Cassazione penale, sez. V, 1 dicembre 2017, n. 54300
Fatto
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Milano, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado emessa, in data 5.7.2013, dal Tribunale di Milano nei confronti dell’imputato B.P. – sentenza appellata dalla sola parte civile CONSOB – dichiarava quest’ultimo responsabile agli effetti civili del reato di abuso di mercato (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 185, prescritto alla data della pronuncia della sentenza d’appello) per aver posto in essere una serie di condotte (tra settembre 2007 e luglio 2008) in continuazione tra loro, consistite in artifici e simulazioni di scambi di titoli azionari, attraverso operazioni incrociate di segno opposto, idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari quotati sul mercato telematico azionario di Milano (MTA), fungendo da richiamo per gli altri operatori sull’appetibilità dei titoli di volta in volta fittiziamente scambiati. Lo condannava, pertanto, al risarcimento dei danni a favore dell’appellante CONSOB, liquidati in via equitativa in complessivi 50.000 Euro, nonché alle spese di giudizio e rappresentanza della costituita parte civile per complessivi 8.000 Euro.
2. Avverso tale provvedimento d’appello propone ricorso per cassazione l’imputato, articolando differenti motivi.
2.1. Il primo motivo denuncia violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla dichiarazione di responsabilità dell’imputato, con condanna dello stesso agli effetti civili, per l’erronea interpretazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 185 (testo unico dei reati finanziari, d’ora innanzi TUF) e artt. 192,530 c.p.p., art. 533 c.p.p., comma 1, artt. 573 e 576 cod. proc. pen..
Proponendo una ricostruzione della vicenda nel solco delle ragioni argomentative fatte proprie dal giudice di primo grado che aveva assolto l’imputato, il ricorso lamenta che la sentenza di condanna impugnata abbia superato i dubbi della pronuncia riformata sulla dimostrazione della connessione tra gli scambi ad incrocio contestati e l’incremento potenziale del prezzo dei titoli scambiati fittiziamente, elemento essenziale ad integrare il reato di cui all’art. 185 TUF, ritenendo tale connessione esistente e non tenendo conto, tra l’altro, dell’incidenza delle analoghe condotte poste in essere da altri operatori o di altri fattori (ad esempio informazioni sui titoli in crescita) riconducibili al mercato.
Si rappresenta, infatti, da un lato, l’ampia oscillazione di prezzi che caratterizza di per sè i titoli cd. “sottili” trattati dall’imputato; dall’altro, il fatto che, dalle tabelle stilate dallo stesso ufficio per gli abusi di mercato, riportate dalla sentenza impugnata, l’andamento dei volumi d’affari e dei prezzi dei titoli mostra un indice in crescita già prima dell’intervento dell’imputato con le sue operazioni incrociate, sicché non è possibile collegare tale incremento alla diretta incidenza dell’attività del B.. Egualmente erronea sarebbe la constatazione del decremento degli scambi, cessata l’attività dell’imputato, posto che la stessa sentenza impugnata ne rileva il carattere contingente e non costante.
Inoltre, la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto la prova, invece negata dal primo giudice, dell’esistenza di un rapporto causale tra la variazione dei volumi di affari scambiati e l’eventuale, anche solo potenziale, variazione dei prezzi dei titoli oggetto di transazione.
La motivazione del provvedimento d’appello sarebbe, altresì, afflitta da un vizio di sostanziale, acritico e immotivato recepimento delle ragioni della CONSOB appellante, desumibile anche da alcuni dati, riportati in sentenza, certamente errati, quale quello della sussistenza di un presumibile profitto conseguito dall’imputato, laddove tale circostanza è pacificamente negata da tutte le parti processuali.
Si cita, ancora, la testimonianza del teste P., figura di vertice dell’Ufficio abusi di mercato, correttamente valutata dal primo giudice nel senso di ritenere la casualità degli errori di digitazione delle operazioni in capo ad un soggetto che, come l’imputato, era solito agire quale “scalper”, e cioè come operatore che effettua compravendite mobiliari sul mercato telematico, acquistando un titolo e rivendendolo nel giro di un brevissimo intervallo di tempo, dell’ordine di qualche minuto, con margini di guadagno molto bassi; tale testimonianza era stata del tutto ignorata dalla Corte d’Appello in chiave difensiva.
