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Affari costituzionali Sentenze

Corte Costituzionale, 20 settembre 2012, n. 218

Redazionedi Redazione20 Settembre 2012
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

Ritenuto
che, con ricorso depositato il 30 luglio 2012, il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione» – in particolare, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione telefonica, effettuata su utenza di altra persona nell’ambito di un procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica di Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni dello stesso Presidente della Repubblica;
che il ricorrente riferisce di come, con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, abbia chiesto al dott. Francesco Messineo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, «una conferma o una smentita» di quanto emergerebbe dalle dichiarazioni rese dal Sostituto procuratore Antonino Di Matteo nel corso di una intervista rilasciata alla giornalista Alessandra Ziniti e pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012: ossia che sarebbero state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, considerate allo stato irrilevanti, ma che la Procura di Palermo si sarebbe riservata di utilizzare;
che, con nota del 6 luglio 2012, il Procuratore della Repubblica – allegando una missiva del giorno precedente, con la quale il dott. Di Matteo aveva rappresentato come, in risposta ad una domanda «assolutamente generica» della giornalista sulla sorte delle intercettazioni effettuate, egli si fosse limitato «all’ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di intercettazione telefonica» – aveva comunicato che l’Ufficio da lui diretto, «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va] alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge»;
che con successiva nota, diffusa il 9 luglio 2012, e con lettera pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» l’11 luglio 2012, il dott. Messineo aveva ulteriormente affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione»; aggiungendo che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti»;
che, ad avviso del ricorrente, la tesi del Procuratore palermitano non sarebbe condivisibile, in quanto, alla luce dell’art. 90 Cost. e dell’art. 7 della legge n. 219 del 1989 – salvi i casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con l’applicazione del regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d’accusa – le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché «indirette» od «occasionali», dovrebbero ritenersi radicalmente vietate;
che detto divieto sarebbe, infatti, insito nella previsione dell’art. 90 Cost., in forza della quale «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione», ipotesi nelle quali «è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri»;
che l’immunità prevista dalla norma costituzionale non consiste, infatti, solo in una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti dal Presidente della Repubblica nell’esercizio delle proprie funzioni, ma anche in una irresponsabilità politica, diretta a garantire la piena libertà e la sicurezza di tutte le modalità di esercizio delle funzioni presidenziali;
che, lungi dal costituire un «inammissibile privilegio», legato ad esperienze ormai definitivamente superate e tale da incrinare il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’immunità in questione risulterebbe strumentale all’espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione demanda al Presidente della Repubblica, nella sua veste di Capo dello Stato e di rappresentante dell’unità nazionale, intesi ad assicurare in modo imparziale, insieme agli altri organi di garanzia, il corretto funzionamento del sistema istituzionale e la tutela degli interessi permanenti della Nazione: prospettiva nella quale la statuizione dell’art. 90 Cost. rappresenterebbe anche un limite alle attribuzioni degli altri poteri dello Stato;
che sarebbe, peraltro, del tutto evidente come, nello svolgimento dei predetti compiti, debba essere garantito al Presidente della Repubblica «il massimo di libertà di azione e di riservatezza», anche perché alcune delle attività che egli pone in essere nel perseguimento delle finalità costituzionali – e di non poco significato – «non hanno un carattere formalizzato»;
che la conseguente impossibilità di sottoporre a limitazioni la libertà di comunicazione del Presidente risulterebbe confermata dall’interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria che, in attuazione dei principi costituzionali, ne disciplinano la posizione;
che, infatti, l’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 – disposizione contenuta in una fonte legislativa esplicitamente «connessa» alle previsioni dell’art. 90 Cost., così da assumere un «ruolo integrativo» della norma costituzionale – vieta in modo assoluto di disporre l’intercettazione di conversazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica;
che, pur essendo il divieto sancito con riferimento ai soli reati per i quali, in base all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa, avuto riguardo alla intercettazione «diretta» delle sue conversazioni, sarebbe «naturale» la concomitanza di un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare (e, se del caso, di utilizzare) anche le comunicazioni captate in modo indiretto o casuale, trattandosi di attività egualmente idonea a ledere la sfera di immunità del Capo dello Stato;
che il divieto assoluto di ricorso ai mezzi in questione di ricerca della prova, enunciato in rapporto ai reati presidenziali, dovrebbe evidentemente estendersi, inoltre, pur nel silenzio della legge, ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente;
che, a maggior ragione, dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di conversazioni del Capo dello Stato intercettate occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati al medesimo non addebitabili, come sarebbe avvenuto nel caso in esame;
che, in conclusione, il divieto di intercettazione riguarderebbe anche le cosiddette intercettazioni indirette o casuali, comunque effettuate mentre il Presidente della Repubblica è in carica;
che, per tale ragione, i risultati delle intercettazioni operate malgrado il divieto sarebbero assolutamente inutilizzabili e la relativa documentazione dovrebbe essere immediatamente distrutta ai sensi dell’art. 271 cod. proc. pen., trattandosi di intercettazioni eseguite «fuori dei casi consentiti della legge»;
che rimarrebbe inapplicabile, di conseguenza, la procedura di selezione delle conversazioni nel contraddittorio tra le parti, delineata dall’art. 268, comma 4 e seguenti, cod. proc. pen., in vista della trascrizione e dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento;
