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Home»Aree tematiche di MioLegale.it»Diritto urbanistico Edilizia
Diritto urbanistico Edilizia Sentenze

Consiglio di Stato, sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 825

Redazionedi Redazione29 Marzo 2015
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

FATTO e DIRITTO
La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda l’effettiva natura di un intervento edilizio realizzato nel centro storico di Bari, in area limitrofa al castello Svevo (in cui sarebbero possibili solo interventi conservativi, con recupero dei materiali antichi), tramite copertura di un pergolato già autorizzato con tegole in cotto. Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Bari, n. 574/13 del 16 aprile 2013 il ricorso – proposto avverso il diniego di sanatoria, emesso in rapporto al predetto intervento – veniva accolto, in quanto da fotografie di archivio sarebbe emerso come nell’area di cui trattasi numerosi edifici, tra cui – verosimilmente – quello oggetto del provvedimento impugnato, presentassero “sul lastrico, già sin dagli inizi del 1900, dei volumi con funzione di deposito-mansarda, detti suppigne”.
Avverso la sentenza sopra sintetizzata proponeva appello il Comune di Bari (n. 5739/13, notificato il 4 luglio 2013), sulla base di censure – non singolarmente formalizzate – che sostanzialmente rilevavano l’assenza di adeguati supporti probatori, circa la preesistenza del manufatto contestato, che contrasterebbe con la normativa comunale, dettata a tutela del centro storico (con particolare riguardo all’art. 33 delle Note Tecniche Allegate al Piano Particolareggiato di esecuzione per la Città Vecchia) e realizzerebbe un non consentito aumento di volumetria del fabbricato.
La parte appellata, costituitasi in giudizio, sottolineava la corrispondenza di quanto realizzato a strutture, storicamente preesistenti, con conseguente compatibilità dell’intervento, di cui era stata richiesta la sanatoria, alla vigente disciplina urbanistica.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello sia fondato, tenuto conto della normativa urbanistica di riferimento e delle caratteristiche dell’intervento edilizio effettuato, in base alla documentazione depositata dalle parti.
Il citato art. 33 N.T.A., infatti, dispone che sulle “coperture piane praticabili “ dei palazzi, situati nel centro storico della città, siano consentiti solo “torrini, scale, pergole in legno o simili”, mentre risultano vietate “le verande chiuse, le tettoie ed i volumi tecnici per ascensori”. Per le “coperture a falde inclinate esistenti”, inoltre, è ammesso il restauro “ovunque possibile, con il recupero dei materiali antichi”, ovvero la ricostruzione, “senza alterare la geometria originaria”.
Nella situazione in esame non è smentita l’esposizione dei fatti, effettuata dall’Amministrazione comunale, che riferisce di una Denuncia di Inizio Attività (DIA), presentata il 15 marzo 2005, per il rifacimento del lastrico solare dell’edificio, con temporanea installazione – “in via del tutto precaria e con dichiarazione di smontaggio a fine lavori” – di una “copertura in travi di legno e pannelli in lamiera….finalizzata esclusivamente al riparo…dei vani da scoperchiare a causa del rifacimento dell’intero solaio”. Successivamente, in data 12 luglio 2005, veniva presentata “ulteriore DIA in variante e parziale sanatoria”, per alcuni interventi murari e per l’installazione di un “pergolato ligneo”, che veniva in effetti legittimato, in quanto non contrastante con la normativa sopra citata.
Detto pergolato veniva reso oggetto, tuttavia, di nuovi lavori, per i quali il 7 aprile 2009 veniva emesso verbale di violazione edilizia (n.80/90), in cui si contestava la realizzazione di una “copertura formata da tavelloni lignei e sovrastanti coppi”; in tale verbale si dava però atto della pendenza, al riguardo, di istruttoria, conseguente all’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità. Sull’intervento si esprimeva poi favorevolmente la Soprintendenza, ma con la formale avvertenza che restava “demandata all’Amministrazione comunale la verifica, circa l’osservanza delle vigenti normative urbanistico-edilizie”.
Tale verifica conduceva dapprima a preavviso di diniego, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 e poi a conclusivo rigetto della domanda, per una struttura ritenuta in contrasto con il ricordato art. 33 NTA, in quanto non riconducibile a mero restauro, né a ipotetica ricostruzione, mancando seri supporti probatori circa la preesistenza del manufatto.
Tali argomentazioni appaiono condivisibili.
L’opera realizzata infatti – in base alla documentazione fotografica depositata – si presenta come un volume chiuso in muratura, realizzato sul lastrico solare di un edificio, con copertura lignea a falde spioventi, sormontata da tegole, delle dimensioni di m. 6.50 x 4.70 circa ed altezza al colmo di m. 3.55 circa. Tale struttura, realizzata in sopraelevazione del lastrico solare, ovvero all’esterno della sagoma esistente dell’edificio, potrebbe configurarsi senz’altro come “nuova costruzione”, ove realizzata “ex novo”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e).1 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia). Nel caso di specie, tuttavia, la sentenza appellata recepisce l’asserita natura “meramente conservativa” dell’intervento, con punti di riferimento distinti e, a ben vedere, difficilmente conciliabili fra loro: si richiamano infatti, da una parte, il preesistente pergolato ligneo, debitamente autorizzato e, dall’altra, “emergenze architettoniche…oltremodo diffuse nella zona ottocentesca della città di Bari”, sotto forma di volumi realizzati sui lastrici solari “con funzione di deposito/mansarda, detti suppigne”.
