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Cassazione penale, sez. VI, 17 gennaio 2024, n. 11085

Avv. Gianluca Lancianodi Avv. Gianluca Lanciano26 Marzo 2024
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. VI, 17 gennaio 2024, n. 11085

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Bologna ha confermato la pronuncia con la quale il Tribunale di Bologna, previa assoluzione per il delitto di omicidio colposo, aveva condannato At.An. per omissioni in atti di ufficio, perché, nella qualità di medico di guardia dell’Ausl di Bologna, aveva rifiutato di eseguire una visita domiciliare presso il paziente Zu.Ge., nonostante le riferite gravi condizioni di salute (tra cui forte bruciore allo sterno accompagnato da irradiazione di dolore sulle braccia e sulle dita delle mani), limitandosi a diagnosticare telefonicamente una gastroenterite che, successivamente, risultava essere un infarto che portava al decesso dell’uomo.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputata, con atto sottoscritto dal suo difensore, deducendo i seguenti motivi.
2.1. Con il primo denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’ art. 328 cod. pen. mancando “l’indebito rifiuto”. Infatti, ai sensi dell’art. 13 d. P.R. n. 41 del 1991 la scelta del medico di provvedere o meno a visita domiciliare costituisce un atto discrezionale, di cui la stessa perizia aveva escluso la necessità in base ai sintomi indicati nella telefonata, intercorsa tra la ricorrente e la convivente del paziente, sintomi dai quali non risultava né la natura infartuale, tanto da non imporre l’intervento di un’ambulanza né un inequivoco quadro clinico grave.
2.2. Con il secondo motivo denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del dolo del reato di cui all’ art. 328 cod. pen. in quanto la ricorrente, avendo colposamente errato la diagnosi, non era consapevole delle reali condizioni del paziente e, quindi, non si era rappresentata una situazione che imponesse il dovere di attivarsi, dimostrato dal non avere contattato l’ambulanza.
Peraltro, la sentenza ha travisato l’esame dell’imputata che si era limitata a confermare che i dolori al torace, con irradiazione al braccio, “sono anche sintomatici di un possibile arresto cardiaco” e non aveva affatto ammesso di aver pensato alla diagnosi di infarto, come scritto a pagina 8.
2.3. Con il terzo motivo denunzia la violazione di legge, in relazione agli artt. 132,133 e 62-bis cod. pen. nonché agli artt. 546 e 598 cod. proc. pen., e il vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio in quanto sia la sentenza di primo grado (pag. 20) che di secondo grado (pag.8), nelle rispettive motivazioni, hanno quantificato la pena finale in quattro mesi di reclusione (pena base mesi sei di reclusione, ridotta per l’applicazione delle attenuanti generiche), salvo indicare nel dispositivo di sentenza “sei mesi di reclusione”.
2.4. Con il quarto motivo denunzia la violazione di legge, in relazione all’ art. 31 cod. pen., e il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena accessoria dell’interdizione dalla professione medica fissata in sei mesi, fatto salvo il motivo che precede, senza fornire argomenti per una sanzione più contenuta nonostante la sanzione disciplinare inflitta alla ricorrente pari alla riduzione del suo stipendio del 15% per la durata di tre mesi e per la medesima condotta.
2.5. Con il quinto motivo denunzia la violazione di legge, iri relazione all’art. 131-bis cod. pen., e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’esimente della particolare tenuità del fatto attesa la modifica normativa di cui al D.Lgs. n. 150 del 2022 che ne ha esteso l’applicabilità e il risarcimento della parte civile tale da averne determinato la revoca.
3. In data 15 dicembre 2023 è pervenuta memoria difensiva nell’interesse della ricorrente nella quale vengono ulteriormente approfonditi gli argomenti del ricorso e si insiste per il loro accoglimento.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è parzialmente fondato.
2.1 primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente in quanto riguardano la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del delitto contestato alla ricorrente.
