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TAR Lazio Roma, sez.I, 16 maggio 2012 n. 4455

Redazionedi Redazione31 Maggio 2015
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iscrizione contemporanea a due albi professionali

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1515 del 2012, proposto da:
SOC APPLE ITALIA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Riccardo Villata, dall’Avv. Andrea Cicala, dall’Avv. Francesco Goisis, dall’Avv. Pierpaolo Di Lorenzo, con domicilio eletto presso lo Studio dell’Avv. Riccardo Villata sito in Roma, Via L.Bissolati, 76;
contro
l’AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO – ANTITRUST, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
– l’ASSOCIAZIONE ALTROCONSUMO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Guido Scorza, dall’Avv. Carmelo Giurdanella e dall’Avv. Dario Reccia, con domicilio eletto presso lo Studio Scorza Riccio & Partners sito in Roma, Via dei Barbieri, 6;
per l’annullamento
1) del provvedimento n. 23155 (caso PS/7256) dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato adottato in data 21 dicembre 2011 e notificato ad AI in data 27 dicembre 2011, con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha accertato che AI ha posto in essere due asserite pratiche commerciali scorrette in violazione rispettivamente i) degli artt. 20, 21, 22 e 23, comma 1 lettera l), 24 e 25 lettera d) e ii) degli artt. 20, 21, 22 e 23, comma 1 lettera l), del Decreto Legislativo 6.9.2005, n. 206 e successive modificazioni, recante il “Codice del Consumo”, condannando altresì la ricorrente al pagamento di sanzioni amministrative, nonché
2) di ogni altro atto presupposto, consequenziale e/o connesso con il provvedimento, ivi inclusi, per quanto necessario, il regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette, emanato con delibera 15 novembre 2007, n. 17589 dell’AGCOM, e modificato con successive delibere e le decisioni di rigetto degli impegni proposti dalla ricorrente.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust e dell’Associazione Altroconsumo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 maggio 2012 il Consigliere Elena Stanizzi e uditi, per le parti, l’Avv. Riccardo Villata e l’Avv. Guido Scorza per la parte ricorrente, l’Avv. dello Stato Agnese Soldani per l’Amministrazione resistente e l’Avv. Guido Scorza per l’Associazione Altrocunsumo, come specificato nel verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Illustra preliminarmente la società odierna ricorrente la scansione del procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera, con la quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha ritenuto la scorrettezza di due distinte pratiche commerciali, l’una inerente le informazioni fornite ai consumatori presso i punti vendita e sui siti internet dei professionisti sanzionati sul contenuto e sull’esercizio del diritto alla garanzia legale biennale in caso di difetto di conformità dei beni di consumo, e l’altra relativa alle informazioni fornite sulla natura e sul contenuto dei servizi aggiuntivi offerti ai consumatori, in parte sovrapponibili ai diritti agli stessi spettanti sulla base della garanzia legale, di cui non venivano adeguatamente informati, irrogando ai professionisti appartenenti al gruppo Apple la sanzione di € 400.000 per la prima delle pratiche, di cui € 80.000 a carico della ricorrente, e di € 500.000 per la seconda delle pratiche, di cui € 100.000 a carico della ricorrente.
Avverso la gravata delibera deduce parte ricorrente i seguenti motivi di censura:
1) – CENSURE IN MERITO ALL’ACCERTAMENTO DEI FATTI ED ALLE CONCLUSIONI IN DIRITTO DELL’AGCM RIGUARDO ALLA PRATICA ‘À.
I – IN RELAZIONE ALL’APPREZZAMENTO DELLE INFORMAZIONI FORNITE DALLE SOCIETÀ DEL GRUPPO APPLE SULLA GARANZIA LEGALE: VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEGITTIMO AFFIDAMENTO; VIOLAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981 E DEI PRINCIPI IN TEMA DI IMPUTABILITÀ SOGGETTIVA DEGLI ILLECITI AMMINISTRATIVI; ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO ED ERRONEA VALUTAZIONE DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ, VIOLAZIONE DELL’ART. 97 DELLA COSTITUZIONE; DIFETTO DI MOTIVAZIONE; VIOLAZIONE DELL’ART. 14 DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981 E COMUNQUE DEL DIRITTO ALLA FORMAZIONE DI UN TEMPESTIVO CONTRADDITTORIO, NEL PIÙ BREVE TEMPO POSSIBILE, EX ART. 6, COMMA 2, LETTERA A) CEDU E ART. 47 DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, VIOLAZIONE DELL’ART. 27, COMMA 11, DEL CODICE DEL CONSUMO, VIOLAZIONE DEL XXV CONSIDERANDO DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE, VIOLAZIONE DELL’ART. 47 DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA.
a) CON RIGUARDO ALL’APPREZZAMENTO DELLE INFORMAZIONI FORNITE DALLE SOCIETÀ DEL GRUPPO APPLE SULLA GARANZIA LEGALE.
Avuto riguardo alle considerazioni espresse dall’Autorità circa l’insufficienza delle informazioni fornite in merito alla garanzia legale nei “Termini e Condizioni di vendita” dell’Apple On-line Store, sul modulo di presa in consegna dei prodotti da riparare presso gli Apple Stores e nel documento per la formazione interna del personale, osserva parte ricorrente come tale documentazione fosse già stata trasmessa all’Autorità e da questa esaminata nell’ambito di due procedimenti preistruttori chiusi prima dell’avvio del procedimento PS7256, lamentando su tale base l’intervenuta violazione del carattere necessariamente soggettivo della responsabilità amministrativa – stante la conseguente buona fede in ordine alla legittimità delle pratiche – e la violazione del legittimo affidamento maturato sulla liceità della condotta.