Sotto il primo profilo, tuttavia, l’intervento edilizio di cui si discute non appare conciliabile con la lettura riduttiva, secondo cui sarebbe stata effettuata la mera “copertura di un pergolato già autorizzato con tegole in cotto”. La parte appellata, in effetti, non ha depositato materiale fotografico, relativo al precedente stato dei luoghi, che tuttavia – tenuto conto della non contestata legittimà della struttura, in un primo tempo realizzata – deve ritenersi conforme alla disciplina urbanistica, che consentiva l’installazione di “pergole in legno” e vietava sia “verande chiuse”, sia “tettoie” sui lastrici solari del centro storico. La differenza fra “pergolato” e “tettoia” appare riconducibile al linguaggio comune, che individua la tettoia come una struttura pensile, addossata al muro o interamente sorretta da pilastri, di possibile maggiore consistenza e impatto visivo rispetto al pergolato (normalmente costituito, quest’ultimo, da una serie parallela di pali collegati da un’intelaiatura leggera, idonea a sostenere piante rampicanti o a costituire struttura ombreggiante, senza chiusure laterali).
Nella situazione in esame, la cartografia versata in atti rende già piuttosto evidente la maggiore leggerezza del pergolato autorizzato, rispetto alla pesante struttura in travi di legno e copertura in cotto, successivamente realizzata, così come emerge dalla documentazione fotografica l’effettiva costruzione di un “casotto” finestrato in muratura, con tetto a falde inclinate, in nessun modo assimilabile ad un “pergolato”, anche al di là della più consistente copertura.
Emerge da quanto sopra, pertanto, l’avvenuta realizzazione di un’opera nuova, che la stessa parte appellata tenta di ricondurre a risanamento conservativo (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera c del citato d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 10 delle N.T.A. al P.P. per la Città Vecchia), con riferimento non già alla pergola (di cui non appaiono più sussistenti i tratti identificativi), ma ad un manufatto denominato “suppigna” (intesa come costruzione presente, in genere, proprio su lastrici solari e terrazzi, adibita a soffitta o anche abitabile, a seconda dell’altezza).
Quest’ultima prospettazione – che è stata positivamente valutata in primo grado di giudizio – non appare tuttavia convincente, in quanto fondata su foto d’epoca, che indubbiamente mostrano la presenza di tali tipiche strutture architettoniche nel centro storico di Bari, già nei primi anni del 1900, senza tuttavia che emergano rappresentazioni chiaramente leggibili, riferite all’immobile di cui trattasi. Nella documentazione prodotta dalla parte interessata, infatti, si delineano meri indizi di ipotetica preesistenza, quali un “livello di pavimentazione sopraelevato, rispetto alle restanti porzioni del lastrico solare”, ovvero la “presenza di scalini a scendere per accedere ad altri terrazzi”, o ancora “muri di parapetto, delimitanti la suddetta porzione di lastrico solare sopraelevata, aventi uno spessore sovradimensionato per essere normali muretti d’attico, rimandando piuttosto ad una pregressa funzione portante”; nella stessa sentenza appellata, infine, detta preesistenza è ritenuta non accertata, ma “altamente verosimile”. Tale situazione di fatto non può ritenersi idonea a qualificare l’intervento effettuato come “risanamento conservativo”, quale intervento edilizio di maggior “peso”, consentito nell’area di cui trattasi. Detto intervento, implicante “rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali” dell’organismo edilizio, ai sensi del citato art. 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. n. 380 del 2001, non era evidentemente configurabile in rapporto ad un manufatto, di cui è incerta persino la preesistenza e le cui (presunte) caratteristiche restano del tutto ignote. Il Collegio ritiene, pertanto, che sia stata legittimamente negata una sanatoria, che la stessa parte interessata aveva richiesto in termini ambigui, quale “trasformazione in tettoia di una pergola” (come indicato – senza smentita di controparte – negli atti di istruttoria tecnica dell’Amministrazione comunale).
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con gli effetti precisati in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ritiene di poterne disporre la compensazione, tenuto conto delle valutazioni della Soprintendenza che – pur non incidendo sulle valutazioni, da effettuare in base alla normativa urbanistica – riconoscevano caratteristiche accettabili dell’intervento edilizio in questione, nel contesto urbanistico di riferimento.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Compensa le spese dei due gradi di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 gennaio 2015 con l’intervento dei magistrati:
(omissis)

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