2.1. L’art. 13 d.P.R. n. 41 del 1991 stabilisce che il medico in servizio di guardia deve rimanere a disposizione “per effettuare gli interventi domiciliari a livello territoriale che gli saranno richiesti” e durante il turno “è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dagli utenti”.
È di tutta evidenza che, in base alla norma citata, la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare spetti alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sia sulla base della sintomatologia riferitagli che sulla base della propria esperienza. Tale valutazione, però, è sindacabile dal giudice di merito, in forza degli elementi di prova sottoposti al suo esame, per accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata sulla base di dati di ragionevolezza, desumibili dallo specifico contesto e dai protocolli sanitari applicabili, oppure costituisca un pretesto per giustificare l’inadempimento dei propri doveri (Sez. 6, n. 34535 del 29/07/2019, Gelfi; Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012, dep. 2013, Rv. 255715).
Costituisce, pertanto, consolidato orientamento interpretativo di questa Corte quello secondo il quale integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che, pur richiesto, decida di non eseguire l’intervento domiciliare urgente per accertarsi delle effettive condizioni di salute del paziente, nonostante gli venga prospettata una sintomatologia grave, trattandosi di un reato di pericolo per il quale a nulla rileva che lo stato di salute del paziente si riveli in concreto meno grave di quanto potesse prevedersi. In sostanza, il delitto è integrato ogniqualvolta il medico di turno, pubblico ufficiale, a fronte ad una riferita sintomatologia ingravescente e alla richiesta di soccorso, che presenti inequivoci connotati di gravità e di allarme, neghi un atto non ritardabile, quale appunto quello di un accurato esame clinico volto ad accertare le effettive condizioni del paziente (Sez. 6, n. 29927 del 23/05/2023, Fiandra; Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012, dep. 2013, Rv. 255715; Sez. 6, n. 31670 del 05/06/2007, Rv. 236935).
2.2. Nel caso in esame, la motivazione della sentenza di secondo grado, da ritenersi integrata da quella conforme del giudizio di primo grado, dopo avere escluso che la condotta di tipo omissivo della ricorrente avesse causalmente determinato la morte del paziente, ha spiegato, con argomenti congrui e privi di qualsiasi vizio di logicità, fondati anche sull’esito di una perizia collegiale, come l’ostinato rifiuto di Attianese di eseguire la visita domiciliare andasse qualificato come rifiuto di atti di ufficio proprio alla luce della trascrizione del contenuto della telefonata, registrata in automatico dal servizio sanitario, intercorsa tra la ricorrente e la moglie del paziente (testualmente riportata a pag. 3 della sentenza di primo grado). Questa, infatti, dopo avere rappresentato di avere già contattato la guardia medica, aveva espressamente chiesto una visita domiciliare riferendo che il marito: a) aveva “dolori fortissimi addominali” che si estendevano dal torace sino alle mani, anche con formicolio, e non passavano; b) aveva vomito e diarrea; c) era molto pallido e sudatissimo.
Nonostante la perizia disposta in primo grado avesse ritenuto che i menzionati sintomi dovessero indurre ragionevolmente a considerare la possibilità teorica che fosse in atto una patologia cardio-vascolare di natura ischemica (pag. 8 della sentenza di primo grado), la dottoressa At.An. aveva diagnosticato una semplice gastroenterite (ritenuta dai periti “francamente erronea”), fornendo consigli di natura alimentare, e non aveva ritenuto necessario eseguire la visita domiciliare sebbene solo il rilevamento di parametri obiettivi (quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, il ritmo cardiaco, la cianosi) avrebbe consentito di comprendere, in concreto, la patologia del paziente.
2.3. Quanto alla doglianza riguardante l’insussistenza del dolo del reato, premesso che il tema della colposa erroneità della diagnosi svolta dalla ricorrente ne è estraneo, le argomentazioni esposte dalla Corte di merito sono correttamente fondate sull’indebito e consapevole rifiuto della ricorrente di svolgere l’intervento domiciliare urgente, in assenza di altre esigenze del servizio (quali, ad esempio, contemporanee richieste di intervento urgente), a fronte dell’ inequivoca gravità e chiarezza della sintomatologia esposta, per sincerarsi personalmente, pur nel dubbio, delle effettive condizioni del paziente e dell’eventuale situazione di pericolo in cui questi si trovava o meno, in base ad un esame clinico diretto.
