Consiglio di Stato, sez. VI, 11 aprile 2025, n. 3118
FATTO
1. Con ricorso del 2022 Za. s.e. ha chiesto al Tar per il Lazio l’annullamento del provvedimento n. 30099/2022, dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), relativo al procedimento amministrativo PV 16/2021.
2. Con tale atto AGCM ha irrogato a Za. una sanzione amministrativa pecuniaria di 100.000 € (centomila euro) per una attività pubblicitaria parassitaria ai sensi dell’articolo 10, commi 1 e 2, lettera a), del decreto-legge 11 marzo 2020, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 8 maggio 2020, n. 31, per la condotta di seguito descritta (punto II dell’atto impugnato): “diffusione, nella stessa piazza di Roma in cui era allestita dalla UEFA l’area Football Village ufficiale dell’evento calcistico internazionale “UEFA Euro 2020”, di una affissione di grandi dimensioni in cui era presente l’espressione “Chi sarà il vincitore?”, era indicato il nominativo di Za. ed erano raffigurate le 24 bandiere delle Nazioni partecipanti all’evento ed una maglia calcistica bianca in cui compariva il logo distintivo di Za.”.
AGCM (punto 44 del provvedimento in parola) ha ritenuto che il messaggio pubblicitario oggetto del provvedimento integrasse “una attività pubblicitaria parassitaria vietata ai sensi dell’articolo 10, commi 1 e 2 del Decreto Legge 16/2020 in quanto idonea, in ragione del luogo in cui è stata realizzata nonché delle espressioni e raffigurazioni che compaiono nel messaggio, a creare un collegamento fra il marchio Za. e l’evento calcistico UEFA Euro 2020 e ad indurre in errore il pubblico dei destinatari sulla identità degli sponsor lasciando intendere che Za. sia, contrariamente al vero, sponsor dell’evento”.
3. A sostegno dell’impugnativa, Za. formulava i seguenti motivi di ricorso:
I. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per motivazione generica e apodittica - Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa valutazione dell’elemento “idoneo a indurre in errore il pubblico”.
Si sosteneva che ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. a) del d.l. n. 16/2020 il presupposto per poter affermare il carattere parassitario di una pubblicità è duplice: (i) deve sussistere un collegamento anche indiretto fra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi di cui al comma 1; (ii) tale collegamento deve essere idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali. Ma nella specie la decisione è stata fondata sulla base del solo criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo, tralasciando completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito dell’induzione in errore.
II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria - Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020.
Si sosteneva che:
- nella fase istruttoria del procedimento amministrativo erano emersi indizi chiari, precisi e concordanti che dovevano portare ad escludere ogni idoneità della pubblicità in parola ad indurre in errore il pubblico;
- non erano stati adoperati elementi tipicamente utilizzati da sponsor di eventi sportivi;
- l’Autorità non aveva considerato l’esatta portata della condotta della ricorrente nella sua interezza;
- senza alcuna motivazione la maglietta riportata nell’immagine veniva definita maglietta di calcio e l’impatto della presenza degli elementi grafici diversi dalle bandiere non era stato preso in alcuna considerazione.
III. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria - Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 per omessa ricostruzione delle caratteristiche di Piazza del Popolo nel momento dell’avvenuta affissione della pubblicità contestata.
Si evidenziava che:
- l’inaugurazione del Football Village di Piazza del Popolo ha avuto luogo soltanto in data 11 giugno 2021 e quindi dopo l’avvenuta rimozione dell’affissione contestata;
- rientrava già nei piani di Za. di sostituire il manifesto oggetto di contestazione a decorrere dall’8 giugno;
- sarebbe stato corretto e opportuno parlare di Football Village solo dopo la data dell’11 giugno 2021.
IV. Violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa considerazione di diritti fondamentali.
Si stigmatizzava l’omessa considerazione del fatto che la campagna pubblicitaria fosse orientata a valorizzare tematiche di rilievo sociale quali l’inclusione di minoranze di orientamento sessuale.
V. Illegittimità dell’omessa considerazione, a fini sanzionatori, della novità della fattispecie - Violazione dell’art. 11 della l. n. 689/1981.
Il ricorrente si doleva dell’importo eccessivo della sanzione.
3. Nel giudizio di primo grado si costituiva in resistenza AGCM.
4. Con sentenza n. 13478/2023 il Tar per il Lazio ha respinto il ricorso.
4.1 Il Tar ha preliminarmente affermato che la normativa applicata alla fattispecie si sostanzia in un’estensione dell’intervento repressivo pubblico al fine di irrobustire e salvaguardare il corretto funzionamento del mercato e dei professionisti che vi operano (viceversa, la tutela dei consumatori è affidata alle regole del codice del consumo sulle pratiche commerciali scorrette).
4.2 Il Tar ha ritenuto esistente il collegamento tra Za. e gli europei di calcio, in ragione:
- della vicinitas del cartellone;
- della raffigurazione sullo stesso di una maglietta da calcio stilizzata, corredata da 24 bandiere (proprio quelle delle squadre partecipanti alla manifestazione sportiva) e dalla scritta “Chi sarà il vincitore?”;
- della insussistenza della scriminante rappresentata dal mancato impiego di immagini protette o di parole come “Euro 2020” (atteso che la norma sanzionatoria vieta anche i collegamenti indiretti);
- della riconoscibilità della maglietta come calcistica;
- della connessione con la competizione sportiva tanto della collocazione della maglietta tra le 24 bandiere delle federazioni nazionali partecipanti al torneo quanto dello slogan “Chi sarà il vincitore?”;
- del posizionamento dell’affissione in contiguità con il football village romano.
