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Penale Procedura Penale Sentenze

Corte Costituzionale, 6 aprile 2016, n. 125

Avv. Pietro Chimissodi Avv. Pietro Chimisso3 Giugno 2016Aggiornato il:3 Giugno 2016
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera m), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza del 5 settembre 2014, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza del 5 settembre 2014 (r.o. n. 105 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera m), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, «nella parte in cui prevede “624-bis del codice penale”».
Il giudice rimettente premette che, con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli dell’8 ottobre 2010, divenuta definitiva il 4 dicembre 2012, L.C. era stato condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e di 400 euro di multa, per il delitto previsto dagli artt. 624-bis e 61, numero 5), del codice penale, perché «si impossessava mediante strappo della borsa di D.A., fatto questo aggravato dall’aver profittato di circostanze oggettive – ora tarda – tali da ostacolare la pubblica e privata difesa».
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Napoli – prosegue il giudice a quo – aveva emesso, il 5 agosto 2013, l’ordine di esecuzione a carico di L.C. per la pena residua di cinque mesi e due giorni di reclusione e, contestualmente, aveva chiesto al Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale di sospenderlo, «dando una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 656 co. 9 lett. a) del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 lett. m) del decreto legge n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125», ovvero di sollevare una questione di legittimità costituzionale.
Secondo la prospettazione del giudice rimettente, l’istanza proposta dal pubblico ministero configura una richiesta di incidente di esecuzione in quanto riguarda l’efficacia in via transitoria del titolo esecutivo, e la richiesta sarebbe stata indirizzata correttamente perché il pubblico ministero non avrebbe, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la legittimazione a promuovere il giudizio di legittimità costituzionale. Il pubblico ministero sarebbe tenuto a sollecitare i poteri decisori del giudice competente a conoscere delle questioni relative al titolo esecutivo, che è appunto il giudice dell’esecuzione, ossia, nel caso di specie, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli.
La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto il pubblico ministero ha chiesto al giudice dell’esecuzione la sospensione dell’ordine di esecuzione, perciò dovrebbe trovare applicazione l’art. 656 cod. proc. pen.
La questione sarebbe inoltre non manifestamente infondata con riferimento all’art. 3 Cost., perché la norma impugnata sarebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità.
Ricostruito il quadro normativo di riferimento, il giudice rimettente osserva che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. preclude la sospensione dell’esecuzione delle pene detentive inferiori ai tre anni nei confronti dei condannati per il delitto di furto con strappo e non anche nei confronti dei condannati per il delitto di rapina, dato che «la rapina semplice […] non rientra tra i reati elencati nell’art. 4 bis L. 354/75», per i quali – in virtù di «una particolare capacità a delinquere» di chi li ha commessi presunta dal legislatore – non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione.
Ciò posto, secondo l’ordinanza di rimessione, «la paradossale scelta legislativa di prevedere una modalità esecutiva più gravosa per il condannato per il furto con strappo comporta che l’eventuale condotta ulteriore di minaccia o violenza rispetto a due fattispecie identiche consentirebbe a chi l’ha commessa di poter beneficiare, in fase di esecuzione, del decreto di sospensione dell’esecuzione, diversamente da colui che si sia limitato a commettere un’azione volta all’impossessamento, con violenza sulla cosa, e tuttavia priva di violenza o minaccia alla persona».
L’irragionevolezza della norma censurata emergerebbe anche «dal fatto che è considerato pericoloso – e dunque meritevole della carcerazione – chi ha commesso un reato di modesta gravità ed ha riportato condanna ad una pena detentiva breve, a differenza del soggetto il quale si sia reso responsabile di un reato più grave e perciò sia stato condannato ad una pena detentiva elevata, tenuto conto che il limite di tre anni, previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. ai fini della sospensione dell’esecuzione trova applicazione anche con riguardo alle pene residue».
La questione, conclude il giudice a quo, sarebbe non manifestamente infondata pure con riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «[l]’applicazione rigida ed automatica della detenzione carceraria […], senza possibilità di una valutazione da parte del Tribunale di Sorveglianza dell’idoneità ed opportunità di eventuali misure alternative alla detenzione, risulta in contrasto con la finalità rieducativa della pena».
Peraltro, l’istituto della sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi troverebbe giustificazione proprio nella finalità rieducativa della pena, essendo volto ad evitare l’impatto con la struttura carceraria, e si fonderebbe su una presunzione di scarsa pericolosità sociale basata sull’entità della pena irrogata. «[S]immetricamente, i divieti alla sospensione dell’esecuzione previsti dall’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., sono fondati sulla presunzione di pericolosità in relazione al titolo del reato, alla gravità della sanzione edittale o al particolare allarme sociale destato da talune condotte criminose, cui si affiancano condizioni d’accertata pericolosità».
Nel caso di specie, la norma censurata avrebbe introdotto «una aprioristica presunzione di pericolosità del tutto eccentrica nel sistema dell’esecuzione penale delle pene detentive brevi, con conseguenze paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con i principi di uguaglianza e della finalità necessariamente rieducativa della pena».
2.– È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 30 giugno 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata.
Secondo la difesa dello Stato, la questione coinvolgerebbe scelte discrezionali, riservate al legislatore perché relative alle condotte punibili e alla quantificazione delle relative sanzioni, che sono sindacabili solo nel caso di manifesta irragionevolezza.
Nel caso di specie, «la scelta compiuta dal legislatore [non sarebbe] connotata da irragionevolezza», in quanto persegue l’obiettivo di politica criminale volto a «fronteggiare taluni problemi di ordine e sicurezza pubblica causati da gravissimi fenomeni di criminalità, anche di natura locale, tali da determinare un grave senso di insicurezza e di timore nella popolazione».
