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Sentenze Penale Procedura Penale

Cassazione penale, sez. VI, 18 gennaio 2025, n. 1269

Redazionedi Redazione2 Marzo 2025Aggiornato il:2 Marzo 2025
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. VI, 18 gennaio 2025, n. 1269

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in riforma della sentenza di condanna emessa dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Taranto, ha ridotto la pena inflitta a La.Ni. ad un anno e mesi sei di reclusione ed Euro 1800,00 di multa, per il reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 73, comma 5, T.U. Stup.

2. Nel ricorso a firma del difensore di fiducia, La.Ni. ci lede l’annullamento del provvedimento per i seguenti motivi sintetizzati ai sensi de l’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge in riferimento alla inutilizzabilità delle fotografie (ed. screenshot) delle chat whatsapp estratte dal telefono cellulare dell’imputato ed acquisite con modalità illegittime nel corso della perquisizione eseguita nei confronti di La.Ni. e del conseguente sequestro della sostanza stupefacente, da ritenersi anch’essi illegittimi per omissione dell’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore.
Il ricorrente lamenta che la Polizia Giudiziaria, nel corso del con rollo dell’autovettura condotta dall’imputato, abbia acquisito il consenso ad accedere al suo smartphone tramite il codice di accesso comunicato dallo stesso imputato, senza avvisarlo della facoltà di farsi assistere da un difensore, oltre che del diritto di non prestare il consenso a tale accesso.
Il G.i.p. ha ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni rese dal ricorrente perché non qualificabili come spontanee ma ha, invece, ritenuto utilizzabili i fotogrammi delle chat estratte dal telefono dell’imputato, sebbene non ritualmente avvisato del diritto ad essere assistito da un difensore.
Si richiama quanto affermato dalla sentenza della Corte Cost. n. 170 del 2023 del 7 giugno 2023 (nel caso “Renzi”), con riguardo alla natura di corrispondenza dei messaggi telefonici anche se già letti dal destinatario, con conseguente applicazione dell’art. 254 cod. proc. pen.
Si rappresenta la decisività di tali elementi di prova per l’accertamento della destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente sequestrata, la cui inutilizzabilità è rilevabile anche nel giudizio abbreviato trattandosi di atti affetti da inutilizzabilità c.d. patologica perché assunti in violazione dei diritti di difesa.

2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 131-bis cod. pen., atteso che il peso della sostanza del tipo cocaina pari a sole trenta dosi non esclude la particolare tenuità del fatto, né ricorre l’abitualità delle condotte desunta dalla riconosciuta recidiva specifica.