D’altra parte, il delitto contestato rientra tra i delitti contro la pubblica amministrazione in quanto sanziona il rifiuto consapevole del medico di adottare atti, senza ritardo, per la tutela del diritto alla salute che, ai sensi dell’art. 32 Cost., costituisce “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e, per questo, rende il sanitario portatore di funzioni pubbliche.
Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del reato, costituito dal dolo generico, è dunque vero che non basta la generica negligenza, ma è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza che il proprio contegno omissivo violi i doveri impostigli (Sez. 6, n. 33565, del 15/06/2021, Rv. 281846) tra i quali rientrano quelli delineati nel sopracitato art. 13 d.P.R. n. 41 del 1991 la cui necessità va valutata secondo criteri di ragionevolezza desumibili dalla situazione in concreto rappresentata, come più diffusamente già evidenziato.
3. L’ultimo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Con i motivi di appello non risulta sia stata richiesta l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, come pure consentito dall’art. 131 -bis cod. pen. nella sua originaria formulazione, cosicché la generica richiesta formulata solo in sede di discussione orale, senza l’indicazione delle ragioni legittimanti la pretesa, non imponeva alla Corte di merito alcun obbligo di motivazione, specie alla luce del complessivo contenuto della sentenza che esclude “la particolare tenuità dell’offesa”.
4. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso, sul trattamento sanzionatorio, sono, invece, fondati.
4.1. La sentenza di primo grado, a pag. 20 della motivazione, reputa congrua “la pena di mesi quattro di reclusione (pena base mesi sei di reclusione, diminuita come sopra ex art. 62 bis c.p.)” ma nel dispositivo, pur dando atto dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, condanna l’imputata alla “pena di mesi sei di reclusione”, dichiarandola interdetta dalla professione medica, ex art. 31 cod. pen., “per durata pari alla pena inflitta”.
Pur accogliendo il motivo di appello, la Corte di merito, a pag. 8, ha ritenute corretta la quantificazione della pena operata dal Tribunale, riportandone il calcolo (“mesi 6 e con riduzione per le generiche a mesi 4”), ma ha confermato la sentenza di primo grado il cui dispositivo contempla la condanna a sei mesi di reclusione.
Sulla base di questi elementi risulta evidente che, in fase di determinazione della pena, la sentenza di secondo grado è incorsa in un errore che può essere
corretto da questa Corte mediante un’operazione scevra di profili di discrezionalità consistente nella mera rideterminazione della pena in quattro mesi di reclusione.
4.2. In ordine alla durata dell’interdizione dalla professione medica, le sentenze di merito hanno fatto corretta applicazione dell’art. 37 cod. pen. secondo il quale la sanzione accessoria ha “durata uguale” a quella della pena principale inflitta allorché, come nella specie, la legge non preveda una diversa estensione cronologica, così da non poterne fissare una più ridotta, anche a prescindere dall’irrogazione di una sanzione disciplinare che ha diversa natura e diverso contenuto.
La rideterminazione della pena principale nei termini sopra indicati, comporta, per l’effetto, la quantificazione in quattro mesi anche della pena accessoria.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, rideterminando la pena principale in quattro mesi di reclusione e quella accessoria in pari durata.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 17 gennaio 2024.
Depositato in cancelleria il 15 marzo 2024.

Disclaimer: Contenuti a scopo informativo e divulgativo che non sostituiscono il parere legale di un avvocato. Per una consulenza legale personalizzata contatta lo studio dell’avv. Gianluca Lanciano: Clicca e compila il form · WhatsApp 340.1462661 · Chiama 340.1462661 · Scrivi info@miolegale.it
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