentale a quella già realizzata e, pertanto,
assorbita.
Ammessa, dunque, concettualmente la ipotizzabilità del
tentativo con riferimento alla fase della sottrazione, ne deriva che la
successiva violenza esercitata per procurarsi l’impunità, non resta
avulsa dal modello legale prefigurato nell’art. 628 comma secondo, cod.
pen., ma ad esso si coniuga a perfezione, dando così vita alla figura
tentata di rapina impropria, senza alcuna illogica scansione del reato
complesso in autonome figure di tentato furto e violenza o minaccia.
10.
Altro argomento a favore della non ipotizzabilità del tentativo di
rapina impropria fa leva su ragioni di politica criminale: si è
sostenuto che una volta venuto meno il rapporto tra l’offesa alla
persona e quella al patrimonio, ossia il legame di consequenzialità che
unisce le due offese, non avrebbe senso applicare il regime
sanzionatorio della rapina, giustificato proprio in ragione del nesso
teleologico tra l’aggressione ai due beni. In altri termini,
l’allargamento delle maglie della fattispecie di rapina impropria nel
senso indicato dalla prevalente giurisprudenza comporterebbe
l’applicazione di una sanzione particolarmente grave anche per un fatto
che non si ritiene dotato di significativo disvalore.
Anche tale
argomentazione non può essere condivisa, poiché la mancata consumazione
della condotta di aggressione al patrimonio o della condotta di
aggressione alla persona non fanno venir meno il legame tra le due forme
di aggressione, come struttura portante del reato complesso di rapina,
che persiste nelle due forme propria e impropria e che giustifica il
trattamento sanzionatorio più grave.
È ben vero che nella rapina
impropria non sussiste il nesso funzionale e strumentale che in quella
propria unisce l’aggressione alla persona all’aggressione al patrimonio,
ma un volta che il legislatore ha stabilito che la mancanza di tale
specifico nesso non esclude l’equiparabilità ai fini sanzionatori della
rapina impropria, deve ritenersi che la congiunta e contestuale
aggressione ai due beni giuridici attribuisce di per sé maggiore gravità
alle condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene sicurezza e
libertà della persona e perciò è previsto che sia punita più
severamente delle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici.
Se
il legislatore ha ritenuto con il delitto di rapina di sanzionare in
maniera ben più severa le condotte di per sé autonomamente punibili
della violenza o
minaccia e del furto, in ragione del nesso di
contestualità che unisce le due offese, attribuendo così maggiore
gravità anche al furto, appare ragionevole ritenere che tale ratio
sussista anche nel caso in cui il soggetto agente tenta di sottrarre il
bene altrui ed è poi disposto per assicurarsi l’impunità ad usare
violenza o minaccia. Non vale l’obiezione che l’equiparazione del
trattamento sanzionatorio può essere fondata su una connessione
“analoga”, quale sarebbe quella che lega l’offesa al patrimonio già
realizzata e l’offesa alla persona commessa per assicurarsi il possesso
della cosa sottratta o per conseguire l’impunità; poiché il rapporto di
“analogia” rispetto al trattamento sanzionatorio deve essere tra termini
corrispondenti e, quindi, tra tentativo di rapina impropria e tentativo
di rapina propria e quest’ultimo, come dimostrano i molteplici casi
giurisprudenziali (ad es. Sez. 2, n. 18747 del 20/03/2007, Di Simone,
Rv. 236401; Sez. 2, n. 21955 del 10/02/2005, Granillo, Rv. 231966; Sez.
2, n. 3596 del 01/02/1994, Evinni, Rv. 197753), è configurabile anche
nelle ipotesi in cui non siano perfezionate né l’offesa al patrimonio né
quella alla persona, quando la condotta dell’agente sia potenzialmente
idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante
violenza o minaccia, e la direzione univoca degli atti, desumibile da
qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire
l’intento criminoso.
Pertanto, il legame posto dal legislatore tra la
condotta di aggressione al patrimonio e la condotta di violenza al fine
di guadagnare l’impunità per il delitto precedentemente commesso è
frutto della valutazione del maggior disvalore sociale che caratterizza
l’azione violenta o minacciosa comunque connessa ad un aggressione al
patrimonio, a prescindere che l’intento si sia realizzato o meno.
11.
Sulla base delle esposte argomentazioni deve essere formulato il
seguente principio di diritto: «È configurabile il tentativo di rapina
impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei
diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa altrui, adoperi
violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità».
12.
In applicazione del suddetto principio il ricorso deve essere rigettato
con la conseguenza della condanna del ricorrente al pagamento della
spese processuali.
Copia del presente provvedimento deve essere
trasmesso al direttore dell’istituto penitenziario, affinché provveda a
quanto previsto dall’art. 94, comma 1 -ter, disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente ai pagamento della spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 -ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 19 aprile 2012.