3.– Con memoria difensiva depositata in prossimità della camera di consiglio, la difesa dello Stato ha ribadito la ragionevolezza della scelta legislativa di precludere la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei condannati per determinati delitti, «tenuto conto di una particolare e maggiormente qualificata offensività dei reati di furto e di furto con strappo rispetto ad altre fattispecie penali».
La norma censurata inoltre non potrebbe essere ritenuta incompatibile con la finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera m), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, «nella parte in cui prevede “624-bis del codice penale”».
L’art. 624-bis del codice penale disciplina due reati, il furto in abitazione e il furto con strappo, ma la questione riguarda solo il secondo reato. Il giudice rimettente, infatti, denuncia la violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità sanciti dall’art. 3 Cost, rilevando che, mentre per il furto con strappo l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. vieta la sospensione dell’esecuzione, un uguale divieto non è previsto per la rapina semplice.
Secondo l’ordinanza di rimessione, «la paradossale scelta legislativa di prevedere una modalità esecutiva più gravosa per il condannato per il furto con strappo comporta che l’eventuale condotta ulteriore di minaccia o violenza rispetto a due fattispecie identiche consentirebbe a chi l’ha commessa di poter beneficiare, in fase di esecuzione, del decreto di sospensione dell’esecuzione, diversamente da colui che si sia limitato a commettere un’azione volta all’impossessamento, con violenza sulla cosa, e tuttavia priva di violenza o minaccia alla persona». Da ciò la violazione del principio di uguaglianza e la manifesta irragionevolezza della norma censurata.
L’irragionevolezza emergerebbe anche «dal fatto che è considerato pericoloso – e dunque meritevole della carcerazione – chi ha commesso un reato di modesta gravità ed ha riportato condanna ad una pena detentiva breve, a differenza del soggetto il quale si sia reso responsabile di un reato più grave e perciò sia stato condannato ad una pena detentiva elevata, tenuto conto che il limite di tre anni, previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. ai fini della sospensione dell’esecuzione trova applicazione anche con riguardo alle pene residue».
Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata violerebbe pure l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto – essendo fondati «i divieti alla sospensione dell’esecuzione previsti dall’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. […] sulla presunzione di pericolosità in relazione al titolo del reato, alla gravità della sanzione edittale o al particolare allarme sociale destato da talune condotte criminose» – essa avrebbe introdotto «una aprioristica presunzione di pericolosità del tutto eccentrica nel sistema dell’esecuzione penale delle pene detentive brevi, con conseguenze paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con i principi di uguaglianza e della finalità necessariamente rieducativa della pena».
2.– La questione è fondata.
La lettera a) del comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen. stabilisce che per i condannati per i delitti di cui all’art. 624-bis cod. pen. non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione prevista dal precedente comma 5. Per contro, la disposizione in esame non contiene un’analoga previsione nei confronti dei condannati per il delitto di rapina.
Questo delitto, inoltre, non rientra neanche nell’elenco dei reati di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), per i quali pure non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione: in tale elenco, infatti, figura solo la rapina aggravata, prevista dall’art. 628, terzo comma, cod. pen.
La distinzione tra la fattispecie incriminatrice del furto con strappo (art. 624-bis, secondo comma, cod. pen.) e quella della rapina (art. 628 cod. pen.) risiede nella diversa direzione della violenza esplicata dall’agente. Sussiste un furto con strappo quando la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa, e solo indirettamente verso la persona che la detiene; costituisce invece una rapina l’impossessamento della cosa mobile altrui mediante una violenza diretta sulla persona.
Nel furto con strappo la vittima può risentire della violenza solamente in modo riflesso, come effetto della violenza impiegata sulla cosa per strapparla di mano o di dosso alla persona, mentre nella rapina la violenza alla persona costituisce il mezzo attraverso il quale avviene la sottrazione. Così, se lo strappo non basta per ottenere l’impossessamento e viene di conseguenza esercitata una violenza sulla persona, è ravvisabile una rapina.
Non sono rari i casi in cui, nel progredire dell’azione delittuosa, il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessità di vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria, per la necessità di contrastare la reazione della vittima dopo la sottrazione della cosa. In questi casi, tra il furto con strappo e la rapina si verifica una progressione nell’offesa, in quanto la lesione si estende dal patrimonio alla persona, giungendo a metterne in pericolo anche l’integrità fisica, ed è incongrua la normativa che, pur prevedendo per la rapina una pena assai più grave, riconosce a chi ne è autore un trattamento più vantaggioso in sede di esecuzione della pena.
Questa Corte ha già chiarito che l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., laddove pone il divieto della sospensione dell’esecuzione prevista dal comma 5 dello stesso articolo, si fonda su una «presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo» indicato in tale lettera (ordinanza n. 166 del 2010), e con ragione il giudice rimettente ha rilevato che gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina.
La disparità di trattamento perciò non si giustifica, non tanto per la maggiore gravità della rapina rispetto al furto con strappo, quanto per le caratteristiche dei due reati, che non consentono di assegnare all’autore di un furto con strappo una pericolosità maggiore di quella riscontrabile nell’autore di una rapina attuata mediante violenza alla persona.
Deve pertanto concludersi che la censura nei confronti dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., formulata dal giudice rimettente per la violazione dell’art. 3 Cost., è fondata, e che di conseguenza va dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto con strappo.
Resta assorbita la censura relativa all’art. 27, terzo comma, Cost.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera m), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto con strappo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2016.

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