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Sentenze Penale Procedura Penale

Cassazione penale, sez. VI, 24 febbraio 2003, n. 13623

Redazionedi Redazione2 Marzo 2025Aggiornato il:2 Marzo 2025
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Cassazione penale, sez. VI, 24 febbraio 2003, n. 13623

FATTO E DIRITTO

Nel corso di indagini svolte dall’ispettore I. dell’Amministrazione delle poste per la denunziata sottrazione di corrispondenza diretta a società che gestivano concorsi a premi (in generale col sistema dei bollini di acquisti applicati su schede) venivano individuate prima certa L. e successivamente V. M. ed altre addette alla distribuzione presso l’ufficio di S. Giuliano Milanese: costoro, in sostanza, aprivano le buste indirizzate alla società, sostituivano sulle schede i dati anagrafici con quelli propri, di familiari o di persone di fiducia, ritrasmettevano la documentazione così truccata e si ricevevano i pacchi coi premi. Venivano pertanto contestati in concorso i reati di cui agli artt 619, 314 e 640 C.P. - Per la V.,in particolare, si accertava che le erano riferibili ,come mittente, sei schede (delle quali quattro alterate con inserimento del proprio nome o di quello del marito P. C.) ma i pacchi ricevuti erano complessivamente ventiquattro; la predetta dava al dott. I., quanto alle schede, delle spiegazioni ritenute inverosimili, mentre per il maggior numero di pacchi dichiarava esserle capitato di ritirarne, anche senza delega, per conto di persone amiche e vicine di casa; la L., d’altra parte, nel rendere al dott. I. confessione del proprio operato , aveva dichiarato che anche altre colleghe addette alla distribuzione e la V. stessa agivano nello stesso modo.
La Corte d’appello di Milano, nel confermare il giudizio di colpevolezza della V. (la L. aveva nel frattempo optato per il patteggiamento), riconosceva alla stessa l’attenuante di cui all’art. 323 bis C.P. e le generiche (con prevalenza sulle contestate aggravanti) riducendo la pena complessiva a sensi di legge. Nel replicare, in particolare, a due specifiche questioni sollevate dalla difesa coi motivi d’appello, la Corte argomentava che quelle rese da V. a l. erano dichiarazioni spontanee, di fatto utilizzate, le prime, solo per le contestazioni a sensi degli artt. 350 co. 7 e 503 co. tre cpp, mentre le altre erano state acquisite col consenso delle parti, donde la “loro utilizzabilità piena”.
Propone ricorso per cassazione il difensore avv. Trombini, deducendo: 1) nullità ex artt. 179 co. 1 e 178 lett c cpp delle dichiarazioni delle predette V. e L., sentite dall’ufficiale di p.g. - formalmente per spontanea iniziativa delle stesse ma in sostanza a seguito di precise domande - senza assistenza di difensore e senza previo avvertimento della facoltà di non rispondere; 2) inutilizzabilità delle dichiarazioni della V. ex art. 63 CPP rese quando già erano insorti (quanto meno per le dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie della L.) indizi di reità a di lei carico; 3) del pari, inutilizzabilità delle dichiarazioni della L., imputata in procedimento connesso, dichiarazioni rese quando già l’ispettore aveva individuato il nome di lei e dell’amico P. tra quelli più ricorrenti come destinatari di pacchi ed aveva anche acquisito alcune delle corrispondenti schede contraffatte; 4) mancata ovvero manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla chiamata in correità della L. di “discutibile significato in sé” e comunque priva di riscontri esterni.
Osserva questa suprema Corte che i motivi, assorbenti, riguardanti le dichiarazioni della V. e della coimputata L. sono sostanzialmente fondati, ancorché non proprio conducenti alle conclusioni che la ricorrente vorrebbe trarne.
Va intanto premesso in punto di fatto essere pacifico che tanto la V. quanto la L. erano state, al momento dei rispettivi incontri con l’ispettore, già raggiunte da concreti indizi di reità come: numero anomalo dei pacchi-regalo ricevuti; tessere contraffate con nomi a loro in un modo o nell’altro ricollegabili;
dichiarazioni di persone che avevano regolarmente inviato per posta la documentazione senza mai ricevere i regali.