Avendo parte ricorrente già formulato tali rilievi nel corso del procedimento, contesta ora le osservazioni con cui l’Autorità ha delibato in ordine agli stessi, contrastando l’affermazione, secondo cui il breve lasso di tempo intercorso tra la chiusura dei due precedenti procedimenti e l’avvio del nuovo procedimento sarebbe stato inidoneo a radicare un legittimo affidamento, attraverso l’allegazione della lunga durata delle preistruttorie e del lungo periodo di tempo in cui l’Autorità ha avuto la disponibilità della medesima documentazione su cui si basa il formulato giudizio di scorrettezza di cui alla gravata delibera, senza che peraltro l’Autorità abbia mai chiesto chiarimenti sulle condizioni generali di vendita e sulle informazioni rese con riferimento alle garanzie.
Contesta, altresì, parte ricorrente il rilievo dell’Autorità secondo cui le precedenti preistruttorie riguardassero casi specifici, significando come l’Autorità avesse comunque acquisito le medesime informazioni e documenti contrattuali esaminati nel corso del procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera, così essendo in condizione di valutare l’operato delle società appartenenti al gruppo Apple, che in quei casi è stato giudicato legittimo, con conseguente illegittimità del tardivo ripensamento dell’Autorità e contraddittorietà dello stesso con le precedenti valutazioni.
Con riferimento alla ritenuta insufficienza del quadro informativo fornito in materia di garanzia legale, ne evidenzia parte ricorrente la tardività nonché la contrarietà al dato normativo, il quale impone unicamente un richiamo alla garanzia legale, puntualmente presente sulle condizioni generali di vendita, sugli scontrini e nelle condizioni di riparazione.
b) IN MERITO ALL’ASSERITA ESCLUSIONE DELLA GARANZIA LEGALE SUI PRODOTTI DI TERZI.
Sarebbe frutto di un travisamento dei fatti il rilievo dell’Autorità secondo cui non sarebbe riconosciuta la garanzia legale per i prodotti venduti non a marchio Apple, riferendosi tale esclusione alla sola garanzia convenzionale di 1 anno Apple.
c) IN MERITO ALLA VIOLAZIONE DELL’ART. 14 DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981 ED ALLA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO.
Essendo l’Autorità in possesso da tempo di ogni elemento su cui ha basato la delibera impugnata, sarebbe stato violato l’art. 14 della legge n. 689 del 1981 che impone la contestazione dei fatti illeciti entro 90 giorni dalla loro conoscenza da parte dell’Amministrazione. All’onere di tempestiva comunicazione sarebbe comunque sottoposto, secondo parte ricorrente, ogni procedimento sanzionatorio trattandosi di onere che costituisce espressione del principio costituzionale dell’inviolabilità del diritto di difesa, avendo altresì tale onere derivazione dalla natura penale della sanzione dell’AGCM.
Nell’avvicinare le sanzioni inflitte dall’AGCM a quelle penali, sulla base di richiami alla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo e della Corte Costituzionale, e nel sostenere l’applicabilità dell’art. 6 CEDU, afferma parte ricorrente come la mancata previsione, nella legislazione in materia di pratiche commerciali, di termini perentori per la contestazione degli addebiti debba essere interpretata nel senso di ritenere l’applicabilità del principio di cui all’art. 14 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che l’AGCM avrebbe dovuto tempestivamente dare comunicazione delle eventuali violazioni riscontrate, affermando ancora parte ricorrente come il Regolamento di procedura, se diversamente interpretato, dovrebbe essere annullato o disapplicato in quanto contrastante con i richiamati principi nazionali ed europei.
II) IN RELAZIONE ALL’AFFERMAZIONE PER CUI AI E LE ALTRE SOCIETÀ DEL GRUPPO APPLE AVREBBERO RIFIUTATO DI PRESTARE LA GARANZIA LEGALE E AVREBBE FORNITO AL CONSUMATORE UN’ERRONEA RAPPRESENTAZIONE DELLA STESSA: VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA SULLA GARANZIA LEGALE (ART. 129 SS. DEL CODICE DEL CONSUMO E ART. 5, PAR. 3, DIRETTIVA 1999/44/CE) E DELL’ART. 2697 C.C., TRAVISAMENTO DEI FATTI, VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI IMPARZIALITÀ E DI RAGIONEVOLEZZA.
Con riferimento al formulato giudizio di scorrettezza ed aggressività della pratica relativa alla garanzia legale di conformità, ne denuncia parte ricorrente l’illegittimità in quanto basato su di una errata interpretazione del dato normativo, come dettato dagli artt. 130 e 132 del Codice del Consumo, sostenendo come la presunzione dell’esistenza del difetto di conformità al momento dell’acquisto laddove lo stesso si manifesti nei primi sei mesi comporti, contrariamente a quanto affermato dall’Autorità, che successivamente a tale periodo incomba sul consumatore l’onere di dimostrare che il difetto esistesse al momento della consegna del bene.
La società avrebbe, quindi, correttamente riportato il dato normativo nelle informazioni rese ai consumatori, i quali sarebbero soggetti ai principi generali in materia di onere della prova, di cui l’inversione per i primi sei mesi costituirebbe un’eccezione.
III) IN RELAZIONE ALL’APPREZZAMENTO DELLA CORRISPONDENZA INTERNA E QUELLA TRA APPLE E SOGGETTI TERZI AI FINI DELLA VALUTAZIONE DEL RIFIUTO DI PRESTARE LA GARANZIA LEGALE: ECCESSO DI POTERE PER MOTIVAZIONE CONTRADDITTORIA, CARENZA DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI IMPARZIALITÀ, DI PROPORZIONALITÀ, DI RESPONSABILITÀ PERSONALE E DI BUONA AMMINISTRAZIONE.
