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Diritti fondamentali della persona Ordine pubblico Sanità Sentenze

Corte Costituzionale, 5 giugno 2015, n. 96

Redazionedi Redazione12 Novembre 2015Aggiornato il:12 Novembre 2015
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iscrizione contemporanea a due albi professionali


Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di due procedimenti civili “ante causam” ex art. 700 cod. proc. civ. ‒ promossi (nei confronti della Azienda USL Roma A e del “Centro per la Tutela della Salute della Donna e del Bambino S. Anna”) da altrettante coppie di coniugi, che chiedevano di essere ammesse a procedure di procreazione medicalmente assistita, con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere, ai rispettivi figli, la malattia genetica da cui, in entrambi i casi, uno dei componenti della coppia era risultato affetto in occasione di precedente gravidanza spontanea, interrotta con aborto terapeutico – l’adito Tribunale ordinario di Roma, con due ordinanze di identico contenuto motivazionale, premesso che la richiesta dei ricorrenti trovava insuperabile ostacolo nel disposto degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), che consente alle sole coppie sterili o infertili l’accesso alle tecniche di procreazione assistita, ed escluso che detta normativa sia suscettibile di interpretazione adeguatrice (in senso ampliativo della platea dei suoi destinatari) o di dirett’non applicazione”, per contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), ha ritenuto, di conseguenza, rilevante e non manifestamente infondata, ed ha, quindi, sollevato (come, a suo avviso, consentito anche nei procedimenti cautelari “ante causam”) questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, oltre che con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU.
Secondo il rimettente, la normativa censurata – non consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche alle coppie (come quelle innanzi a sé ricorrenti) che, pur non sterili od infertili, rischierebbero, comunque, di procreare figli affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili, di cui uno od entrambi i componenti della stessa risultano portatori – contrasterebbe, infatti, con il diritto inviolabile della coppia ad avere un figlio “sano” e con il diritto ad autodeterminarsi nella scelta procreativa; violerebbe, inoltre, il diritto alla salute (fisica e psichica) della donna (costretta a subire l’interruzione volontaria della gravidanza nel caso di accertata trasmissione al feto di patologie genetiche); contrasterebbe, ancora, con il principio di ragionevolezza, con riferimento al quadro normativo risultante dalla combinazione di detta legge n. 40 del 2004 con la legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza); comporterebbe, infine, una indebita e non proporzionata ingerenza nella vita privata e familiare delle coppie suddette, in violazione anche dei citati artt. 8 e 14 della CEDU e, quindi, per interposizione, dell’art. 117, primo comma, Cost.


2.‒ In entrambi i giudizi innanzi a questa Corte si sono costituiti i coniugi ricorrenti e le associazioni “Luca Coscioni, per la libertà della ricerca scientifica”, “Amica Cicogna Onlus”, “Cerco un Bimbo” e “L’altra Cicogna”, intervenienti nei procedimenti a quibus, per sostenere la fondatezza delle questioni sollevate dal Tribunale rimettente, con argomentazioni illustrate anche con rispettive successive memorie.
Non si sono costituiti, invece, l’Azienda USL Roma A ed il “Centro per la Tutela della Salute della Donna e del Bambino S. Anna”, resistenti, e non ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.


3. – Stante l’identità della questione sollevata nei due riferiti giudizi, gli stessi vanno riuniti per essere congiuntamente decisi.



Diritto


1. – Gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), rispettivamente, dispongono che «Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito»; «Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito, qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità»; «Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».


2. – Il Tribunale ordinario di Roma dubita che le riferite disposizioni – nella parte in cui non consentono che anche le coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili possano fare ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (da ora in avanti, PMA) ‒ violino gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nonché l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU).


3. – La questione è sollevata con due ordinanze, di identico contenuto, relative ad altrettanti procedimenti cautelari promossi da due coppie (fertili) di coniugi, che avevano interrotto, con aborti terapeutici, precedenti spontanee gravidanze, per il rischio di trasmettere al figlio una patologia genetica ereditaria (rispettivamente, la distrofia muscolare di Becker, nel primo caso, ed una alterazione cromosomica, nel secondo caso), e che chiedevano, pertanto, di essere in via d’urgenza ammesse a procedura di PMA, con diagnosi preimpianto, finalizzata esclusivamente alla scelta dell’embrione non affetto da quella specifica patologia.


4. – Esclusa, in premessa, la possibilità della disapplicazione delle norme sospettate di incostituzionalità per contrasto con la CEDU (anche malgrado la sopravvenuta decisione della Corte di Strasburgo del 28 agosto 2012 che, nell’omologo caso Costa e Pavan contro Italia «ha denunciato l’incoerenza del sistema legislativo italiano che […] non consente alle coppie portatrici di patologie geneticamente trasmissibili di accedere all’P.M.A.”») e considerata la non praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme stesse, nel senso auspicato dai ricorrenti, il Tribunale a quo ha ritenuto, appunto, per ciò, rilevante al fine del decidere la verifica di compatibilità con i parametri evocati, del limite, all’accesso alle tecniche di PMA, imposto dal legislatore del 2004 in ragione della prescritta condizione di sterilità od infertilità della coppia.