che non sarebbe, del pari, riferibile all’ipotesi in questione la previsione dell’art. 269 cod. proc. pen., inerente all’obbligo di conservazione integrale dei verbali e delle registrazioni fino alla sentenza non più soggetta ad impugnazione, salva la possibilità per il giudice di disporre in apposita udienza camerale la distruzione della documentazione non necessaria ai fini del procedimento, ove richiesta dagli interessati a tutela della riservatezza;
che neppure sarebbe ipotizzabile, d’altra parte, l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, secondo quanto previsto dall’art. 270 cod. proc. pen.;
che alla fattispecie considerata, infine, non sarebbe applicabile l’art. 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), che disciplina le intercettazioni indirette o casuali di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, non potendo la posizione del Presidente della Repubblica essere assimilata a quella del parlamentare;
che, infatti, solo i membri del Parlamento, e non anche il Capo dello Stato, possono essere sottoposti ad intercettazione da parte del giudice ordinario, previa autorizzazione della Camera di appartenenza, e solo ai parlamentari si riferisce il citato art. 6 della legge n. 140 del 2003, quando stabilisce la necessità dell’autorizzazione «successiva» per l’utilizzazione delle intercettazioni indirette o casuali;
che la Corte costituzionale, d’altro canto, nel dichiarare, con la sentenza n. 390 del 2007, l’illegittimità costituzionale parziale della norma ora indicata, ha escluso che l’autorizzazione sia necessaria quando le intercettazioni occasionali debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal parlamentare, confermando, così, che la disciplina della legge n. 140 del 2003 concerne solo le comunicazioni dei componenti delle due Camere;
che, più in generale, riguardo alle intercettazioni occasionali eseguite nel corso di indagini concernenti reati ascritti ad altri soggetti, la tutela del parlamentare risponderebbe ad una ratio diversa da quella della tutela del Presidente della Repubblica: rispetto al Presidente, detta ratio risiederebbe nella salvaguardia della funzione; per il parlamentare, invece, nella sola protezione della sua riservatezza, per la quale – come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 390 del 2007 – sarebbero ingiustificati livelli di tutela più elevati di quelli assicurati ad ogni altro cittadino, non ricorrendo un pregiudizio per la funzionalità della Camera di appartenenza, unico presupposto dell’autorizzazione prevista dall’art. 68 Cost.;
che, alla stregua delle considerazioni che precedono, sussisterebbero nella fattispecie che dà origine al conflitto «precisi elementi oggettivi di prova» del non corretto uso dei propri poteri da parte della Procura della Repubblica di Palermo, in termini lesivi delle attribuzioni costituzionali del ricorrente: elementi consistenti nell’avere «quantomeno» registrato le intercettazioni nelle quali era casualmente e indirettamente coinvolto il Presidente della Repubblica, unitamente alle circostanze – «pacifiche e non contestate» – che il testo delle telefonate è agli atti del procedimento, che ne è stata addirittura valutata la «(ir)rilevanza» ai fini del procedimento in corso e – soprattutto – che si ipotizza lo svolgimento di un’udienza secondo le modalità indicate dall’art. 268 cod. proc. pen. per ottenerne l’acquisizione o la distruzione; procedimento che, implicando l’instaurazione di un contraddittorio fra le parti sul punto, aggraverebbe gli effetti lesivi delle precedenti condotte, rendendoli definitivi;
che il ricorrente Presidente della Repubblica chiede, pertanto, alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo «omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente della Repubblica» di cui si discute, né valutarne la «(ir)rilevanza», sottoponendole all’«udienza stralcio» disciplinata dall’art. 268 cod. proc. pen.
Diritto
Considerato
che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a svolgere, senza contraddittorio, una delibazione preliminare di ammissibilità del ricorso, concernente l’esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, con riferimento ai requisiti soggettivi ed oggettivi indicati dal primo comma dello stesso art. 37, fermo restando che tale valutazione preliminare e interlocutoria lascia impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione, anche in relazione alla stessa ammissibilità del ricorso;
che, nella specie, per quanto attiene all’aspetto soggettivo, la natura di potere dello Stato e la conseguente legittimazione del Presidente della Repubblica ad avvalersi dello strumento del conflitto a tutela delle proprie attribuzioni costituzionali sono state più volte riconosciute, in modo univoco, nella giurisprudenza di questa Corte ( sentenze n. 200 del 2006 e n. 129 del 1981; ordinanze n. 354 del 2005 e n. 150 del 1980);
che questa Corte ha del pari riconosciuto, con giurisprudenza costante, la natura di potere dello Stato al pubblico ministero, in quanto investito dell’attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 della Costituzione), cui si connette la titolarità delle indagini ad esso finalizzate (ex plurimis, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011), ritenendo, altresì, legittimato ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto di attribuzione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, in quanto competente a dichiarare definitivamente, nell’assolvimento della ricordata funzione, la volontà del potere cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999);
che, sotto il profilo oggettivo, il ricorso è proposto a salvaguardia di prerogative del Presidente della Repubblica che sono prospettate come insite nella garanzia dell’immunità prevista dall’art. 90 Cost. e nelle disposizioni di legge ordinaria ad essa collegate, a fronte di lesioni in assunto realizzate o prefigurate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo nello svolgimento dei propri compiti;
che deve ritenersi dunque sussistente, allo stato – salvo il definitivo giudizio all’esito dell’instaurazione del contraddittorio – la materia di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Presidente della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, con il ricorso indicato in epigrafe;
vista l’istanza di sollecita trattazione del ricorso formulata dalla Parte ricorrente;
visto il decreto, in data odierna, del Presidente della Corte costituzionale, con il quale sono ridotti i termini del procedimento,
dispone:
a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente Presidente della Repubblica;
b) che, a cura del ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, nella cancelleria di questa Corte entro il termine di quindici giorni dalla notificazione, a norma dell’art. 24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2012.
Depositata in segreteria il 20 set. 2012.

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