4.3 Secondo il primo giudice l’AGCM ha correttamente motivato in ordine alla decettività del messaggio perché:
- gli elementi illustrati (ossia la maglietta calcistica, la vicinanza e lo slogan impiegato), oltre a creare il collegamento indiretto, inducono, nell’avventore medio, l’idea di inclusione della società ricorrente tra gli sponsor della competizione;
- gli elementi di raccordo erano idonei a sviare il pubblico e il ricorrente non ha spiegato per quale ragione il messaggio pubblicitario possa (o debba) considerarsi lecito;
- non hanno rilievo le deduzioni circa il collegamento della disposta affissione con le tematiche di inclusione delle minoranze di orientamento sessuale poiché tale circostanza non emerge in alcun modo dalla pubblicità censurata, risultando chiarita solo da un successivo cartellone che avrebbe dovuto sostituire quello contestato;
- l’intervento dell’Autorità non limitava diritti fondamentali, né diveniva censura autoritaria di una libera manifestazione del pensiero ma semplicemente, bilanciava contrapposte libertà d’iniziativa economica privata nell’ambito di un procedimento pienamente conforme alla legge nazionale, nonché agli impegni sovranazionali assunti dallo Stato italiano;
- istanze ad alto valore sociale, come l’inclusione delle minoranze di orientamento sessuale, ben avrebbero potuto essere promosse mediante strumenti che non ingenerassero un collegamento indiretto con la competizione sportiva.
4.4 Il Tar ha ritenuto irrilevante la circostanza che il cartellone avrebbe dovuto rimanere affisso sino all’8 giugno 2021, ossia tre giorni prima dell’avvio degli europei di calcio perché:
- le fotografie scattate dalla Guardia di finanza mostravano chiaramente la contestuale presenza degli stand dell’UEFA e del cartellone contestato;
- le argomentazioni difensive sulla piena legittimità di questa nuova réclame (raffigurante anch’essa la medesima maglietta calcistica con altra fantasia) non appaiono convincenti visto che l’Autorità non rilevava la liceità della seconda pubblicità, bensì ometteva l’indagine su di essa in quanto mai impiegata.
4.5 Con riferimento al quantum della sanzione, il Tar ha ritenuto corretto l’operato dell’Autorità che ha determinato la sanzione nel limite edittale minimo previsto dalla legge.
5. Avverso la sentenza del Tar per il Lazio n. 13478/2023 ha proposto appello Za. s.e. per i motivi che saranno più avanti esaminati.
6. Si è costituita AGCM chiedendo il rigetto dell’appello.
7. All’udienza del 20 marzo 2025 l’appello è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Il primo motivo di appello è rubricato: “Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per motivazione generica e apodittica - Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa valutazione dell’elemento “idoneo a indurre in errore il pubblico”.
L’appellante sostiene che:
- il Tar ha errato nel ritenere il provvedimento impugnato correttamente motivato;
- l’atto impugnato ha analizzato soltanto uno dei due presupposti della norma applicata, senza argomentare, in modo specifico e puntuale, le ragioni per le quali tutti i singoli presupposti di applicazione della norma dovrebbero dirsi nel caso di specie integrati;
- affinché si possa affermare il carattere illecito di una pubblicità, è necessario che ricorra non solo (i) un collegamento tra marchio/segno distintivo ed evento sportivo, bensì anche (ii) la sua attitudine e idoneità decettiva circa la presenza del titolare di quel marchio/segno distintivo tra gli sponsor dell’evento;
- provvedimento e sentenza del Tar hanno preso in considerazione soltanto il criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo, tralasciando completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito dell’induzione in errore;
- non è stato spiegato perché il presunto collegamento tra marchio ed evento abbia indotto in errore il pubblico circa la presenza del marchio tra gli sponsor dell’evento;
- l’AGCM ha ipotizzato una specie di automatismo tra la ricorrenza del primo elemento e quella del secondo elemento: ma si tratta di un errore fondamentale e tale da allargare le maglie della fattispecie in maniera esorbitante rispetto alla ratio della norma e degli interessi, ancorché corporativi ed esogeni, che essa si prefigge di tutelare;
- l’intenzione del legislatore non era quella di creare automatismi: se così fosse stato, sarebbe bastato eliminare qualsiasi riferimento all’idoneità di induzione in errore;
- il riferimento all’idoneità di induzione in errore, invece, ha la funzione di restringere l’ipotesi sanzionatoria e di tutelare, per quanto possibile, un’area di libertà con riguardo a diritti fondamentali quali quello di espressione e di libertà economica;
- secondo la sentenza impugnata risulterebbe dalla “natura delle cose (specie nel settore pubblicitario) che il collegamento tra un evento sportivo (ad alto impatto mediatico) e una réclame sia subordinato, nella coscienza comune, all’esistenza di un rapporto negoziale, in forza del quale è consentita appunto la sponsorizzazione”;
- si tratta di un postulato non dimostrato e apodittico che esclude in maniera definitiva e mortale ogni evento sportivo “di alto impatto mediatico” dal novero dei fatti “storici” anche solo “accennabili” nel contesto commerciale: questo non è - e non può essere - il senso delle norme in esame;
- occorre partire dalla lettera della legge;
- affermare apoditticamente che in ogni caso di collegamento tra pubblicità ed evento vi sarebbe “nella coscienza comune” sempre l’idea dell’esistenza “di un rapporto negoziale” equivale ad un abbandono totale del criterio dell’induzione nell’errore;
- un siffatto abbandono è una scelta che nel nostro sistema di ripartizione dei poteri spetta al legislatore, che deliberatamente ha provveduto a qualificare ulteriormente il criterio del “collegamento”.
2. Il secondo motivo di appello è rubricato: “Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria - Falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 e violazione dell’onere della prova”.