2.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione delle attenuanti di cui all’art. 62, n.4 cod. fan. e dell’art. 73, comma 7, D.P.R. n. 309/90, evidenziando il limitato profitto di 9C Euro e la collaborazione prestata dall’imputato che ha fornito agli inquirenti il codice di accesso del proprio cellulare consentendo loro di leggere le chat che lo hanno incriminato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato e va, pertanto, rigettato.
Sebbene le questioni di inutilizzabilità delle “chat” estrapolate dal contenuto del telefono in possesso dell’imputato senza disporne il sequestro siano da ritenersi fondate, deve rilevarsi la genericità delle altre censure volte a dimostrare la decisività di tali risultanze ai fini dell’accertamento della responsabilità, sotto il profilo della c.d. prova di resistenza.
Costituisce principio consolidato che nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento.
A tale proposito, si deve rilevare che già nella sentenza di primo grado era stato messo in evidenza come anche senza le “chat” estrapolate dal telefono in uso all’imputato con modalità lesive dei suoi diritti di difesa e pur prescindendo dalle dichiarazioni confessorie ritenute non qualificabili come “dichiarazioni spontanee”, la prova della destinazione della sostanza stupefacente allo spaccio emergeva comunque dalle altre risultanze legittimamente acquisite ai fini della decisione.
In particolare, appare carente la critica sviluppata dal ricorrente con riferimento all’elemento centrale posto a fondamento della destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente, costituito dalla mancata allegazione di elementi di prova del suo stato di consumatore di sostanze stupefacenti, non avendo neppure l’imputato giustificato il possesso della sostanza stupefacente facendo riferimento a tale sua condizione.
Sebbene le dichiarazioni spontanee di carattere confessorio rese dall’imputato nell’immediatezza siano state ritenute inutilizzabili, nessuna giustificazione del possesso della sostanza stupefacente è stata fornita dall’imputato nel corso del giudizio di merito, anche quando, assistito dal difensore, avrebbe potuto lare conto della sua versione dei fatti.
A tale riguardo, inoltre, deve osservarsi che il ricorrente ha eccepito l’inutilizzabilità anche del sequestro della stessa sostanza stupefacente, ma con argomenti manifestamente infondati, così da inficiare indirettamente la censura riferita alla dedotta decisività delle chat, la cui utilizzabilità è, invece, stata eccepita con argomenti validi e condivisibili.
In altri termini, la prova di resistenza che avrebbe giustificato l’annullamento della sentenza di condanna è stata articolata sulla base della duplice elisione dal compendio probatorio ritenuto validamente acquisito ai fini della decisione, non solo delle chat, ma anche del sequestro della sostanza stupefacente.
Al contrario, essendo pienamente utilizzabile il sequestro della sostanza stupefacente, il dato ponderale unitamente alle modalità di custodia (in p irte rinvenuta presso l’abitazione dei genitori, anziché presso la propria abitazione ed in parte sulla sua persona al momento del controllo, suddivisa in più involti :”i), valutati insieme alla mancata allegazione del consumo personale ed agli altri elementi acquisiti (rinvenimento di banconote di piccolo taglio “accartocciate”, assenza di redditi da lavoro compatibili con le disponibilità economiche necessarie per l’acquisto di una cospicua provvista di sostanza stupefacente), rendono generico il motivo di ricorso sotto il profilo dell’articolazione della provi del carattere decisivo, ai fini del giudizio di responsabilità, dell’unico elemento di prova ritenuto fondatamente inutilizzabile costituito dalle chat estratte dal telefono cellulare dell’imputato.

2. Invero, con specifico riguardo alla dedotta inutilizzabilità del sequestro della sostanza stupefacente, conseguente ad una perquisizione ritenuta illegittima in quanto non preceduta dall’avviso del diritto ad essere assistito da un difensore previsto dall’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., va rilevata la man il està infondatezza della questione sotto un duplice profilo.
In primo luogo, va ricordato che la perquisizione per la ricerca di sostanze stupefacenti ai sensi dell’art. 103 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come anche q iella per la ricerca di armi ai sensi dell’art. 4 legge 22 maggio 1975 n. 152, hanno carattere speciale rispetto alla disciplina generale dei mezzi di ricerca della prova contenuta nel codice di procedura penale.
È stato già affermato dalla giurisprudenza di legittimità che, poiché detta attività di perquisizione non presuppone l’esistenza di una notizia di reato, non occorre la preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria, né che la persona sottoposta a controllo sia avvisata del diritto all’assistenza di un difensore (Sez. 3, n.8097 del 09/02/2011, Canu, Rv. 249545; Sez. 3, n. 19365 del 17/02/2016, Pirri, Rv. 266580).
Come pure già è stato evidenziato dalla Corte Costituzionale (sentenza n 252 del 21 ottobre 2020) che “il comune denominatore di tali perquisizioni e ispezioni “speciali” è l’intento legislativo di apprestare strumenti di contrasto di determinate forme di criminalità maggiormente incisivi di quelli prefigurati in via ordinari; dal codice di procedura penale, attraverso l’attribuzione alla polizia giudiziaria di poteri più ampi rispetto a quelli codificati”.
Peraltro, nel caso di specie la perquisizione presso l’abitazione come anche quella personale non risulta che non siano state successivamente convalidati dal pubblico ministero, essendo stata eccepita soltanto la violazione del previo avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.
Quindi, non rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n.252 del 2 320, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del D.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono devono essere convalidate, stabilendo, per l’appunto, che anche se preventivamente autorizzate per telefono, le stesse devono essere convalidate dal pubblico ministero se eseguite sulla persona : nel domicilio ex artt. 13 e 14 Cost.
In secondo luogo, costituisce principio consolidato, quello affermato dalle Sez. U, n. 5021 del 27/03/1996, Suraci, Rv. 204643 secondo cui il sequestro del corpo di reato è comunque legittimo, perché, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti (fattispecie relativa a perquisizione domiciliare, eseguita senza l’autorizzazione della competente m.G., nel corso della quale erano stati sequestrati circa trentuno grammi di cocaine).