Affianca parte ricorrente alle proposte censure circa l’errato presupposto di diritto assunto dall’Autorità quale parametro di valutazione della scorrettezza e dell’aggressività della pratica, la denuncia circa il travisamento degli elementi di prova acquisiti nel corso del procedimento, non risultando dimostrato che la società abbia rifiutato o frapposto ostacoli all’applicazione della garanzia legale come disciplinata dalle norme.
Al riguardo, evidenzia parte ricorrente il numero di riparazioni effettuate e l’assenza di prove circa l’avvenuta richiesta ai consumatori di esibire una perizia per i prodotti acquistati da più di sei mesi, significando come la diagnosi tecnica sia stata sempre effettuata da un Apple Store, come comprovato dalle linee guida e procedure interne sulla gestione delle richieste di assistenza ai sensi della garanzia legale.
Procede, quindi, parte ricorrente alla puntuale disamina dei documenti sulla cui base l’Autorità ha fondato i propri rilievi, confutandone le relative conclusioni in quanto frutto di una strumentale interpretazione e fondate su elementi inconferenti ed irrilevanti.
Evidenzia, in particolare, parte ricorrente come i rapporti con i rivenditori riguardino esclusivamente i rapporti in regresso, come le discussioni interne sul contenuto e sull’applicazione della garanzia legale sia lecito, come le linee guida e le procedure interne riconoscano il diritto dei consumatori ad ottenere una diagnosi sul prodotto difettoso, come dimostrato dai dati sulle riparazioni effettuate, con conseguente mancanza di fondamento della tesi sostenuta dall’AGCM.
Le valutazioni espresse dall’AGCM con riferimento alla garanzia legale sarebbero, quindi, fondate su di una lettura contra legem dell’inversione dell’onere della prova, nonché basate su segnalazioni non circostanziate ed acquisite in violazione del diritto di difesa o riferite a condotte dei rivenditori indipendenti, illegittimamente imputate alla ricorrente in violazione del principio di responsabilità personale.
2) CENSURE IN MERITO ALL’ACCERTAMENTO DEI FATTI ED ALLE CONCLUSIONI IN DIRITTO DELL’AGCM CON RIGUARDO ALLA PRATICA ‘B’.
Contesta parte ricorrente le considerazioni espresse dall’Autorità con riferimento alle informazioni rese con riferimento al servizio di assistenza e supporto opzionale denominato ‘AppleCare Protection Plan’ ed alla strategia del gruppo Apple volto a promuoverne le vendite, denunciandone l’illegittimità per travisamento dei fatti, carenza di istruttoria ed erronea interpretazione del livello di diligenza richiesto, affermando la chiarezza di tutte le informazioni in ordine alla natura aggiuntiva del servizio, il quale peraltro rivestirebbe caratteristiche distinte ed autonome rispetto alla garanzia legale.
IV) IN RELAZIONE ALLA COMUNICAZIONE, DOCUMENTAZIONE CONTRATTUALE ED INFORMAZIONI SULLE CONFEZIONI DELL’APP IN MERITO AI DIRITTI DI GARANZIA PREVISTI DAL CODICE DEL CONSUMO: ECCESSO DI POTERE PER MOTIVAZIONE CONTRADDITTORIA, CARENZA DI ISTRUTTORIA, DISPARITÀ DI TRATTAMENTO, ERRONEA VALUTAZIONE DEI FATTI, ERRATA INTERPRETAZIONE DELLA DILIGENZA DEL PROFESSIONISTA, VIOLAZIONE DELL’ART. 133, COMMA 2, DEL CODICE DEL CONSUMO E DELL’ART. 6, PAR. 2, DELLA DIRETTIVA 1999/44/CE, VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 23 E 41 DELLA COSTITUZIONE.
Evidenzia parte ricorrente come tutte le comunicazioni inerenti l’APP contengano l’espresso avvertimento che tale prodotto si aggiunge alla garanzia legale e che i diritti riconosciuti dal Codice del Consumo non sono il alcun modo pregiudicati, affermando che le evidenze documentali acquisite smentirebbero le conclusioni rassegnate dall’Autorità.
Quanto ai rilievi inerenti la collocazione di tali informazioni ed il relativo carattere grafico, si riporta parte ricorrente alla libertà di stabilire le strategie di marketing, significando la sufficienza, ai sensi del Codice del Consumo, del mero richiamo alla garanzia legale e della sua leggibilità, senza che l’Autorità possa sindacare la scelta dei caratteri e la relativa collocazione, la cui evidenza è necessariamente inferiore nell’ambito della comunicazione commerciale.
Con riguardo alle considerazioni dell’Autorità circa la presentazione del prodotto APP in comparazione con la sola garanzia convenzionale, afferma parte ricorrente come sul professionista gravi l’obbligo, ai sensi dell’art. 133 del Codice del Consumo e dell’art. 6 della Direttiva 1999/44/CE di fornire una dettagliata e completa informazione solo sulla garanzia convenzionale, e non su quella legale, essendo prescritti obblighi informativi di diversa intensità, con la conseguenza che il ruolo che l’Autorità attribuisce alla ricorrente in materia di informazione sulla garanzia legale contrasterebbe con il principio di legalità in materia di prestazioni imposte e sarebbe frutto di un’arbitraria dilatazione del concetto di diligenza gravante sul professionista.
Evidenzia inoltre parte ricorrente come l’obbligo di fornire informazioni sulla garanzia legale spetti anche ai singoli venditori – cui si riferiscono molte delle segnalazioni – in quanto titolari del rapporto contrattuale con i consumatori, le cui condotte non hanno peraltro formato oggetto di indagine.