In conclusione, si chiede l’annullamento della sentenza impugnata perché, secondo l’interpretazione dominante della giurisprudenza di legittimità, sarebbe inidonea ad esprimere quella forza persuasiva superiore rispetto alla sentenza di primo grado riformata, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato, anche nei casi di impugnazione presentata dalle parti civili per le sole statuizioni civili, secondo l’interpretazione dominante della giurisprudenza di legittimità.
2.2. Il secondo motivo rappresenta, richiamandole, le medesime ragioni del primo motivo quanto all’insussistenza del reato di cui all’art. 185 TUF, sotto il profilo che da tale insussistenza derivi la non risarcibilità del danno alla parte civile.
Inoltre, si lamenta la sovrapposizione delle valutazioni proprie della sanzione amministrativa di cui all’art. 187-ter TUF rispetto a quella penale, nel senso che il giudice d’appello avrebbe utilizzato categorie proprie della prima per ritenere il secondo (erano state inflitte, infatti, anche due sanzioni amministrative in successivi procedimenti promossi dalla CONSOB a carico di B.).
2.3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce erronea applicazione dell’art. 187-undecies TUF, artt. 576 e 622 cod. proc. pen., artt. 2043,1226,2056 cod. civ. per carenza ed illogicità della motivazione sia con riferimento all’individuazione delle voci di danno risarcibili a titolo di danno patrimoniale, sia in relazione alla determinazione in via equitativa del quantum.
Il ricorrente rappresenta che, qualora si ritenesse legittima la decisione del giudice d’appello perché di maggiore persuasività, in ogni caso essa sarebbe viziata dalla omessa individuazione delle voci di danno risarcibili, complessivamente motivate facendo riferimento ai costi sostenuti dalla parte civile CONSOB per l’accertamento del reato, inquadrati nell’ambito del danno patrimoniale, dovendo ritenersi illegittima anche la liquidazione di dette voci in via equitativa nella misura di 20.000 Euro.
Tale liquidazione, infatti, sarebbe possibile solo in via del tutto residuale, là dove sia provato che per la parte interessata sia estremamente difficile quantificare il danno nel suo preciso ammontare e qualora detta liquidazione sia supportata da adeguata motivazione, omessa, invece, dalla Corte d’Appello.
Sarebbe stata necessaria una motivazione “rinforzata” per liquidare il danno patrimoniale in tale forma garantendo il diritto di difesa sul punto dell’imputato, tanto più che di detto danno non sembrano costituire voci tipiche quelle valutate dalla Corte d’Appello: lo sviamento dell’attività di accertamento del reato ed i suoi costi.
Sarebbe stato riconosciuto, altresì, erroneamente, il danno funzionale, tipicamente riconducibile alla lesione di diritti ed interessi propri della pubblica amministrazione, non spettante nel caso di specie, Né provato dalla parte civile, che si era limitata a chiederlo.
2.4. Infine, il quarto motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 187-undecies TUF ed illogicità della motivazione con riferimento all’individuazione della quota dovuta a titolo di risarcimento del danno in favore della parte civile CONSOB quanto alla lesione all’integrità del mercato (stimata in 30.000 Euro).
La citata disposizione normativa, infatti, indica espressamente gli elementi oggettivi di valutazione ai quali deve rifarsi il giudice nel determinare la riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato (offensività del fatto, qualità personali del colpevole ed entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato), mentre la Corte d’Appello ha erroneamente tenuto conto unicamente, per tale determinazione di risarcimento del danno, dei “proventi presumibilmente” conseguiti dall’imputato.
Tale dato, sottolinea il ricorso, non poteva essere assunto come base di alcuna parametrazione poiché, come risulta dalla stessa deposizione del teste P., dirigente della CONSOB, e secondo la ricostruzione della sentenza di primo grado, si era ritenuto, da parte di tale organo, che non fosse configurabile alcun profitto in relazione alle condotte tenute dall’imputato.
Nulla, invece, si dice, nella pronuncia impugnata, rispetto all’offensività della condotta ed alle qualità personali del colpevole.
3. In data 27 luglio 2017 la parte civile costituita in giudizio, CONSOB, ha fatto pervenire, tramite il proprio difensore, memoria scritta con cui si contraddicono i motivi del ricorso proposto dall’imputato.