L’appellante sostiene che:
- il provvedimento impugnato non motiva e non adduce alcun mezzo di prova idoneo a dimostrare che gli elementi di raccordo che costituirebbero il “collegamento indiretto” sarebbero anche idonei all’induzione in errore in merito alla sponsorizzazione dell’evento;
- la sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che “le argomentazioni spese dalla parte ricorrente si risolvono nella mera negazione di quanto sostenuto dall’AGCM, senza allegazione di alcun elemento (neppure un principio di prova) che possa infirmare il logico ragionamento dell’Autorità” introduce una inammissibile inversione dell’onere della prova in ordine alla sussistenza del collegamento;
- in altri ordinamenti il criterio dell’induzione in errore assume la corretta rilevanza e viene trattata con la corretta attenzione (si fa l’esempio di una sentenza della Cassazione francese del 20 maggio 2014);
- fermo restando che non è giustificato l’inversione dell’onere della prova, occorre rilevare che nella fase istruttoria del procedimento amministrativo erano emersi indizi chiari, precisi e concordanti che militano per escludere ogni idoneità della pubblicità in parola ad indurre in errore il pubblico;
- la decisione AGCM e la sentenza impugnata hanno semplicemente omesso ogni analisi di tali indizi;
- tali indizi sono: (i) l’assenza di parole come “Euro 2020”, (ii) l’assenza di immagini protette come marchi figurativi e (iii) l’assenza della riproduzione di personaggi tutelati dal diritto d’autore (si tratta di situazioni in cui il titolare e/o licenziatario si sarebbe trovato come detentore di un diritto assoluto avvallata da garanzie costituzionali della proprietà);
- il concetto di idoneità all’induzione in errore è inversamente proporzionale a quello di collegamento con l’evento, con la conseguenza che quanto più tenue - se esistente - è il collegamento con la manifestazione, tanto più palese - ed oggetto di una qualche onere probatorio da chi ne alleghi la sussistenza (e non viceversa) - deve essere la caduta in errore del “pubblico” per la configurazione dell’illecito;
- la sentenza impugnata non è sufficientemente argomentata nella parte in cui afferma che il mancato impiego di immagini protette o di parole come “Euro 2020” non costituirebbe scriminante, atteso che la norma sanzionatoria vieta anche i collegamenti indiretti, quale quello accertato con il provvedimento gravato: la norma non vieta tutti i collegamenti indiretti ma soltanto coloro che sono “idonei ad indurre il consumatore”;
- mentre nel caso di collegamenti diretti (vale a dire utilizzo di parole come “UEFA” oppure “Euro 2020”) l’idoneità all’induzione in errore può (ma non necessariamente deve) risultare in maniera evidente, lo stesso non si applica ai collegamenti indiretti;
- per quanto riguarda gli elementi stigmatizzati (vale a dire la raffigurazione di bandiere) non può essere oggetto di monopolio l’uso di stemmi, bandiere, emblemi ufficiali (art. 10 c.p.i.; art. 6-ter Convenzione di Parigi);
- tanto il provvedimento impugnato quanto la sentenza del Tar non hanno preso posizione sulle critiche mosse da Za. in istruttoria in merito al criterio del “collegamento” tra marchio ed evento (focalizzazione sulle bandiere delle 24 Nazioni partecipanti senza considerare i plurimi elementi aggiuntivi che compongono l’immagine pubblicitaria e che sono totalmente slegati da qualsivoglia manifestazione sportiva: (i) presenza al centro del telo di una semplice maglietta bianca priva degli elementi tipici delle magliette calcistiche; (ii) presenza sul medesimo telo di ben sedici simboli stilizzati e colorati che nulla hanno a che vedere con la manifestazione Euro 2020);
- nella sentenza impugnata la maglietta riportata nell’immagine è apoditticamente definita “maglietta di calcio” e l’impatto della presenza degli elementi grafici diversi dalle bandiere non viene preso in alcuna considerazione;
- per un pubblico non specialistico l’immagine è semplicemente quella di una maglietta bianca, circondata da diversi elementi colorati, alcuni di pura fantasia, altri nei colori di bandiere di diverse nazioni (bandiere che solo un conoscitore di calcio poteva ricondurre nell’immediatezza alle nazioni partecipanti al torneo);
- Piazza del Popolo a Roma, (i) non è assimilabile ad uno Stadio durante una partita di calcio: il luogo in parola costituisce l’ingresso alla zona pedonale aperta a tutti ed anche ad un pubblico che non è minimamente interessato al torneo di calcio; (ii) è una piazza spesso luogo di manifestazioni ed espressioni del pensiero; e (iii) non poteva considerarsi “Football Village” nel momento dell’affissione della pubblicità.
3. Il terzo motivo di appello è rubricato: “Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza di istruttoria - Falsa applicazione dell’art. 10 comma 2 lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 per omessa ricostruzione delle caratteristiche di Piazza del Popolo nel momento dell’avvenuta affissione della pubblicità contestata”.
L’appellante critica la sentenza impugnata nella parte in cui, con riferimento al luogo in cui è stato affisso il manifesto; afferma: (i) “va rilevato come le fotografie scattate dalla Guardia di finanza mostrino chiaramente la contestuale presenza degli stand dell’Uefa e del cartellone contestato: si tratta, quindi, di una chiara dimostrazione dell’esistenza del collegamento indiretto tra il cartellone pubblicitario e la competizione calcistica”; e (ii) “Infine, irrilevante è la circostanza che il cartellone avrebbe dovuto rimanere affisso sino all’8 giugno 2021, ossia tre giorni prima dell’avvio degli europei di calcio”.
In particolare si sostiene che:
- l’inaugurazione del cosiddetto Football Village di Piazza del Popolo ha avuto luogo soltanto in data 11 giugno 2021 e quindi dopo l’avvenuta rimozione dell’affissione contestata;
- rientrava già nei piani di Za. sostituire il manifesto oggetto di contestazione a decorrere dall’8 giugno;
- una corretta ricostruzione dei fatti avrebbe dovuto considerare Piazza del Popolo di Roma al più come luogo del “futuro Football Village” e avrebbe altresì dovuto porre in evidenza che nei giorni di esposizione del manifesto non esisteva di fatto, o comunque non era in funzione, alcun “Football Village”;
- se il Tar avesse dato atto di ciò, allora si sarebbe verosimilmente determinato a rinvenire - ove mai esistente - un collegamento tra la ricorrente e l’evento Euro 2020 ancora più tenue;
- sarebbe stato corretto e opportuno parlare di “Football Village” solo dopo la data dell’11 giugno 2021, quando cioè le partite di calcio sarebbero state effettivamente trasmesse;
- far riferimento ad un pubblico di “tifosi” in un momento in cui detto pubblico neppure era ipotizzabile, rappresenta un’ulteriore grave distorsione nel percorso logico della sentenza gravata;
- nel momento di fruizione del messaggio promozionale contestato, il pubblico di Piazza del Popolo era quello ordinario di turisti e cittadini al pari di quello rinvenibile in qualsiasi momento dell’anno.