3. Ciò detto con riferimento al sequestro della sostanza stupefacente, leve rilevarsi, al contrario, la fondatezza della questione dedotta con riferimento all’eccepita inutilizzabilità delle chat estrapolate dall’archivio del telefono cellulare senza che ne sia stato disposto il sequestro.
A tale riguardo occorre evidenziare come le garanzie di salvaguardia del diritto alla riservatezza dei dati archiviati nella memoria di un telefono cellulare, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 170 del 2023 del 7 giugno 2023, hanno visto ampliare il loro campo di applicazione attraverso la riconosciuta natura di corrispondenza anche alle comunicazioni non più in itinere ma acquisite dopo la loro ricezione da parte del destinatario.
In particolare, è stato affermato che la garanzia di cui all’art. 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, consentendone la limitazione “soltanto per fitto motivato dell’autorità giudiziaria” si estende “a ogni strumento che l’evoluì ione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici” e rimane valida finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento “storico”, cui può attribuirsi un valore restrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.
Per effetto di tali considerazioni, anche la messaggistica archiviata nei telefoni cellulari non può più essere considerata alla stregua di un nero documento, liberamente acquisibile senza la garanzia costituzionale prevista dall’art. 15 Cost., ma richiede l’assoggettamento alla disciplina dell’art. 254 cod. proc. pen. che impone la necessità di un provvedimento dell’autorità giudizi aria, necessariamente motivato al fine di giustificare il sacrificio della segretezza della corrispondenza, senza la possibilità di accesso diretto da parte della Polizia Giudiziaria, che ha solo il potere di acquisire materialmente il dispositivo elettronico ma senza accesso diretto al suo contenuto, analogamente a quanto previsto per l’invio della corrispondenza postale dall’art. 254, comma 2, cod. proc. pen., e fermo quanto disposto dall’art. 353 cod. proc. pen. sull’apertura dei plichi o di corrispondenza con l’autorizzazione del pubblico ministero quando ciò sia necessario per l’assicurazione elementi di prova che potrebbero andare persi a causa del ritardo.
Nel caso di specie, non vale osservare che l’acquisizione delle chat è avvenuta con il consenso di chi aveva il diritto di disporne, atteso che trattandosi di una attività svolta dalla polizia giudiziaria nei confronti di un soggetto, già gravato da elementi indiziari tali da giustificare l’acquisizione della posizione di indaga o, il consenso che si assume essere stato prestato liberamente dall’indagato non può supplire alla carenza di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziarie, di autorizzazione preventiva o di convalida successiva dell’atto di indagine possono in essere, invece, in totale autonomia dalla polizia giudiziaria.
Considerato che la richiesta di accesso ai contenuti del telefono è avvenuta dopo il rinvenimento della sostanza stupefacente nascosta dall’indagato sulle sua persona, si deve ritenere che ogni ulteriore attività di indagine che richiedesse la collaborazione della persona indagata andava espletata dopo la formale comunicazione degli avvisi di tutte le facoltà difensive ad essa spettanti, ivi compresa quella della facoltà di rifiutare tale collaborazione ed il diritto ad essere assistito da un difensore, espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen. non solo per le perquisizioni e sequestri (artt. 352 e 354, stesso codice), ma anche per l’apertura della corrispondenza (ex art. 353 cod. proc. pen.).
Inoltre, va rilevato che già il Giudice di primo grado aveva escluso la possibilità di qualificare come spontanee le dichiarazioni confessorie rese dall’indagato nel medesimo contesto, facendo corretta applicazione dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui le dichiarazioni che tale persona abbia reso su “sollecitazione” della polizia giudiziaria nell’immediatezza dei fatti in assenza di difensore non sono in alcun modo utilizzabili, neanche a suo favore, se non per la prosecuzione delle indagini (Sez. 2, n. 3930 del 12/01/2017, Fiolo, Rv. 269206).
In ogni caso, va osservato che anche se il consenso fosse stato reso alla persona indagata su sollecitazione della polizia giudiziaria, e pur dopo l’avviso Iella facoltà di essere assistito da un difensore, resta imprescindibile, onde prevenire il rischio di abusi, che in situazioni del genere la polizia giudiziaria abbia ii dove-e di procedere al sequestro del telefono senza poter accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, in applicazione della disciplina processuale sopra richiamata relativa all’apertura della corrispondenza (vedi art. 353 cod. proc. pen.).
L’acquisizione dei contenuti delle chat è, infatti, avvenuta sulla base di un rilievo fotografico operato dalla stessa polizia giudiziaria (c.d. screenshot) Ielle chat whatsapp, senza un provvedimento di sequestro di competenza dell’autorità giudiziaria, attraverso una attività di acquisizione alternativa che la Corte di appello ha qualificato come legittima assunzione di una prova atipica.
Al contrario, deve qui ribadirsi il principio, già affermato in tema di differenza tra dichiarazioni spontanee e quelle “sollecitate” o “provocate” (Sez. 6, n. 13623 del 24/02/2003, Ventre, Rv. 224741) che non è consentito alla polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi “dalle previsioni legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguire risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le garanzie costituzionali dettate dalla legge per questi ultimi.
In conclusione, pur dovendosi rimarcare l’inutilizzabilità delle chat, perché non acquisite con le modalità garantite sopra specificate, il primo motivo di ricorso deve essere comunque rigettato per quanto osservato sotto il profilo della cerante articolazione della c.d. prova di resistenza.