In particolare:
– si ribadisce la correttezza della motivazione di riforma in appello, che non si è limitata a fornire una propria, diversa valutazione dei fatti, ma ha smentito le asserzioni principali della sentenza assolutoria di primo grado, fornendo una più convincente ricostruzione della vicenda; si indica, inoltre, l’inammissibilità del ricorso dell’imputato, tutto versato in fatto;
– si evidenzia che non vi è stata sovrapposizione da parte dei giudici d’appello tra la fattispecie di cui all’art. 185 e quella di cui all’art. 187-ter TUF, avendo la sentenza preso in esame analiticamente gli elementi oggettivo e soggettivo del reato;
– si valuta corretta l’indicazione equitativa del danno patrimoniale e non patrimoniale subiti dalla CONSOB, indicando, da un lato, la numerosa, laboriosa e dispendiosa attività di accertamento del reato posta in essere, che ha implicato una serie di attività dettagliatamente provate in giudizio dalla parte civile con una propria nota (doc. 4 e 5 della produzione documentale CONSOB); dall’altro, la validità del criterio del profitto scelto tra quelli previsti dall’art. 187 – undecies TUF (i profitti personali dell’imputato sono elencati in atti, cfr. relazione del 17 febbraio 2011 CONSOB, citata nella memoria di parte) e la particolare offensività della condotta posta in essere sui mercati di diversi titoli azionari per un lungo periodo.
Infine, si evidenzia che vanno distinti i piani operativi entro i quali operano la condanna al risarcimento del danno e quella alla sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-ter TUF.
Diritto
1. Il primo motivo di ricorso dell’imputato è fondato.
2. Secondo la giurisprudenza di legittimità, nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (da ultimo, tra le altre, Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 5/12/2013, dep. 2014, Ciaramella, Rv. 262221; Sez.6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone, Rv. 253718).
Si è detto, cioè, in altri termini, che la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o di inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113).
Va aggiunto che di tali principi il giudice di appello deve fare applicazione anche quando si tratti di giudizio che riguarda, come nel caso di specie, l’impugnazione svolta dalla sola parte civile in relazione alle sole statuizioni civilistiche, rilevata comunque, anche in tal caso, la necessità di osservare la regula iuris espressa dall’art. 533 cod. proc. pen., propria del processo penale nel quale la pretesa civilistica è, infatti, inserita, come del resto evidenziato dal collegamento ineludibile tra pronuncia di condanna e decisione sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno risultante dal testo dell’art. 538 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 2, n. 11883 del 8/11/2012, Berlingeri, Rv. 254725).
La prospettiva della motivazione rafforzata è stata avvalorata anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite sin dalla sentenza Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679, affermandosi che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.
Successivamente, Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267489 (confermate da Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano, Rv. 269787) ha messo in evidenza come, per effetto del rilievo dato dal legislatore alla introduzione del canone “al di là di ogni ragionevole dubbio”, inserito nell’art. 533 cod. proc. pen., comma 1 ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato dalla giurisprudenza di legittimità quale inderogabile regola di giudizio: v. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), si è più volte avuto modo di puntualizzare che nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una “forza persuasiva superiore”, tale da far venire meno, appunto, “ogni ragionevole dubbio”; posto che, come notano le Sezioni Unite, seguendo Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066, “la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza”.
In un caso si è ritenuto condivisibilmente insussistente l’obbligo di motivazione rafforzata: quello in cui il provvedimento assolutorio ha un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo, invece, il giudizio d’appello l’unico realmente argomentato (Sez. 5, n. 12783 del 24/1/2017, Caterino, Rv. 269595).
Alla luce di tali affermazioni pacifiche della giurisprudenza di legittimità e di tale ultima considerazione in particolare, la motivazione della Corte d’Appello, letta in relazione a quella di primo grado, non appare convincente, rilevata la necessità di una sua struttura rafforzata per ribaltare la sentenza del primo giudice, che si caratterizza, come vedremo, per argomentare logico e preciso, per niente generico o meramente assertivo.
Ed infatti – prescindendo dalla questione relativa all’ambito di ampiezza della possibilità di rivalutazione da parte del giudice d’appello della prova dichiarativa formatasi in primo grado, senza incorrere nella necessità di rinnovare l’istruttoria dibattimentale – è già sotto il profilo della maggior “quota” di capacità dimostrativa che devono avere le ragioni del secondo giudice che si rileva l’insufficienza motivazionale del provvedimento impugnato, sì da imporne l’annullamento.
Tale insufficienza si apprezza, quindi, non già da un punto di vista assoluto, bensì in chiave relativa, con riferimento alla mancata, convincente enucleazione dei punti di debolezza del percorso argomentativo del primo giudice ed al loro superamento, attraverso una ricostruzione maggiormente persuasiva da parte del giudice d’appello.