4. Il quarto motivo di appello è rubricato: “Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, lett. a) del decreto-legge 16/2020 convertito con legge n. 131 del 31 maggio 2020 per ommessa considerazione di diritti fondamentali”.
L’appellante sostiene che:
- la normativa in discussione è strettamente connessa all’esercizio di diritti fondamentali (come libertà di iniziativa economica e libertà di espressione), garantiti dalla Costituzione (artt. 41, comma 1; 21, comma 1) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 16; 11);
- il fine economico insito in ogni attività promozionale non toglie il carattere prettamente politico del messaggio qui in parola e l’applicabilità allo stesso delle garanzie che assistono il diritto fondamentale di cui all’art. 21 della Costituzione (concetto affermato anche dalla CEDU anche con riferimento specifico ai messaggi di natura promozionale: cfr. il caso Sekmadienis Ltd. v. Lithuania);
- la sentenza impugnata non ha effettuato alcun bilanciamento tra libera manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica;
- dal provvedimento e dalla sentenza del Tar emerge un divieto di parlare dell’evento che comporta una chiara violazione della libertà di espressione;
- il divieto cancella il diritto, quando invece l’ordinamento ne richiede, (i) la salvaguardia e poi (ii), ove mai un interesse degno di tutela si affacciasse all’orizzonte, quantomeno un adeguato bilanciamento;
- va ribadita (i) l’importanza di garantire la proporzionalità della tutela in sede di attuazione e va sottolineata (ii) la centralità della libertà di espressione, libertà che verrebbe svuotata di contenuto di fronte ad un eccesso di privatizzazione;
- un evento sportivo non dovrebbe essere considerato come una “cerimonia privata” da parte degli organizzatori e degli sponsor partecipanti;
- sussiste il timore che un eccesso di regolamentazione ed una percezione di un evento sportivo come cerimonia privata rischi di ledere, ed anzi di estinguere, proprio quell’euforia generale e partecipazione empatica di tutti che costituiscono il presupposto emozionale dei grandi eventi sportivi;
- nel caso di specie, Za. si è vista costretta ad abbandonare una iniziativa che coniugava i propri interessi economici con il sostegno della diversità (tutelata dalla Costituzione); e tutto questo in relazione ad un evento i cui benefici pubblici sono certamente limitati rispetto ad altri eventi sportivi che celebrano nella loro interezza sul territorio italiano: considerando che tra gli augurati effetti degli eventi presi in considerazione dal d.l. 16/2020 vi era anche l’impatto “in campo sociale e culturale”, saremmo di fronte ad un risultato quasi grottesco.
5. Il quinto motivo di appello è rubricato: “Error in iudicando. Illegittimità dell’omessa considerazione, a fini sanzionatori, della novità della fattispecie - Violazione dell’art. 11 della l. n. 689/1981“.
L’appellante sostiene che:
- ove anche fosse accertata l’infrazione, non sussisterebbero i presupposti per l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in considerazione dei profili di assoluta novità della fattispecie introdotta dalle disposizioni della legge n. 16/2020, che rappresenta il primo caso di attività pubblicitaria parassitaria indagato dall’Autorità;
- nel contiguo ambito antitrust, l’Autorità ha riconosciuto l’esigenza di limitare il valore della sanzione ad un ammontare simbolico o, comunque, minimo, in considerazione della natura innovativa della fattispecie;
- tali principi devono operare anche con riferimento alla disciplina di cui all’art. 10 e ss. del decreto legge n. 16 dell’11 marzo 2020, che ai fini di commisurazione della sanzione si basa, come la disciplina antitrust, sulla applicazione dell’art. 11 della legge n. 689/81;
- la statuizione del Tar sul punto non è condivisibile: la presa in considerazione della “novità della fattispecie” costituisce l’espressione di un principio generale, che tiene conto dell’impossibilità della parte accusata della commissione di un illecito amministrativo di interpretare una fattispecie attraverso precedenti giurisprudenziali;
- tale principio non trova la sua origine nell’art. 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, menzionata nella sentenza impugnata.
6. L’appello è infondato.
7. Viene portata all’attenzione del collegio la prima applicazione concreta delle nuove disposizioni in materia di divieto di attività parassitaria (cosiddetto “ambush marketing”) contenute nel d.l. 11 marzo 2020 n. 16 (recante “Disposizioni urgenti per l’organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025, nonché in materia di divieto di attività parassitarie”) convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 8maggio 2020, n. 31 (in particolare negli articoli da 10 a 14).
Per effetto dell’articolo 10 del d.l. citato (a far data dal 13 maggio 2020) “sono vietate le attività di pubblicizzazione e commercializzazione parassitarie, fraudolente, ingannevoli o fuorvianti poste in essere in relazione all’organizzazione di eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o internazionale non autorizzate dai soggetti organizzatori e aventi la finalità di ricavare un vantaggio economico o concorrenziale”.
In particolare vengono vietate quattro condotte specifiche:
- (i) la creazione di un collegamento anche indiretto fra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi prima citati, idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali [è l’ipotesi cui è ascrivibile il caso di specie];
- (ii) la falsa rappresentazione o dichiarazione nella propria pubblicità di essere sponsor ufficiale di un evento tra quelli prima citati;
- (iii) la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo tramite qualunque azione, non autorizzata dall’organizzatore, che sia idonea ad attirare l’attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi prima citati, e idonea a generare nel pubblico l’erronea impressione che l’autore della condotta sia sponsor dell’evento sportivo o fieristico medesimo;
- (iv) la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o fieristico tra quelli prima citati ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre in errore il pubblico circa il logo medesimo e a ingenerare l’erronea percezione di un qualsivoglia collegamento con l’evento ovvero con il suo organizzatore o con i soggetti da questo autorizzati.