V) IN RELAZIONE ALLE CARATTERISTICHE DELL’APP: ECCESSO DI POTERE PER MOTIVAZIONE CONTRADDITTORIA, CARENZA DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, VIOLAZIONE DELLE NORME SULLA GARANZIA LEGALE (ART. 133, COMMA 2, DEL CODICE DEL CONSUMO E ART. 6, PAR. 2, DELLA DIRETTIVA 1999/44/CE).
Con riferimento alle considerazioni espresse dall’Autorità, secondo cui il contenuto dell’APP si sovrapporrebbe a quello della garanzia legale, ne sostiene parte ricorrente l’illegittimità per travisamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, rappresentando come l’APP si differenzi dalla garanzia legale per una serie di servizi aggiuntivi ed ulteriori – segnatamente per la possibilità di fruizione in un cero numero di Paesi e per l’assenza dell’onere della prova che incombe sul richiedente una volta trascorsi sei mesi dall’acquisto – nonché per l’offerta del servizio di supporto anche in remoto via telefono o internet per l’utilizzo del mondo integrato Apple e della varie applicazioni, facilitando così l’uso di prodotti perfettamente funzionanti, oltre che la loro riparazione, senza limitazioni geografiche e senza onere di prova.
Quanto all’onere della prova, ribadisce parte ricorrente come l’Autorità offra un’interpretazione difforme dal dato normativo nazionale e comunitario.
Con riferimento, inoltre, all’affermazione dell’Autorità secondo cui il servizio di supporto tecnico si sovrapporrebbe alla garanzia legale, la stessa, secondo parte ricorrente, sarebbe frutto di una illegittima estensione degli oneri gravanti sul professionista tenuto a prestare tale garanzia.
VI) IN RELAZIONE ALLA ASSERITA ‘STRATEGIÀ PER INDURRE INGANNEVOLMENTE I CONSUMATORI A SOTTOSCRIVERE CONTRATTI DI ASSISTENZA APP: ECCESSO DI POTERE PER MOTIVAZIONE CONTRADDITTORIA, CARENZA DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, VIOLAZIONE DELL’ART. 6 CEDU, DELL’ART. 47 DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, DEL XXV CONSIDERANDO DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE E DELL’ART. 27, COMMA 11, DEL CODICE DEL CONSUMO.
Procede parte ricorrente alla puntuale confutazione degli elementi indicati dall’Autorità a sostegno dell’affermata esistenza di una strategia per indurre ingannevolmente i consumatori a sottoscrivere contratti di assistenza APP, i quali sarebbero stati distorti nel loro significato, decontestualizzati o sarebbero comunque inconferenti.
3) CENSURE IN MERITO ALL’ACCERTAMENTO DEI FATTI ED ALLE CONCLUSIONI IN DIRITTO DELL’AGCM IN RELAZIONE AI RAPPORTI TRA ASI, ARI E AI E TRA QUESTE ULTIME ED I RIVENDITORI INDIPENDENTI DI PRODOTTI APPLE.
Contesta parte ricorrente le affermazioni dell’Autorità circa la sostanziale unitarietà e convergenza dei comportamenti dei tre professionisti del gruppo Apple, asseritamente finalizzati al medesimo obiettivo economico di ridurre i costi per l’assistenza in garanzia legale incrementando la vendita per l’assistenza a pagamento, nonché quelle relative ai rapporti di fidelizzazione e di influenza sui rivenditori indipendenti di prodotti Apple, denunciando come l’Autorità abbia omesso di adeguatamente valutare le risultanze istruttorie ed i diversi ruoli dei professionisti, operanti in piena autonomia, nonché l’indipendenza dei rivenditori non appartenenti al gruppo Apple, con conseguente violazione dei principi di legalità e di responsabilità personale.
VII) IN RELAZIONE AI RAPPORTI TRA LE SOCIETÀ DEL GRUPPO APPLE COINVOLTE NEL PROCEDIMENTO (ASI, ARI E AI) E TRA QUESTE ULTIME ED I RIVENDITORI INDIPENDENTI DI PRODOTTI APPLE: ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, VIOLAZIONE DEI DIRITTI DI DIFESA DI ARI (ART. 6 CEDU, ART. 47 DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, XXV CONSIDERANDO DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE, DELL’ART. 27, COMMA 11, DEL CODICE DEL CONSUMO), VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI RESPONSABILITÀ PERSONALE (ART. 3 DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981), DISPARITÀ DI TRATTAMENTO.
Denuncia parte ricorrente come l’Autorità abbia errato nell’individuare i ruoli e le responsabilità delle società del gruppo Apple, le quali operano in completa autonomia tra loro e non hanno rapporti con i rivenditori autorizzati, i quali devono essere ritenuti responsabili delle proprie condotte, invece imputate alle società del gruppo Apple in assenza di prove in ordine all’affermata esistenza di una strategia comune, denunciando l’approssimazione dell’accertamento dei fatti e dell’apprezzamento delle relative conseguenze.
Illustra al riguardo parte ricorrente nel dettaglio le attività svolte, tra le quali non sono ricomprese quelle di vendita o di riparazione, non avendo conseguentemente alcun rapporto con i consumatori nella commercializzazione e riparazione di prodotti Apple, supportando Apple Sales International solo sotto il profilo del marketing e nei rapporti con i centri autorizzati Apple, non spettando alla stessa decidere quali informazioni rendere ai consumatori in merito alla garanzia legale negli Apple Stores e nel sito internet.
Lamenta ancora parte ricorrente di non avere avuto la possibilità di esaminare direttamente e controinterrogare i soggetti che hanno presentato le segnalazioni, con conseguente pregiudizio al proprio diritto di difesa.