3. All’analisi delle ragioni che convincono nel senso del mancato soddisfacimento dell’obbligo di motivazione rafforzata da parte del giudice d’appello devono, tuttavia, premettersi alcune considerazioni di ordine generale sulla configurabilità del reato di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 185, al fine di comprendere meglio le argomentazioni delle pronunce di primo e secondo grado che si confrontano sul piano della maggior persuasività.
Secondo la giurisprudenza pacifica della Corte di cassazione, deve ritenersi acquisita la natura di reato di pericolo concreto del delitto di aggiotaggio manipolativo, evidenziandosene la natura di reato di mera condotta per la cui integrazione è sufficiente che siano posti in essere comportamenti diretti a cagionare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari, senza che sia necessario il verificarsi di tale evento (Sez. 5 n. 28932 del 4/05/2011, Tanzi, Rv. 253754; Sez. 5 n. 25450 del 3/04/2014, Ligresti, Rv. 260751): la natura concreta del pericolo esige, perché il reato si perfezioni, la manifestazione fenomenica dell’idoneità dell’azione a provocare quella sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari che realizza il contenuto offensivo tipico della fattispecie, consistente nella messa in pericolo effettiva dell’interesse protetto, rappresentato dal corretto ed efficiente andamento del mercato degli strumenti finanziari e delle operazioni che in esso si svolgono, al fine di garantire che il prezzo del titolo nelle relative transazioni rifletta il suo valore reale ed effettivo e non venga influenzato da atti o fatti artificiosi e fraudolenti (Sez. 1, n. 45347 del 6/5/2015, BBVA in proc. Bonsignore, Rv. 265397; Sez. 2 n. 12989 del 28/11/2012, in motivazione; Sez. 5, n. 4619 del 27/9/2013, dep. 2014, Compton, Rv. 258708).
Nella pronuncia n. 45347 del 2015 si è ritenuta legittima la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza del reato sulla base di un giudizio controfattuale, all’esito del quale aveva concluso che una diversa condotta degli imputati non avrebbe comportato un differente atteggiarsi del prezzo del titolo.
Nella sentenza Sez. 5, n. 40393 del 20/6/2012, Gabetti, Rv. 253361 si evidenzia, sebbene con riferimento al delitto di manipolazione del mercato informativo, anch’esso reato di mera condotta, che la valutazione di idoneità dell’azione a mettere in pericolo il bene protetto e produrre gli effetti distorsivi del mercato deve essere svolta applicando il criterio della prognosi postuma.
Nella sentenza n. 4619 del 2014 si indica chiaramente che elemento della fattispecie del reato di aggiotaggio manipolativo è la idoneità ex ante della condotta posta in essere a determinare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari, sicché l’indagine del giudice deve essere diretta all’accertamento in tal senso, chiarendo che, in ogni caso, la verifica ex post dell’effettiva realizzazione di tale alterazione può costituire un elemento sintomatico di tale idoneità in concreto.
La sentenza Sez. 6, n. 15199 del 16/3/2006, Labella, Rv. 234508 precisa che il reato di “manipolazione del mercato”, si caratterizza, differenziandosi dall’omologo illecito amministrativo di cui all’art. 187 ter D.Lgs. cit., anch’esso denominato di manipolazione del mercato, per la presenza di condotte qualificabili “lato sensu” come truffaldine o artificiose, idonee a concretizzare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari.
Ciò posto, devono confrontarsi i contenuti motivazionali delle due sentenze di merito, per verificare il necessario carattere di maggior persuasività della sentenza di riforma della definizione assolutoria di primo grado, secondo le indicazioni pacifiche della giurisprudenza di legittimità.
3.1. Ebbene, la sentenza assolutoria del Tribunale di Milano, dopo aver esaurientemente premesso un quadro esplicativo dei fatti contestati anche dal loro punto di vista tecnico – con indicazioni su natura, struttura e finalità delle operazioni di scambio sul mercato mobiliare telematico contestate all’imputato – ha correttamente inquadrato il reato di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 185 tra quelli di mera condotta, sottolineando la necessità che, in ogni caso, questa sia realizzata con modalità tali da rendere concreta la possibilità del verificarsi, in conseguenza della stessa, di una “sensibile” alterazione del prezzo dei titoli, benchè tale evento effettivo non sia necessario ai fini della configurabilità del reato.