4. Gli ulteriori motivi di ricorso sono manifestamente infondati oltre che inammissibili per genericità.
Il secondo motivo relativo all’art. 131-bis cod. pen. è generico perché, pur prescindendo dal profilo attinente alla gravità oggettiva del reato in ragione del dato ponderale della sostanza stupefacente (pari a trenta dosi di cocaina), ne n si confronta affatto con l’ulteriore profilo del carattere abituale del reato, in ragione dei ravvisati precedenti della stessa indole.
Ugualmente generico è il terzo motivo in ordine alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62, n,4 cod. pen. e dell’art. 73, comma 7, T.U. Stup.
Quanto all’attenuante comune dell’esiguità del profitto, la Corte di merito ha valorizzato oltre alla somma di novanta Euro rinvenuta indosso all’imputato e ritenuta provento di spaccio anche gli altri quantitativi di droga in suo possesso, considerati, in modo non illogico, indice di una attività di spaccio redditizia.
Con riferimento, invece, all’attenuante speciale della collaborazione prevista in tema di reati in materia di sostanze stupefacenti, è stato correttamente evidenziato nella sentenza impugnata che l’imputato, pur avendo ammessi le proprie responsabilità con le dichiarazioni spontanee ritenute inutilizzabili, non ha fornito una piena e valida collaborazione agli inquirenti, avendo omesso di riferire il luogo in cui era custodita la sostanza stupefacente presso l’abitazione dei genitori, alla quale gli agenti sono pervenuti solo grazie all’ascolto diretto celle chat memorizzate nel telefono cellulare.
Si tratta di argomenti validi in diritto e coerenti sul piano della ricostruzione dei fatti che rendono ragione della motivata esclusione delle invocate circostanze attenuanti.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 20 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2025.

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