Afferma, altresì, parte ricorrente come la volontà di promuovere la vendita di APP anche attraverso una comunicazione pubblicitaria comune non possa ritenersi integrare una unitarietà di intenti di carattere illecito perseguita anche attraverso l’integrazione di tutti i rivenditori.
Né alla società ricorrente potrebbe essere imputata la responsabilità a titolo di culpa in vigilando per le condotte dei rivenditori, i quali sono obbligati in proprio al rispetto delle leggi applicabili e nei cui confronti non è stato disposto alcun accertamento, con conseguente disparità di trattamento e violazione del principio di responsabilità personale.
4) CENSURE IN MERITO ALLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DI DIFESA DI AI.
X) VIOLAZIONE (DA PARTE DEL PROVVEDIMENTO NEL SUO COMPLESSO) DEI DIRITTI DI DIFESA DELLA RICORRENTE (ART. 6 CEDU, SUB SPECIE DI PRINCIPIO DELLA PIENEZZA DEL CONTRADDITTORIO, DELLA PARITÀ DELLE PARTI, DELLA INDIPENDENZA DEL DECIDENTE E DELLA FORMAZIONE DELLA PROVA IN CONTRADDITTORIO; ART. 47 DELLA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, XXV CONSIDERANDO DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE; ART. 27, COMMA 11, DEL CODICE DEL CONSUMO).
Lamenta parte ricorrente la non conformità della struttura dell’AGCM, che non garantisce la distinzione tra funzioni di accusa e funzioni decisorie, con gli obblighi discendenti dalla CEDU, lamentando il contrasto del Regolamento di Procedura sia con l’art. 27 del Codice del Consumo che con gli obblighi convenzionali europei, riportandosi ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo.
In tale direzione rappresenta parte ricorrente come non sarebbe stata garantita la possibilità di un vero contraddittorio quanto alla formazione delle prove, significando l’illegittima acquisizione di documenti successivamente alla chiusura del termine per l’istruttoria.
Lamenta ancora l’illegittimità del Regolamento di Procedura nella parte in cui non prevede la comunicazione dell’esito dell’istruttoria e rinvia la decisione in materia di impegni al momento della decisione finale.
5) CENSURE IN RELAZIONE ALL’ORDINE DI ADOTTARE MISURE CORRETTIVE DELLA ATTUALI MODALITÀ OPERATIVE DI AI, NONCHÉ IN MERITO AL TRATTAMENTO SANZIONATORIO DI AI.
XI) ECCESSO DI POTERE PER CARENZA DI ISTRUTTORIA, ERRONEA VALUTAZIONE DEI FATTI; VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ ED ERRATA VALUTAZIONE DELLA PERSONALITÀ DELLA RICORRENTE – VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA (MISURE ECCESSIVE: MODIFICA DELLE CONFEZIONI DELL’APP) – VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI RESPONSABILITÀ PERSONALE – VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO – VIOLAZIONE DELL’ART. 11 DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981.
Con riferimento all’ordine di comunicare l’ottemperanza alle misure inibitorie delle pratiche dichiarate illecite, osserva parte ricorrente come tali pratiche siano già cessate a seguito della volontaria attuazione degli impegni proposti da Apple Retail e Apples Sales.
Lamenta, inoltre, il carattere sproporzionato della sanzione inflitta per la pratica relativa alle carenze informative circa la garanzia legale evidenziando come l’Autorità abbia avuto a disposizione tutte le informazioni per oltre un anno e mezzo senza formulare rilievi, così ingenerando il ragionevole convincimento sulla correttezza della pratica che dovrebbe condurre all’applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite.
Quanto al carattere aggressivo della pratica, lo stesso non sarebbe stato dimostrato ed anzi risulterebbe smentito dalle evidenze istruttorie, da cui emerge come la diagnosi tecnica fosse effettuata dai tecnici Apple senza richiesta di perizia da parte del consumatore.
Quanto alla sanzione irrogata per la pratica relativa all’APP, ne denuncia parte ricorrente il carattere sproporzionato stante l’avvenuta attuazione degli impegni proposti da Apple Retail e Apples Sales, che rilevano quale ravvedimento operoso.
Si è costituita in resistenza l’intimata Autorità sostenendo, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza del ricorso con richiesta di corrispondente pronuncia.
Si è costituita in giudizio l’Associazione Altroconsumo, chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza n. 1052/2012 è stata rigettata la proposta istanza cautelare.
Con ulteriore memoria la resistente Amministrazione ha più approfonditamente contrastato le censure ricorsuali.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, ulteriormente argomentando.
Alla pubblica udienza del 9 maggio la causa è stata chiamate e, sentiti i difensori delle parti, trattenuta per la decisione, come da verbale.
DIRITTO
Con il ricorso in esame è proposta azione impugnatoria avverso la delibera – meglio indicata in epigrafe nei suoi estremi – con cui la società ricorrente, unitamente alle società Apple Sales International e Apple Retail Italia S.r.l., è stata ritenuta responsabile di due distinte pratiche commerciali, giudicate scorrette ai sensi del Codice del Consumo, l’una riguardante le modalità di informazione ai consumatori presso i punti vendita e sui siti internet sul contenuto e sull’esercizio del diritto alla garanzia legale biennale in caso di difetto di conformità dei beni di consumo, e riguardante altresì le modalità di applicazione di tale garanzia, ritenute inadeguate, e l’altra concernente le informazioni fornite sulla natura e sul contenuto dei servizi di assistenza aggiuntivi laddove non chiariscono adeguatamente l’esistenza del diritto del consumatore alla garanzia biennale di conformità da parte del venditore, così da indurli ad attivare un rapporto contrattuale nuovo, a titolo oneroso, il cui contenuto risulta in parte sovrapporsi ai diritti già spettanti in forza della garanzia legale.