Non costituiscono attività di pubblicizzazione parassitaria le condotte poste in essere in esecuzione di contratti di sponsorizzazione conclusi con singoli atleti, squadre, artisti o partecipanti autorizzati a uno degli eventi prima richiamati.
I divieti appena elencati operano a partire dalla data di registrazione dei loghi, brand o marchi ufficiali degli eventi in parola fino al centottantesimo giorno successivo alla data ufficiale del termine degli stessi (art. 11 del d.l. in esame).
7.1 La normativa appena richiamata ha rilevanza squisitamente pubblicistica. Nell’ipotesi, infatti, che qualcuno violi i divieti di cui sopra l’Autorità garante della concorrenza e del mercato è chiamata ad accertare le violazioni e ad irrogare la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 100.000 euro a 2,5 milioni di euro (art. 12 del d.l. in esame).
Ma il cosiddetto “ambush marketing” può assumere rilevanza anche sul piano della tutela civile e della tutela penale. L’art. 12 appena citato prevede l’irrogazione della sanzione pecuniaria “Salvo che la condotta costituisca reato o più grave illecito amministrativo”. E l’articolo 13 del d.l. 16/2020 chiarisce, ove ce ne fosse stato bisogno, che le previsioni di natura pubblicistica in esame “non escludono l’applicazione delle altre previsioni di legge a tutela dei soggetti che deducono la lesione di propri diritti o interessi per effetto delle condotte di cui all’articolo 10” [si pensi alla disciplina sulla tutela della concorrenza, ovvero alla disciplina dei marchi, o, ancora, all’art. 21 del codice del consumo che vieta le pratiche commerciali idonee ad indurre in errore i consumatori su elementi come l’esistenza o la natura del prodotto, le sue caratteristiche, la portata degli impegni del professionista e così via].
Sul tema della pubblicità parassitaria il giudice civile ha stabilito alcuni principi che possono essere così sintetizzati:
- la pratica dell’”ambush marketing” consiste nell’associazione di un marchio o di un prodotto ad un evento di grande risonanza mediatica, effettuata senza l’autorizzazione dell’organizzatore dell’evento; [per inciso, conviene ricordare che la European Sponsorship Association nel “Policy Paper on Ambush Marketing” del 2014 distingue tre tipi fondamentali di pratiche di questo tipo: “ambush by association”, caratterizzato da un’associazione indiretta del marchio all’evento; “ambush by intrusion”, con il quale l’ambusher dà visibilità al suo marchio nei luoghi in cui si svolge l’evento o nelle loro immediate vicinanze; “opportunistic marketing”, con il quale l’ambusher approfitta di determinati episodi svoltisi durante l’evento per dare visibilità al suo marchio];
- la pratica dell’”ambush marketing” è considerata ingannevole, poiché induce in errore il consumatore medio sull’esistenza di rapporti di sponsorizzazione ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di proprietà intellettuale invece, insussistenti e costituisce un’ipotesi particolare di concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare tutela nell’alveo generale dell’art. 2598, comma 3, c.c.;
- con la figura dell’”ambush marketing” il concorrente sleale associa abusivamente l’immagine ed il marchio di un’impresa ad un evento di particolare risonanza mediatica senza essere legato da rapporti di sponsorizzazione, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione; in tal guisa lo stesso si avvantaggia dell’evento senza sopportarne i costi, con conseguente indebito agganciamento all’evento ed interferenza negativa con i rapporti contrattuali tra organizzatori e soggetti autorizzati;
- si tratta di illecito plurioffensivo, ove i soggetti danneggiati sono l’organizzatore dell’evento, il licenziatario (o sponsor) ufficiale ed infine il pubblico.
7.2 Come si diceva, nel caso di specie si discute unicamente della disciplina di rilevanza pubblicistica emanata nel 2020.
L’appellante ricorda come, in dottrina, si sia affermato che il d.l. del 2020 non considera illecite tutte le forme di “ambush marketing” ma solo quelle idonee a indurre il pubblico in errore circa l’identità degli sponsor ufficiali.
Del pari in dottrina (ricorda sempre l’appellante) si è fatto notare che se è giusto che i soggetti che acquistano i diritti di sponsorship sui grandi eventi abbiano un’esclusiva sullo sfruttamento senza essere superati da chi non ha assunto alcun onere economico rispetto agli stessi non bisogna dimenticare che i Campionati mondiali di calcio o le Olimpiadi sono eventi rispetto ai quali non sarebbe giusto ma neanche fattibile precludere la possibilità di una qualche forma di agganciamento da parte di altri soggetti al di fuori dei veri e propri sponsor, fermo restante il discrimine del divieto di inganno del consumatore.
L’illecito di cui si discorre ( previsto dall’art. 10 del D.L. n. 16 del 2020 consiste nella “creazione di un collegamento ((anche)) indiretto fra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi di cui al comma 1 ((,)) idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali” ) è un illecito di pericolo concreto (che richiede la concreta messa a rischio del bene protetto) ove rileva l’idoneità decettiva di un messaggio pubblicitario formulato in modo anche indiretto, da accertarsi in concreto non necessariamente mediante una rilevazione statistica fatta sui destinatari del messaggio ma con riferimento alle caratteristiche concrete del messaggio medesimo.
Occorre pertanto analizzare le caratteristiche del messaggio in ogni singolo caso concreto al fine di stabilire il confine tra “ambush marketing” lecito e “ambush marketing” illecito. Ed è quello che il Collegio si accinge a fare.
8. È infondato il primo motivo di appello nel quale si sostiene che il provvedimento e la sentenza del Tar avrebbero preso in considerazione soltanto il criterio del presunto collegamento tra marchio e evento sportivo, tralasciando completamente l’analisi del secondo, e decisivo, requisito dell’induzione in errore.
Non vero che non sarebbe stato spiegato perché il presunto collegamento tra marchio ed evento abbia indotto in errore il pubblico circa la presenza del marchio tra gli sponsor dell’evento; né è vero che AGCM abbia ipotizzato una specie di automatismo tra la ricorrenza del primo elemento e quella del secondo elemento.
