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Penale Procedura Penale Sentenze

Cassazione penale, sez. V, 4 marzo 2016, n. 29213

Redazionedi Redazione11 Settembre 2016Aggiornato il:11 Settembre 2016
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7 maggio 2015 la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la pronunzia di primo grado del G.U.P. presso il Tribunale della stessa città, con la quale P.G. era stato condannato per il delitto di cui all’art. 612 bis c.p..
2. L’imputato, con atto sottoscritto dal difensore, ha proposto ricorso articolato in un unico motivo, con il quale si denunziano vizi motivazionali in relazione all’art. 192 c.p., ed agli artt. 81 cpv. e 612 bis c.p..
Si sostiene, sotto il profilo oggettivo, che non sembra che “la condotta reiterata, meglio gli atti di petulanza, del ricorrente abbiano indotto nella vittima lo stato d’ansia inteso quale effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, quantomeno sotto l’aspetto del ragionevole dubbio”.
Si contesta altresì la valutazione delle dichiarazioni della persona offesa T.A., che non avrebbero trovato riscontro in relazione alle lesioni o percosse subite.
Si deduce inoltre la insussistenza dell’elemento soggettivo, sostenendo che dal quadro probatorio, indimostrato lo stato di coartazione della vittima, appare più corretta la riqualificazione del fatto, originariamente contestato, con quello previsto dall’art. 660 c.p..

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1. Con tutte le doglianze proposte, pedissequamente reiterative dei motivi di appello, il ricorrente ha contestato la sussistenza degli elementi costitutivi dell’art. 612 bis c.p., lamentando in proposito vizi motivazionali.
2. Giova in proposito premettere, in via generale, che con l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., il legislatore ha voluto, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorchè non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.
Il legislatore ha preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisiopsichica attraverso l’incriminazione di condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone.
È peraltro utile ricordare come, per il consolidato insegnamento di questa Corte, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612 bis c.p., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 46331 del 5 giugno 2013, D. V., Rv. 257560). Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo “eventualmente” abituale (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024).
Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 33563 del 16/06/2015, B, Rv.
264356).
Trattandosi di reato abituale è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza ed in tal senso l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo.
È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis c.p..
Indubbiamente l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T, Rv. 262636).
Va detto, peraltro, che, ai fini della individuazione dell’evento cambiamento delle abitudini di vita (che – come si dirà più avanti – si è verificato nel caso in esame), occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate.
(Sez. 5, n. 24021 del 29/04/2014, G, Rv. 260580).
3. Fatte le suesposte precisazioni in diritto, risultano non fondate le censure alle sentenze dei giudici di merito che hanno ritenuto integrata la fattispecie contestata.
Invero, è emerso che il P., non accettando di condividere con la persona offesa una semplice amicizia (ma pretendendo un più stretto rapporto sentimentale) ha cominciato a controllarla, ad importunarla per telefono, ad inveire contro di lei fino ad aggredirla, anche fisicamente, e a condizionarne pesantemente la vita a causa del suo morboso stato di gelosia ossessiva ed inarrestabile.
4. La ricostruzione dei fatti è stata operata dai giudici di merito sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, di cui si è dato conto in maniera congrua e logica, sia nella sentenza di appello che in quella di primo grado (emessa all’esito di giudizio abbreviato), alla quale la prima ha fatto anche legittimamente rinvio.
Sia il G.U.P. che la Corte territoriale hanno dato altresì conto delle risultanze in base alle quali hanno ritenuto provata la sussistenza dell’evento del reato contestato. È infatti emerso che la persona offesa, in conseguenza delle reiterate molestie e aggressioni subite, aveva avvertito un forte senso di ansia e si era sentita perseguitata, tanto da temere fondatamente che l’uomo potesse andare oltre e commettere atti di violenza più gravi.
5. Alla luce di quanto sopra rappresentato, è del tutto evidente che i fatti posti in essere dal P. non si siano concretati solo in ingiurie e molestie ex art. 660 c.p., come sostenuto dalla difesa dell’imputato nel ricorso in esame.
Peraltro non ci sono dubbi anche sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato.
In proposito, va detto che, trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz’altro unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l’agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta.
Si tratta, peraltro, di dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260411).
I giudici di merito hanno evidenziato quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale in ordine all’elemento soggettivo, sottolineando anche che il P. non aveva desistito dalla sua condotta persecutoria sebbene fosse stato sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento.
6. A fronte di tali risultanze le doglianze difensive si rivelano in effetti finalizzate solo ad una diversa ricostruzione dei fatti.
6.1. A questa Corte, però, non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e); la modifica normativa di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, lascia infatti inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati; è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Solo attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione (Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567).
Nel caso in esame è stato genericamente dedotto un travisamento della prova, ma l’analisi del provvedimento impugnato consente di apprezzare come la motivazione sia congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza, proprio con riferimento alla valutazione sia delle risultanze processuali, dalle quali emerge la responsabilità dell’imputato, sia della conseguente infondatezza delle argomentazioni difensive.
La Corte territoriale, infatti, ha puntualmente riportato gli esiti dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, dando atto in particolare delle dichiarazioni dei testi escussi e della attendibilità della persona offesa, il cui racconto risulta riscontrato dalle dichiarazioni del figlio e in parte dello stesso imputato.
Peraltro, la Corte di Appello ha assolto compiutamente all’obbligo di motivazione, in quanto non si è limitata al mero richiamo delle argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado, ma ha specificamente valutato le doglianze contenute nell’atto di appello, in particolare in ordine alla valutazione delle prove e alla conseguente ricostruzione dei fatti (Sez. 6, n. 9752 del 29/01/2014, Ferrante, rv. 259111; Sez. 1, n. 43464 del 01/10/2004, Perazzolo, rv.
231022).
6.2. Queste stesse considerazioni servono anche a confutare l’altra doglianza mossa dal ricorrente, con la quale si è sostenuto che la valutazione delle prove fatta dalla Corte di appello sarebbe frutto di un ragionamento giustificativo dell’affermazione di colpevolezza errato.
È opportuno evidenziare per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo dell’art. 533 c.p.p., che ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione. Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (Sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222139), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (sez. 2, n. 19575 del 21 aprile 2006, Serino ed altro, Rv. 233785; sez. 2, n. 16357 del 2 aprile 2008, Crisiglione, Rv. 23979; sez. 2, n. 7035 del 9 novembre 2012, De Bartolomei ed altro, Rv. 254025).
Orbene, come si è già evidenziato, la valutazione delle prove da parte della Corte territoriale è espressione corretta dei suddetti principi, giacché è approdata a un convincimento basato su più elementi, seguendo la regola metodologica dell’art. 192 c.p.p., di cui ha dato ampiamente e logicamente conto.
7. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
Il reato contestato impone l’oscuramento dei dati.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 195 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2016

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