Quanto alla prima condotta, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (hic hinde Autorità) ne ha ritenuto la scorrettezza ai sensi degli artt. 20, 21, 22, 23, comma 1, lettera l), 24 e 25, lettera d), del Codice del Consumo, nonché il carattere aggressivo in quanto comportante l’imposizione di ostacoli di natura non contrattuale, onerosi e sproporzionati, all’esercizio da parte dei consumatori dei diritti di assistenza gratuita biennale ad essi spettanti per legge, vietandone l’ulteriore diffusione ed irrogando ai professionisti appartenenti al gruppo Apple la sanzione amministrativa pecuniaria complessiva di € 400.000, di cui € 80.000 alla società ricorrente, con contestuale ordine di attuare misure correttive per la cessazione della condotta.
Con riferimento alla seconda condotta, concernente le modalità di presentazione dei servizi aggiuntivi di assistenza a pagamento denominati AppleCare Protection Plan (di seguito APP), nella misura in cui non forniscono una chiara informazione sull’effettivo contenuto aggiuntivo rispetto alla garanzia legale di conformità, la rilevata scorrettezza è stata dall’Autorità parametrata agli artt. 20, 21, 22 e 23, comma 1, lettera l), del Codice del Consumo, condannando i professionisti al pagamento della complessiva sanzione di € 500.000, di cui € 100.000 a carico della società ricorrente, con ordine di attuare misure correttive per la cessazione della condotta.
L’impianto ricorsuale, come delineato dalle censure proposte, si snoda attraverso l’articolazione di doglianze volte a contestare il formulato giudizio di scorrettezza delle pratiche commerciali sanzionate attraverso la confutazione dei singoli rilievi espressi dall’Autorità, asseritamente basati su di una incompleta e superficiale istruttoria, frutto di travisamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, nonché basati su di una errata interpretazione della normativa rilevante, denunciandone l’illegittimità sotto vari profili.
Lamenta, inoltre, parte ricorrente l’erroneità delle valutazioni espresse dall’Autorità con riguardo ai ruoli delle società sanzionate appartenenti al gruppo Apple, le quali, lungi dall’aver posto in essere una strategia unitaria e convergente, opererebbero in piena autonomia, convogliando le relative argomentazioni nel solco dei denunciati vizi di violazione dei principi di responsabilità personale e di legalità, invocati quale parametro del sollecitato vaglio giurisdizionale anche con riguardo al ruolo ed alle condotte dei rivenditori.
Formula, altresì, parte ricorrente una serie di censure di natura procedimentale riferite alla scansione temporale del procedimento ed alle modalità di suo svolgimento, nelle loro ricadute in termini di garanzia dell’esercizio del proprio diritto di difesa e di rispetto dei principi consacrati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ivi compreso quello della necessaria separazione tra le funzioni di accusa e funzioni decisorie, censurando anche la disciplina regolamentare di riferimento.
In via subordinata, si duole parte ricorrente del carattere sproporzionato delle sanzioni irrogate e delle misure correttive ordinate dall’Autorità, asseritamente inutiliter date per essere le condotte sanzionate già cessate a seguito della volontaria attuazione degli impegni proposti da Apple Retail Italia S.r.l e da Apple Sales International.
Poste tali brevi precisazioni in ordine all’oggetto della controversia in esame, come delimitato dalle censure ricorsuali proposte, ritiene il Collegio, nella gradata elaborazione logica delle questioni sollevate, di dover seguire, nell’ordine di trattazione, quello suggerito dalla loro proposizione, affrontando – e con ciò rinviando – la più puntuale ricognizione del contenuto della gravata delibera nei limiti in cui la stessa si riveli funzionale alla compiuta comprensione delle censure proposte ed in occasione della loro disamina.
1 – Sulla base di tale approccio metodologico, viene pertanto innanzitutto in rilievo, con riferimento alla prima pratica commerciale sanzionata, riferita alle informazioni fornite dai professionisti in merito alla garanzia legale di conformità riconosciuta dagli artt. 130 e 132 del Codice del Consumo, la censura con cui parte ricorrente lamenta l’intervenuta violazione del principio del legittimo affidamento maturato sulla liceità della condotta, con conseguente e connessa violazione del carattere soggettivo della responsabilità amministrativa a fronte della buona fede, ingenerata dall’Autorità, sulla correttezza delle pratiche, tale da asseritamente escludere la possibilità di imputazione dell’illecito.
Al riguardo, evidenzia parte ricorrente come l’Autorità avesse già esaminato la documentazione cui la contestata insufficienza informativa si riferisce – tra cui i “Termini e Condizioni di vendita” dell’Apple On-line Store, il modulo di presa in consegna dei prodotti da riparare presso gli Apple Stores, il sito internet, il documento per la formazione interna del personale e lo scontrino di vendita – nell’ambito di due procedimenti preistruttori, durati circa un anno e mezzo e chiusi prima dell’avvio del procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera, nel corso dei quali l’Autorità avrebbe avuto modo di valutare pienamente l’operato delle società Apple, con riferimento al quale non ha riscontrato profili di illiceità, tanto da disporre l’archiviazione di tali procedimenti, in tal modo ingenerando il legittimo affidamento sulla liceità delle pratiche commerciali, di cui si assume l’intervenuta violazione.