È poi esatto quanto la ricorrente afferma che quelle rese a verbale al dott. I. - che come ispettore dell’amministrazione postale incaricato di accertare fatti-reato interessanti direttamente o indirettamente l’organizzazione dei servizi, aveva qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria a sensi dell’art. 1 D.M. 14/8/1943 - abbiano natura di dichiarazioni spontanee: a fronte di questa locuzione dal significato inequivocabile (la vera spontaneità, nel corso delle indagini preliminari art 350/7 e art. 374 cpp è quella che si manifesta in assenza di ogni sollecitazione, persino di tipo generico) è l’intero contenuto del documento (l’uno vale l’altro) che, per quanto abilmente non articolato su domande e risposte , tradisce la sostanza dell’atto compiuto, per com’è reso evidente da quanto via via e in modo preciso la parte dichiara su ciascuno degli argomenti destinati a diventare,in successiva fase, oggetto di formale contestazione. S’intende dire - giudizio consentito anche in questa sede trattandosi di esatta qualificazione giuridica di atto processuale a questi fini direttamente esaminato - che sarebbe veramente fuori della norma l’intuito di cui avrebbero dato prova l’una e l’altra interessata col rendere, pure in mancanza di specifiche domande, dichiarazioni esattamente calibrate sui temi che l’ufficiale di p.g. intendeva trattare siccome di rilievo penalistico. Questa Corte, con sentenza 31/3/1998, Parreca opportunamente richiamata dalla stessa ricorrente, ha ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni “provocate” da un operatore di p.g. il quale,dissimulando qualifica e funzione, rivolga domande relative a fatti oggetto di indagini a chi appaia sin dall’inizio coinvolto come indiziato di reità; nel caso all’esame si è oggettivamente camuffato l’atto (non l’autore) ma questo - a misura del fatto che la falsa apparenza può trarre in inganno gli stessi organi giurisdizionali - rende ancora più grave lo strappo operato, col compimento di atti atipici, in un sistema processuale basato sul principio di legalità e del ripudio di comportamenti elusivi delle garanzie difensive.
Poste queste premesse, e pacifico che gli atti vennero compiuti senza le garanzie di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art, 350 e fuori delle modalità tassativamente previste dal terzo comma dell’art. 64 cpp, sia pure nel testo vigente anteriormente a legge n. 63/2001, la conclusione non può non essere quella comminata dal cpv. dell’art. 63 cup, cioè la inutilizzabilità in ogni direzione delle dichiarazioni rese della V. come dalla L.: e non rileva che queste ultime siano state acquisite - su questo, tra l’altro, sembra non esserci il supporto di una formale verbalizzazione - col consenso delle parti, non essendo evidentemente nella disponibilità di queste la rinunzia a far valere la specifica sanzione. Va solo precisato che mentre le dichiarazioni della V. dichiarate inutilizzabili (peraltro non esplicitamente autoaccusatorie) sono state - o comunque possono essere - sostituite da quelle autonomamente rese in dibattimento e pienamente valide, quelle della L., che si è poi avvalsa della facoltà di non rispondere, sono irrimediabilmente perdute.
La conseguenza dell’accoglimento di questi motivi - almeno per quanto riguarda il capo B) della imputazione (peculato) - è l’annullamento con rinvio giacché la valutazione del residuo materiale probatorio non può, per la motivazione adottata dalla sentenza impugnata che mostra di dare non trascurabile valenza alle suddette dichiarazioni inutilizzabili, essere correttamente effettuata in questa sede: sarà il giudice del rinvio a esaminare nuovamente e in piena autonomia il gravame di merito, tenendo naturalmente conto degli altri elementi di prova orale, di quelli rivenienti dagli accertamenti oggettivi (schede alterate, numeri di pacchi ricevuti, direttamente o tramite altri, nomi sostituiti e simili) e delle stesse dichiarazioni dibattimentali della prevenuta.
Gli altri due reati - commessi fino ad epoca non posteriore al 25 maggio 1994 e puniti ciascuno con pena della reclusione inferiore a cinque anni - sono estinti per prescrizione maturata nel termine massimo di sette anni e sei mesi (non apprezzabile in pratica la unica sospensione dovuta a un rinvio a richiesta della difesa) e la relativa declaratoria va resa in questa sede, non risultando applicabile,per quanto appena detto con riferimento al connesso capo residuo, la regola di cui al capoverso dell’art. 129 cpp.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la impugnata sentenza limitatamente ai capi A) e C) della imputazione perché estinti per prescrizione, annulla la sentenza stessa in relazione al capo B) e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuova deliberazione.
Così deciso in Roma il 24 febbraio 2003.
Depositata in cancelleria il 25 marzo 2003

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