Conviene ricordare che gli argomenti ancorati alla rilevanza dell’induzione in errore erano stati già evidenziati durante l’istruttoria da Za.. Tali argomenti erano stati presi in considerazione da AGCM in maniera esplicita.
Al punto 35 del provvedimento impugnato si legge: “Il complesso degli elementi inclusi nell’affissionale è idoneo a creare un collegamento fra il nominativo e il marchio Za., da un lato, e l’evento calcistico, dall’altro, e ad indurre in errore il pubblico lasciando intendere, in ragione di tale collegamento, che Za. sia, contrariamente al vero, sponsor ufficiale dell’evento”.
Al punto 40 del provvedimento impugnato si legge: “Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla Società, la disciplina in parola [art. 10, comma 2, d.l. 16/2020: n.d.r.] individua poi definisce in maniera puntuale gli elementi al ricorrere dei quali la fattispecie della “attività di pubblicizzazione parassitaria” risulta integrata, ivi compresa l’induzione in errore del pubblico su uno specifico aspetto, “l’identità degli sponsor”, che può discendere da un collegamento anche indiretto tra il marchio pubblicizzato e l’”evento”“.
Non si può pertanto affermare che il requisito dell’induzione in errore non sia stato preso in considerazione. Al contrario esso è stato considerato e sono state addotte le ragioni per le quali l’Autorità che tale requisito fosse integrato nella fattispecie.
Analogo discorso può farsi per le considerazioni esposte nella sentenza impugnata che pure ha esaminato gli elementi caratterizzante la specifica fattispecie anche al fine di condurre un autonomo esame del requisito dell’induzione in errore (il Tar ha usato la locuzione “avventore medio”). Nella sentenza si legge infatti: “va osservato come correttamente l’AGCM abbia motivato in ordine alla decettività del messaggio. Difatti, gli elementi illustrati supra (ossia la maglietta calcistica, la vicinanza e lo slogan impiegato), oltre a creare il collegamento indiretto, inducono, nell’avventore medio, l’idea di inclusione della società ricorrente tra gli sponsor della competizione”.
Né possono essere condivise le critiche al passaggio della sentenza nel quale il primo giudice afferma: “D’altronde, risulta nella natura delle cose (specie nel settore pubblicitario) che il collegamento tra un evento sportivo (ad alto impatto mediatico) e una réclame sia subordinato, nella coscienza comune, all’esistenza di un rapporto negoziale, in forza del quale è consentita appunto la sponsorizzazione”.
Tale inciso, lungi dal rappresentare un “abbandono del criterio dell’induzione in errore”, come sostenuto dall’appellante, si preoccupa di esprimere in maniera compiuta le modalità attraverso le quali, nel caso di specie, si è verificata l’induzione in errore.
Già da diversi anni gli studi di psicologia cognitiva hanno messo in evidenza i forti limiti delle ipotesi di razionalità su cui poggiano i modelli economici tradizionali. Le persone ricorrono frequentemente a regole euristiche che consentono di semplificare i processi decisionali e di effettuare le proprie scelte non solo risparmiando tempo, ma anche riducendo le informazioni necessarie. Ciò, tuttavia, può determinare errori cognitivi e scelte che, in ultima analisi, riducono il benessere. Uno tra i principali e più noti fenomeni analizzati dagli studi è definito “effetto framing”: numerosi esperimenti hanno dimostrato che le scelte degli individui possono essere significativamente influenzate dal modo in cui un determinato problema viene loro esposto o dal modo in cui sono loro presentate una serie di alternative (vedi Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 10 ottobre 2022 n. 8650; e la sentenza 14 novembre 2024 -nella causa C-646/22- della Quinta Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea).
Il Tar non ha fatto altro che dare corpo a siffatto tipo di consapevolezza: l’insieme degli elementi caratterizzanti la fattispecie concreta (ossia la maglietta calcistica, la vicinanza al Football Village e lo slogan impiegato) costruivano un “framing” idoneo ad indurre in errore il pubblico nel senso di indurlo a credere che Za. fosse tra gli sponsor dell’evento.
9. È infondato il secondo motivo di appello nel quale si sostiene che: (i) non sarebbe stato dimostrato che gli elementi di raccordo integrerebbero il “collegamento indiretto”; (ii) il Tar avrebbe introdotto una inammissibile inversione dell’onere della prova; (iii) nella fase istruttoria del procedimento amministrativo sono emersi indizi chiari, precisi e concordanti che militano per escludere ogni idoneità della pubblicità in parola ad indurre in errore il pubblico.
Ancora una volta conviene ricordare che gli argomenti ancorati alla asserita inesistenza del collegamento indiretto erano stati già evidenziati durante l’istruttoria da Za.. Tali argomenti erano stati presi in considerazione da AGCM in maniera esplicita.
Al punto 35 del provvedimento impugnato si legge: “Il messaggio pubblicitario, infatti, non autorizzato dai soggetti organizzatori dell’evento in questione, è stato affisso nelle immediate vicinanze dell’area commerciale allestita dalla UEFA in occasione dell’evento ed è caratterizzato dall’indicazione del nominativo di Za. e dall’immagine di una maglietta di calcio bianca in cui compare il logo distintivo di Za., circondata dalle “bandiere appartenenti alle 24 Nazioni che partecipano all’evento” e dal claim “chi sarà il vincitore?”“.
Al punto 41 del provvedimento si legge: “Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla Società, la disciplina in parola definisce in maniera puntuale gli elementi al ricorrere dei quali la fattispecie della “attività di pubblicizzazione parassitaria” risulta integrata, ivi compresa l’induzione in errore del pubblico su uno specifico aspetto, “l’identità degli sponsor”, che può discendere da un collegamento anche indiretto tra il marchio pubblicizzato e l’”evento”“.
Al punto 43 del provvedimento si legge: “Anche la circostanza che la campagna pubblicitaria fosse orientata a valorizzare tematiche di rilievo sociale quali l’inclusione di minoranze di orientamento sessuale non appare idonea a far venir meno il suddetto collegamento tra il marchio Za. e l’evento sportivo e quindi l’induzione in errore del pubblico sulla identità degli sponsor ufficiali, tanto più che l’obiettivo dichiarato dalla Società è risultato chiaro solo dall’affissionale che ha sostituito quello qui in esame”.