Va soggiunto che avendo parte ricorrente già formulato i riferiti rilievi nel corso del procedimento, sugli stessi l’Autorità si è pronunciata con argomentazioni in questa sede contestate da parte ricorrente avuto riguardo all’affermata non idoneità a radicare un legittimo affidamento del breve lasso di tempo intercorso tra la chiusura dei due precedenti procedimenti e l’avvio del nuovo procedimento, allegando parte ricorrente, a sostegno dei propri assunti, la lunga durata delle preistruttorie ed il lungo periodo di tempo in cui l’Autorità ha avuto la disponibilità della medesima documentazione su cui si basa il formulato giudizio di scorrettezza di cui alla gravata delibera, senza che la stessa abbia mai chiesto chiarimenti sulle condizioni generali di vendita e sulle informazioni rese con riferimento alle garanzie prestate, denunciando l’illegittimità del tardivo ripensamento dell’Autorità.
La tesi prospettata da parte ricorrente, come sopra illustrata, non merita favorevole esame.
Va al riguardo innanzitutto rilevato che, per come precisato dall’Autorità nella gravata delibera e non efficacemente contestato da parte ricorrente, i procedimenti archiviati, sulla cui base sarebbe sorto il legittimo affidamento della ricorrente in ordine alla liceità della condotta, hanno riguardato fattispecie distinte rispetto a quella in esame, in quanto riferite, l’una, alle condotte di rivenditori indipendenti di prodotti Apple, rispetto ai quali le società Apple avevano rivendicato la propria estraneità, e, l’altra, all’acquisto di un prodotto difettoso da parte di un professionista, nei cui confronti non trovano applicazione le norme del Codice del Consumo, con conseguente archiviazione delle segnalazioni.
La condotta sanzionata con la gravata delibera attiene, invece, ai rapporti tra il professionista ed i consumatori avuto riguardo alle modalità informative ed al riconoscimento della garanzia legale di due anni in caso di non conformità del prodotto.
A confermare come i due procedimenti archiviati non abbiano riguardato la condotta oggetto di accertamento nel successivo procedimento PS7256 interviene la circostanza, evidenziata peraltro da parte ricorrente, della mancanza di qualsivoglia richiesta, da parte dell’Autorità, di chiarimenti in ordine alle informazioni sulla garanzia legale, la quale non ha formato, nell’ambito dei predetti procedimenti, oggetto di indagine.
Inoltre, essendo i due procedimenti (PS3507c e PS5294) stati chiusi rispettivamente in data 15 e 31 marzo 2011, laddove l’avvio del procedimento conclusosi con l’adozione della gravata delibera è intervenuto in data 28 aprile 2011, deve ritenersi condivisibile quanto affermato dall’Autorità circa l’inidoneità del brevissimo lasso temporale trascorso ad ingenerare un legittimo affidamento della società ricorrente in ordine alla liceità delle sue condotte.
Se la differenziazione delle fattispecie indagate dall’Autorità ed il breve lasso di tempo trascorso dalla chiusura delle precedenti preistruttorie consentono di disattendere – sulla base del concreto atteggiarsi della fattispecie – la trama argomentativa di parte ricorrente circa la sussistenza di un legittimo affidamento cui parametrare, in termini di illegittimità, la gravata decisione, deve aggiungersi, sotto un profilo di ordine generale e sistematico, che il principio di tutela dell’affidamento ingenerato dall’Amministrazione con propri atti o comportamenti, che trova fondamento nell’ordinamento comunitario, quale corollario del generale principio di certezza del diritto nonché, secondo diversa ricostruzione, quale espressione del generale obbligo di comportarsi lealmente e secondo buona fede all’interno del rapporto giuridico, si traduce, nel nostro ordinamento, in un limite all’adozione di provvedimenti negativi o sfavorevoli solo in presenza di un contegno tenuto dall’Amministrazione che rivesta chiara ed univoca idoneità a suscitare falsi affidamenti.
Difatti, risolvendosi la tutela del legittimo affidamento del destinatario dei provvedimenti amministrativi in un limite all’azione della Pubblica Amministrazione, la quale, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione, è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede, cui corrisponde l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo affidamento (Consiglio Stato, Sez. IV,15 luglio 2008, n. 3536), ritiene il Collegio che la portata di tale principio debba essere contenuta entro precisi limiti delineati dall’esistenza di elementi positivi idonei ad ingenerare, ragionevolmente, il convincimento circa un determinato assetto degli interessi.
La sussistenza di tali elementi deve ritenersi esclusa laddove tra due atti o comportamenti dell’Amministrazione sia intercorso un breve lasso di tempo, preclusivo alla possibilità di consolidamento di certezze in ordine a determinate posizioni e, avuto riguardo alla materia sanzionatoria, idoneo ad escludere che nell’autore della violazione si sia ingenerata la convinzione della liceità della condotta, la quale potrebbe trovare ragionevole fondamento solo laddove fosse intercorso un lungo lasso di tempo da atti o comportamenti dell’Amministrazione che tale liceità abbiano avvalorato e solo in presenza di una chiara valenza in tal senso di tali atti o comportamenti.
Nella fattispecie in esame, oltre al rilevato profilo temporale, insufficiente ad ingenerare un legittimo affidamento, l’avvenuta archiviazione di procedimenti inerenti condotte diverse da quelle sanzionate non consente il positivo riscontro della sussistenza di univoci e chiari atti o comportamenti dell’Autorità che abbiano potuto determinare l’insorgere di un legittimo affidamento dell’autore della condotta in ordine alla liceità della stessa, stante la non sovrapponibilità delle diverse azioni amministrative.
Giova ulteriormente rilevare, sotto un profilo più generale, come la disamina della documentazione acquisita dall’Autorità sia strettamente funzionalizzata alla verifica della sussistenza della violazione indagata nell’ambito dello specifico procedimento, cosicché nessun decisivo rilievo può tributarsi alla circostanza – evidenziata da parte ricorrente – che l’Autorità abbia avuto, nell’ambito dei distinti procedimenti archiviati, la disponibilità della documentazione e delle informazioni esaminate nel corso del procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera che le avrebbe asseritamente consentito di valutare l’operato delle società appartenenti al gruppo Apple.