5. – Secondo il rimettente, la normativa denunciata contrasterebbe, infatti:
‒ con l’art. 2 Cost., per il vulnus ai diritti inviolabili della persona, quali «il diritto della coppia a un figlio “sano” e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative », che irrimediabilmente deriverebbe, dal censurato divieto di accesso alle procedure di PMA, alle coppie non sterili o infertili, ma portatrici di malattie genetiche trasmissibili;
‒ con l’art. 3 Cost., «inteso come principio di ragionevolezza, quale corollario del principio di uguaglianza, in quanto comporta la conseguenza paradossale, irragionevole e incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto dalla patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta tragica dell’aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194»;
‒ con lo stesso art. 3 Cost., sul presupposto che il suddetto divieto determinerebbe una discriminazione tra la condizione delle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, e quella delle coppie in cui l’uomo risulti affetto da malattie virali contagiose per via sessuale, alle quali è, invece, riconosciuto, dal decreto del Ministero della salute 11 aprile 2008 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), il diritto di ricorrere alle tecniche di PMA;
‒ con l’art. 32 Cost., risultando leso il diritto alla salute della donna, sotto il profilo che la stessa, nell’esercitare la scelta di procreare un figlio non affetto da una patologia trasmissibile ereditariamente, sarebbe costretta a dover affrontare una gravidanza naturale per poi dover, eventualmente, ricorrere ad un aborto terapeutico (nel caso di accertata trasmissione della malattia genetica), con la configurazione di un concreto aumento dei rischi per la sua salute fisica e per la sua integrità psichica, «in assenza di un adeguato bilanciamento della tutela della salute della donna con quella dell’embrione»;
‒ con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 14 (sul divieto di discriminazione) della CEDU: quanto alla prima, perché l’irragionevolezza” del divieto di accesso alla PMA imposto alle coppie sterili portatrici di malattie ereditarie, «che di fatto si risolve nell’incoraggiamento del ricorso all’aborto del feto», comporterebbe, appunto, una indebita ingerenza nella vita familiare di dette coppie; e, quanto alla seconda, in ragione della discriminazione già evidenziata per il profilo di violazione dell’art. 3 Cost.


6. – La questione così prospettata è ammissibile, ancorché sollevata nel contesto di procedimenti d’urgenz’ante causam”, non avendo il Tribunale a quo provveduto in via definitiva sulla istanza cautelare dei ricorrenti, e non avendo, per ciò, consumato la sua potestas iudicandi (ex plurimis, sentenze n. 200 e n. 162 del 2014, n. 172 del 2012, n. 151 del 2009).


7. – In ragione del sospettato contrasto dei su citati artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004 con gli artt. 8 e 14 della CEDU, correttamente ha poi il rimettente adito questa Corte, non essendogli consentito un’applicazione in via diretta delle norme convenzionali in luogo di quelle nazionali, in tesi con esse non compatibili, atteso che, diversamente dal diritto comunitario, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sovranazionale ma costituisce un modello di diritto internazionale pattizio, idoneo a vincolare lo Stato, ma improduttivo di effetti diretti nell’ordinamento interno (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007, e successive conformi). Collocazione, questa, delle disposizioni della CEDU che, nel sistema delle fonti, resta immutata anche dopo il richiamo operatone dall’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
Questa Corte ha già avuto, infatti, occasione di chiarire che «dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario non può farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze n. 303 del 2011 e n. 349 del 2007). Ragione per cui «i princìpi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile» (sentenze n. 210 del 2013, n. 303 e n. 80 del 2011) e, poiché le fattispecie, oggetto dei giudizi a quibus, non sono riconducibili al diritto comunitario, non vi era, dunque, effettivamente, spazio per un’eventuale disapplicazione della normativa nazionale da parte del Tribunale rimettente, da ritenersi oltretutto limitata ai casi in cui il diritto comunitario rilevante sia dotato di effetti diretti.


8. – Altrettanto correttamente lo stesso Tribunale ha anche escluso la praticabilità di una esegesi correttiva delle disposizioni censurate, in senso estensivo dell’accesso alle tecniche di PMA, anche in favore delle coppie ricorrenti, atteso l’univoco e non superabile tenore letterale della prescrizione per cui il ricorso a dette tecniche «è comunque circoscritto ai casi di sterilità o infertilità».
Dal che la rilevanza della questione sollevata, la cui soluzione condiziona, quindi, l’accoglimento o meno della domanda dei ricorrenti nei procedimenti cautelari a quibus.

9. – Nel merito, la questione è fondata, in relazione al profilo – assorbente di ogni altra censura – che attiene al vulnus effettivamente arrecato, dalla normativa denunciata, agli artt. 3 e 32 Cost.
Sussiste, in primo luogo, un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni. E ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella richiamata sentenza Costa e Pavan contro Italia), il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) – quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto «accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Vale a dire che il sistema normativo, cui danno luogo le disposizioni censurate, non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute.
Dal che, quindi, la violazione anche dell’art. 32 Cost., in cui incorre la normativa in esame, per il mancato rispetto del diritto alla salute della donna. Senza peraltro che il vulnus, così arrecato a tale diritto, possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto.
La normativa denunciata costituisce, pertanto, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento – ed è lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria – nella parte in cui non consente, e dunque esclude, che, nel quadro di disciplina della legge in esame, possano ricorrere alla PMA le coppie affette da patologie siffatte, adeguatamente accertate, per esigenza di cautela, da apposita struttura pubblica specializzata. Ciò al fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del medesimo “criterio normativo di gravità” già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978.


10. – Una volta accertato che, in ragione dell’assolutezza della riferita esclusione, le disposizioni in questione si pongono in contrasto con parametri costituzionali «questa Corte non può, dunque, sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiararne l’illegittimità» (sentenza n. 162 del 2014), essendo poi compito del legislatore introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa). Ciò non essendo, evidentemente, in potere di questa Corte, per essere riservato alla discrezionalità delle scelte, appunto, del legislatore.



PQM



LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 maggio 2015.
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2015.

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