L’Autorità ha ancorato l’esistenza del collegamento ai seguenti elementi:
- affissione del cartellone nelle immediate vicinanze dell’area commerciale allestita dalla UEFA in occasione dell’evento;
- indicazione del nominativo di Za.;
- riproduzione dell’immagine di una maglietta di calcio bianca in cui compare il logo distintivo di Za.;
- riproduzione della maglietta circondata dalle “bandiere appartenenti alle 24 Nazioni che partecipano all’evento”;
- esistenza del claim “chi sarà il vincitore?”.
Si tratta di una pluralità di elementi che configurano un insieme combinato di condotte di ambush marketing, per associazione indiretta all’evento, per intrusione, per aggancio opportunistico, aventi nel loro complesso astratta idoneità decettiva sulla identità dello sponsor.
Non si può negare, quindi, che manchi una motivazione circa l’esistenza del collegamento. Tale motivazione c’è ed è convincente.
Non è vero che il Tar abbia introdotto un’inversione dell’onere della prova: il Tar si è limitato a dire che le allegazioni esposte dalla società si limitavano a negare quanto sostenuto dall’AGCM senza produrre argomenti in grado di minare il fondamento del ragionamento seguito dall’Autorità. Il Tar non ha detto che Za. avrebbe dovuto dimostrare che non esisteva il collegamento. Il Tar ha detto che Za. non ha dimostrato che l’Autorità avesse torto o che gli elementi dall’Autorità valorizzati non fossero idonei a fondare la contestazione e l’applicazione conseguente della sanzione.
Non appare pertinente il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione francese del 20 maggio 2014 relativa al criterio della induzione in errore anche alla luce di quanto esposto al punto precedente a proposito dell’effetto framing.
Non è vero che in istruttoria fossero emersi elementi di fatto idonei ad escludere l’induzione in errore del pubblico.
L’assenza di parole come “Euro 2020”, l’assenza di immagini protette come marchi figurativi e l’assenza della riproduzione di personaggi tutelati dal diritto d’autore sono elementi che nulla tolgono al quadro prima delineato di per sé sufficiente a far ritenere sussistente l’induzione in errore ( anche perché si tratta di elementi tutti volti a stabilire una più forte valenza indiziante alla pubblicità indiretta ma non ad inficiare il quadro probatorio raccolto ).
Stesso discorso può farsi per tutti gli altri argomenti spesi dell’appellante ovvero: l’impossibilità assoggettare a monopolio l’uso di stemmi, bandiere, emblemi ufficiali; l’asserita mancata presa di posizione sia del provvedimento che del Tar sulle critiche mosse da Za. in istruttoria in merito al criterio del “collegamento” tra marchio ed evento; l’asserita mancata considerazione della definizione apodittica di “maglietta di calcio” e dell’impatto della presenza degli elementi grafici diversi dalle bandiere; le caratteristica di Piazza del Popolo a Roma.
A parte il fatto che tali aspetti sono stati analizzati sia nel provvedimento che nella sentenza, resta la constatazione che nessuno di essi (tanto se presi unitariamente quanto se considerati nell’insieme) è in grado di far venir meno il fondamento complessivo del ragionamento seguito dall’Autorità per dimostrare tanto l’esistenza del collegamento quanto dell’induzione in errore.
10. È infondato il terzo motivo di appello nel quale si sostiene che non sarebbero stati presi in considerazione elementi di fatto come (i) l’inaugurazione dell’evento dopo la rimozione del cartellone; (ii) il progetto di Za. di affiggere un nuovo cartellone che avrebbe spiegato meglio il primo; (iii) la non assimilabilità di Piazza del Popolo ad un “Football Village”.
Ancora una volta i citati elementi non fanno venir meno l’esistenza della condotta illecita.
Le persone che vedevano il cartello attraversando Piazza del Popolo nei giorni in cui lo stesso è rimasto affisso potevano essere indotte a credere che Za. fosse tra gli sponsor della manifestazione per le ragioni più volte esposte.
Correttamente il Tar ha sottolineato: (i) l’irrilevanza del fatto che il cartello avrebbe dovuto rimanere affisso solo fino a 3 giorni prima dell’evento; (ii) la contestuale presenza degli stand dell’UEFA e del cartellone contestato (testimoniata dalle foto della Guardia di Finanza); ( iii ) la correttezza della decisione di non valutare la rilevanza del cartello che sarebbe stato affisso in un secondo momento, trattandosi, appunto, di evenienza futura e incerta.
Sotto quest’ultimo profilo è appena il caso di rilevare che le persone che avrebbero visto il secondo cartello non sarebbero state necessariamente le stesse che avevano visto il primo così da ricostruire l’interezza del messaggio pubblicitario, sicché la condotta successiva non avrebbe potuto avere valore scriminante l’illecito.
Compito dell’Autorità era di accertare e, se del caso, sanzionare le violazioni al d.l. 16/2020 di condotte già realizzate indipendentemente da eventuali sviluppi futuri. Ed è ciò che è accaduto nella specie.
11. È infondato il quarto motivo di appello nel quale si sostiene che dal provvedimento e dalla sentenza del Tar emergerebbe un divieto di parlare dell’evento con conseguente chiara violazione della libertà di espressione.
Sotto un primo profilo occorre rilevare che secondo l’appellante la sentenza impugnata non avrebbe effettuato alcun bilanciamento tra libera manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica. In realtà se davvero la libertà di espressione avesse tutta l’importanza che Za. le attribuisce nel caso di specie essa avrebbe valore di scriminante ( non potendosi né dovendosi fare oggetto di bilanciamento l’accertamento del fatto illecito ), trattandosi di esercizio di un diritto di libertà che non tollera limitazioni o zone franche se non nei casi costituzionalmente consentiti. Ma non è questo l’argomento che chiude la questione ( alla luce dell’inammissibilità della censura come formulata invocando in modo non pertinente il bilanciamento ).
Occorre infatti - andando alla sostanza delle censure avanzate - valutare il caso alla luce dei principi CEDU.