Alla luce di tali premesse, il Tribunale ha ritagliato precisamente le ragioni in base alle quali non riteneva raggiunta la prova sufficiente della responsabilità di B. per le condotte ascrittegli, non essendo provata la loro idoneità concreta a determinare una alterazione del prezzo degli strumenti finanziari “manipolati”, mettendo in evidenza in tal senso (cfr. in particolare pagg. da 21 a 24 della sentenza di primo grado):
– l’insufficienza complessiva dei dati ricavabili dall’andamento dei prezzi e dei titoli nei giorni in contestazione, non essendovi stata, invece, un’analisi di tali dati che ponga in collegamento sicuro questi ultimi con l’azione dell’imputato;
– l’equivocità dei dati singolarmente considerati e nel loro complesso, sulla base della constatazione che in alcuni grafici acquisiti in giudizio e allegati alla relazione CONSOB del 17.2.2011 si mostra un aumento dei prezzi di alcuni titoli monitorati, pur in presenza di una ridottissima incidenza percentuale, sul mercato complessivo di quel periodo, degli incroci di compravendite azionarie attribuiti al B. (stimabile, ad esempio, il 31.1.2008 nel 3,99 %) e, di contro, l’invariabilità del prezzo di altri titoli in determinate giornate, pur rilevandosi una operatività elevata dell’imputato su di essi (stimabile, nel giorno 5.3.2008, ad esempio, in una percentuale di incidenza degli incroci molto consistente e pari al 59,04%);
– l’incoerenza, rispetto alla tesi accusatoria, del raffronto tra il dato di percentuale di incidenza, sugli scambi complessivi di un certo titolo in una determinata giornata, degli incroci attribuiti al B. ed il dato di altri giorni nei quali costui non aveva operato alcun incrocio. In altre parole, in diversi casi, i titoli oggetto degli scambi incrociati da parte di B. non facevano registrare maggiori scambi complessivi nel giorno di maggior operatività di quest’ultimo, rispetto ai giorni di sua inoperatività.
Da tali considerazioni, il Tribunale traeva la conseguenza di escludere il raggiungimento della prova che la condotta posta in essere dall’imputato potesse ritenersi idonea in concreto a determinare un effetto decettivo nei confronti degli altri partecipanti al mercato circa l’esistenza di un rilevante interesse alle negoziazioni di un titolo, dal quale discende la possibile, sensibile alterazione del suo prezzo.
La forte incongruenza del quadro fattuale e probatorio, puntualmente evidenziata per ciascun titolo oggetto di scambio e sulla base delle tabelle riportate dalla relazione CONSOB, fonda, pertanto, la determinazione di insussistenza della prova dell’elemento oggettivo del reato a carico dell’imputato, constatando il Tribunale non già il mancato verificarsi dell’evento della sensibile alterazione del prezzo delle azioni a causa dell’intervento sul mercato di B. – evento non richiesto dalla fattispecie, a struttura di reato di mera condotta, secondo le indicazioni adottate, come visto, dallo stesso giudice – bensì l’assenza di prova dell’idoneità concreta della condotta stessa a raggiungere tale scopo.
Il percorso motivazionale d’appello, d’altro canto, si snoda attraverso la rilettura delle dichiarazioni del teste P., funzionario della CONSOB che ha curato la redazione della relazione con cui si è informata l’autorità giudiziaria delle possibili violazioni da parte di B. delle norme penali in tema di abuso di mercato, nonché mediante l’utilizzazione di molta parte proprio di tale relazione, anche con l’inserimento, nella stessa sentenza impugnata, di numerosi grafici, tratti da essa, relativi all’andamento del mercato anche nei giorni immediatamente precedenti e successivi a quelli nei quali si contesta la condotta abusiva all’imputato.
Al di là delle valutazioni circa l’utilità di tale tecnica motivazionale, rimane apodittica la conclusione che l’argomentare della sentenza propone subito dopo l’inserimento di detti grafici e come loro esplicitazione, conclusione limitata alla sintetica considerazione secondo cui sarebbero evidenti, dalla loro lettura, l’incremento quantitativo degli scambi e le fluttuazioni dei titoli interessati dalle operazioni di B..
In sostanza, la motivazione della sentenza, per quanto apparentemente dettagliata in punto di fatto, si riduce ad una nuova esposizione delle acquisizioni probatorie documentali e testimoniali già analizzate in primo grado, senza individuare reali punti di debolezza delle ragioni assolutorie e, soprattutto, senza indicare una migliore strada argomentativa per le ragioni di accertamento della responsabilità, a fronte, invece, di una motivazione assolutoria di primo grado specifica e dotata di coerenza sul piano logico.