Non pertinente appare il richiamo operato da parte appellante alla decisione della IV sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 30 gennaio del 2018 Sekmadienis Ltd. c. Lithuania.
Il caso ha avuto origine da un ricorso (n. 69317/14) contro la Repubblica di Lituania, depositato presso la CEDU ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da una società a responsabilità limitata lituana, Sekmadienis Ltd., il 20 ottobre 2014.
La società ricorrente lamentava un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione, in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione, in quanto le era stata inflitta una multa per aver pubblicato annunci pubblicitari ritenuti contrari alla morale pubblica.
In particolare nel mese di settembre e ottobre 2012, per circa due settimane, la società ricorrente aveva condotto una campagna pubblicitaria per presentare una linea di abbigliamento dello stilista RK. La campagna comprendeva tre annunci visivi che sono stati affissi su venti cartelloni pubblicitari in aree pubbliche di Vilnius e sul sito web di RK.
La prima delle tre pubblicità mostrava un giovane con i capelli lunghi, una fascia, un’aureola intorno alla testa e diversi tatuaggi, che indossava un paio di jeans. Una didascalia in basso all’immagine recitava “Gesù, che pantaloni!”.
La seconda pubblicità mostrava una giovane donna con un abito bianco e un copricapo decorato con fiori bianchi e rossi. Aveva un’aureola intorno alla testa e teneva in mano una collana di perline. La didascalia in basso all’immagine recitava “Cara Mary, che vestito!”.
La terza pubblicità mostrava l’uomo e la donna insieme, con gli stessi abiti e accessori delle pubblicità precedenti. L’uomo era sdraiato e la donna era in piedi accanto a lui, con una mano sulla sua testa e l’altra sulla sua spalla. La didascalia in basso all’immagine recitava “Gesù [e] Maria, cosa indossate!”.
La società veniva sanzionata dalle autorità competenti della Lituania per l’utilizzazione a fini commerciali di simboli religiosi che si risolveva in un’offesa al sentimento religioso di determinate fasce di cittadini.
La vicenda è giunta dinanzi alla Corte di Strasburgo che ha ritenuto che nella specie fosse stato violato l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che così recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera (omissis)”.
Come si diceva questo caso citato dall’appellante non è rilevante perché in quella fattispecie non si discuteva di pubblicità parassitaria ma di un messaggio pubblicitario avente ad oggetto simboli religiosi.
Nel caso di specie non è in discussione il diritto di Za. di produrre e diffondere messaggi pubblicitari diretti a sensibilizzare la società civile su temi ed argomenti di rilevanza sociale come, ad esempio, l’inclusione sociale di minoranze di vario genere.
Nel caso di specie si discute se sia lecito che Za. affigga, in una piazza dove sono presenti installazioni UEFA, un manifesto di grandi di dimensioni con contenuti tali da creare un collegamento con un grande evento sportivo sì da indurre il pubblico e credere, sbagliando, che Za. fosse sponsor della manifestazione.
Il contenuto del messaggio (e l’eventuale libertà di espressione ad esso connesso) non era in sé rilevante, essendo evidente che la campagna pubblicitaria orientata alle finalità di inclusione avrebbe potuto svolgersi tranquillamente in altre modalità meno suggestive.
Nessun problema (nemmeno quello della limitazione della libertà di espressione) si sarebbe posto se lo stesso identico messaggio fosse stato pubblicato in altro luogo e non avesse ingenerato un collegamento con “Europa 2020”, mentre nel caso lituano l’intervento dell’autorità era volto ad interdire il messaggio come tale.
Nella specie non si vede come si possa parlare di privatizzazione della libertà di espressione. Za. non è stata costretta ad abbandonare la sua iniziativa. Semplicemente avrebbe dovuto condurla con modalità diverse e con la cautela derivante dalla necessità di non ingenerare errori percettivi ed un effetto decettivo nel messaggio destinato al pubblico che segue lo sport ( da tempo attraversato simbolicamente da tematiche relative a protezione dell’identità di genere volte ad includere minoranze che possono essere discriminate in ragione del loro differente orientamento sessuale).
Correttamente, quindi, il Tar ha ritenuto che: “Viepiú, va osservato come istanze ad alto valore sociale, come quelle rappresentate dalla società (ossia l’inclusione delle minoranze di orientamento sessuale), ben avrebbero potuto essere promosse mediante strumenti che non ingenerassero un collegamento indiretto con la competizione sportiva”. Aggiunge il Collegio che non tanto il collegamento in sé era da evitare quanto - come già specificato - le modalità della sua realizzazione che - come si è detto - potevano ingenerare un errore nel pubblico circa l’identità dello sponsor ( data anche la natura di impresa commerciale dell’attività dell’appellante e le altre circostanze evidenziate ivi compresa la chiarificazione progressiva degli intenti del messaggio che poteva nella specie indurre in inganno alla prima affissione incorrendo così formalmente nella violazione non scriminata da condotta successiva ).
12. È infondato il quinto motivo di appello nel quale si sostiene che la sanzione comminata sarebbe eccessiva perché non sarebbe stato tenuto in debito conto la circostanza costituita dalla assoluta novità della fattispecie introdotta dalle disposizioni della legge n. 16/2020.
Come correttamente rilevato dal Tar, la sanzione comminata corrisponde al minimo edittale.
In ogni caso l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall’art. 11 della l. n. 689/81 (in particolare, della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, della personalità dell’agente nonché delle condizioni economiche dell’impresa stessa), specificando puntualmente i criteri a tal fine adottati (cfr. §§ 46-48 del provvedimento).
L’Autorità ha tenuto conto, quanto alla gravità della violazione, sia della dimensione economica della società sia di ulteriori elementi rilevanti nella fattispecie de qua (§ 89 del Provvedimento), tra i quali: (i) la circoscritta diffusione del messaggio pubblicitario; (ii) il contesto di prima applicazione della normativa violata (§ 47 del provvedimento).
13. Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi, data la novità della questione, per compensare le spese del grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 marzo 2025 con l’intervento dei magistrati: (omissis)