Del resto, la sentenza di secondo grado denuncia essa stessa l’insufficiente canone interpretativo utilizzato per rovesciare la decisione di primo grado, là dove afferma, a pag. 8, che le conclusioni del Tribunale “costituiscono il frutto di un’analisi condotta sulle singole operazioni separatamente e di per sè considerate e che – dunque – trascura il significato e la portata complessiva delle specifiche modalità operative adottate dall’imputato che – per contro – impongono una valutazione complessiva delle operazioni, in quanto la logica dell’aggiotaggio manipolativo si manifesta nella loro pluralità, sequenza e connessione”; in tal modo, infatti, appare indicato, a giustificazione della riforma, un diverso criterio di lettura dei dati che, però, per quanto già posto in evidenza, non può, da solo, valere a sovvertire, sia pure limitatamente all’aspetto civilistico, l’epilogo assolutorio di primo grado.
Tale diverso criterio valutativo della prova costituisce anche, in sostanza, la ratio logica che guida l’articolazione di quei dati sintomatici della sussistenza del reato che il giudice d’appello fa assurgere a prova: la tipologia di titoli scambiati ed oggetto della contestazioni (titoli cd. sottili, per i quali non si registra normalmente un grande volume di scambi, essendo a bassa capitalizzazione) e la tipologia di operazioni incrociate attuate da B. (vendite ed acquisti con se stesso, che avrebbero avuto come effetto l’incremento fittizio del volume degli scambi, grazie al cd. “effetto gregge” (herd effect) che si produce sul mercato azionario in conseguenza di un’improvvisa esplosione di interesse degli scambi su di un certo titolo senza che sia ben nota la causa).
Tuttavia, tali dati fattuali erano stati già posti in evidenza dal primo giudice, ed esaminati, senza superare, in quella sede, il vaglio di idoneità a costituire prova della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di abuso di mercato da parte dell’imputato, Né la Corte d’Appello fornisce, al riguardo, una motivazione, in chiave accusatoria, più persuasiva di quella di assoluzione.
Neppure può dirsi fondata la critica della Corte d’Appello al criterio utilizzato nella sentenza riformata per desumere la concreta idoneità della condotta a provocare l’alterazione dei prezzi dei titoli, scambiati artificiosamente secondo l’accusa.
Il primo giudice, infatti, ha utilizzato l’analisi delle variazioni di volume di scambi e prezzi dei titoli realmente avvenute, nelle giornate in contestazione ed in quelle in cui B. non aveva operato, quale dato fattuale che può e deve essere considerato nella prognosi ex ante di idoneità delle condotte ad alterare sensibilmente il prezzo dei titoli finanziari quotati in borsa, e non già per ricercare un evento non richiesto dalla norma come elemento della fattispecie penale.
Ciò è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità che ha definito la verifica ex post sulla effettiva alterazione dei titoli un elemento sintomatico (quasi un test) della idoneità ex ante della condotta a determinare la sensibile alterazione del prezzo dei titolo quotati in borsa, senza che ciò significhi negare la natura di reato di pura condotta della previsione regolatrice dell’abuso di mercato.
Del resto, non si vede da cosa, se non da dati fattuali, sarebbe possibile desumere la prova di tale idoneità in concreto.
Peraltro, nella motivazione d’appello, tranne alcune critiche ad aspetti di contorno della motivazione di primo grado (quali ad esempio quelli riferiti alla mancanza di indicazioni sul comportamento degli altri trader e dell’agire di terzi sull’andamento del mercato azionario nelle giornate di operatività anomala dell’imputato), si enuncia quasi un latente canone di inversione dell’onere della prova, secondo cui sarebbe stato compito dell’imputato allegare sufficienti elementi utili a dimostrare la legittimità delle motivazioni che lo avevano spinto a compiere le operazioni anomale di scambio o la loro conformità alle prassi di mercato ammesse (cfr. pag. 27 della sentenza d’appello). Evidentemente tale impostazione, fondata sulla disposizione di cui all’art. 1 della Direttiva 2003/6/CE, non può essere accettata secondo i canoni interpretativi del diritto processuale penale interno, dovendosi ritenere pur sempre, invece, onere della pubblica accusa addurre la prova dell’artificiosità delle condotte di scambio azionario e la loro idoneità ad alterare sensibilmente il prezzo di strumenti finanziari quotati, ai fini della configurabilità, a carico dell’autore di tali condotte, del reato di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 185.
4. L’accoglimento del primo motivo di ricorso determina l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello, rimanendo assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2017.