L’Autorità non è difatti chiamata, nell’ambito del procedimento, a sottoporre ad un generale vaglio di liceità e di correttezza le condotte comunque emergenti dalla documentazione acquisita, specie laddove il procedimento prenda avvio da specifiche segnalazioni, tenuto altresì conto del vincolo discendente dalla portata dell’atto di contestazione degli addebiti, che delimita l’ambito di estensione del potere di accertamento dell’Autorità con riferimento ad ogni specifico procedimento avviato.
Ne discende che la dedotta circostanza circa l’acquisita disponibilità dell’Autorità della documentazione posta a sostegno del successivo provvedimento sanzionatorio non preclude la possibilità che la medesima documentazione, vagliata nell’ambito di un diverso procedimento volto alla verifica della eventuale illiceità di diverse condotte, venga diversamente valutata, non sussistendo alcuna preclusione in tal senso alla luce dei principi che regolano l’attività sanzionatoria dell’Autorità.
Aggiungasi che, ad accedere alla tesi di parte ricorrente, si perverrebbe alla conclusione che dalla disponibilità per l’Autorità di una determinata documentazione nell’ambito di un procedimento poi archiviato discenderebbe una sorta di generalizzato visto di liceità e di correttezza dei comportamenti comunque connessi a tale documentazione, anche se non abbiano formato oggetto dello specifico accertamento svolto nell’ambito del procedimento per il quale tale documentazione è stata acquisita, in totale spregio delle regole e dei principi che sottendono la materia.
Ed infatti, la mera disponibilità, per l’Autorità, della documentazione inerente pratiche commerciali attuate da un professionista non si traduce – attraverso l’affermata mera possibilità per l’Autorità di valutare la liceità dell’operato delle società del gruppo Apple – nell’effettuazione di tale globale ed omnicomprensivo vaglio e nell’implicito giudizio di correttezza di qualsivoglia condotta comunque riconducibile a detta documentazione.
Ancora, venendo in rilievo l’esercizio dei poteri di accertamento della sussistenza di pratiche commerciali scorrette, non può ravvisarsi – sotto un profilo generale – la sussistenza di un vincolo per l’Autorità procedente discendente da precedenti determinazioni, e ciò in ragione dell’interesse pubblico all’attività repressiva di illeciti, con la conseguenza che con riferimento all’accertamento di comportamenti comunque illeciti non sono ravvisabili profili di illegittimità connessi a precedenti contrastanti determinazioni, non utilmente invocabili ai fini dell’affermazione della preclusione alla successiva formulazione di diverse valutazioni, le quali non possono ritenersi affette da profili di contraddittorietà ed irragionevolezza laddove il carattere illecito della condotta risulti correttamente accertato.
Quale necessario parametro di riferimento, va inoltre ricordato che in materia di accertamento di illeciti amministrativi non viene in rilievo un profilo di comparazione dell’interesse pubblico con quello di privati, nel cui ambito può più propriamente trovare espansione la tutela del legittimo affidamento, essendo il giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico insito nell’esigenza di repressione degli illeciti ai fini della effettiva tutela della collettività e – nel caso di specie – dei consumatori.
Fondendo le precedenti enunciazioni in conclusive considerazioni in ordine alla censura in esame va, dunque, affermato che, dovendo gli effetti degli atti amministrativi essere individuati, ai fini del riscontro della sussistenza di un legittimo affidamento meritevole di tutela, solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ed in virtù del principio costituzionale di buon andamento, da cui discende che la p.a. è tenuta ad operare in modo chiaro e lineare, così da fornire ai privati regole di condotta certe e sicure, soprattutto quando possano derivarne conseguenze negative, non è ravvisabile, nella fattispecie in esame, una situazione di apparenza giuridica tale da ingenerare un legittimo affidamento in capo alla società ricorrente circa la liceità della propria condotta, stante l’assenza di concreti elementi dotati di univoca valenza in ordine a tale liceità, non potendo ritenersi tale la disponibilità in capo all’Autorità della documentazione sulla cui base è stato formulato il gravato giudizio di scorrettezza, e ciò in ragione della ricordata diversità delle condotte oggetto di accertamento nell’ambito dei procedimenti archiviati e della delimitazione dell’oggetto del procedimento discendente dall’atto di contestazione degli addebiti.
La necessità della sussistenza di elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della condotta è stata affermata dalla giurisprudenza italiana (Consiglio di Stato, Sez. VI – 21 giugno 2011, n. 3719) e da quella comunitaria, per la quale la tutela del legittimo affidamento può essere accordata soltanto a condizione che siano state fornite all’interessato rassicurazioni precise, incondizionate, concordanti nonché provenienti da fonti autorizzate ed affidabili dell’amministrazione e che tali rassicurazioni siano state idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui erano rivolte e che fossero conformi alla disciplina applicabile, potendo il diritto di avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento operare solo in presenza di comportamenti che abbiano fatto sorgere fondate speranze a causa di assicurazioni sufficientemente precise ed ufficiali delle istituzioni (Corte giustizia CE, sez. III, 17 settembre 2009, n. 519 – caso Comm. CE c. Koninklijke FrieslandCampina NV; Tribunale I grado C.e.e., sez. III, 30 novembre 2009, n. 427, caso France Télécom; Tribunale I grado C.e.e., sez. II, 04 febbraio 2009, n. 145, caso Omya AG c. Comm. Ce), con la conseguenza che i principi di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto e di proporzionalità non possono rappresentare un impedimento per l’azione delle istituzioni che, alla luce delle disposizioni e dei principi generali, non riveli elementi tali da inficiarne la validità.
Applicando le illustrate coordinate interpretative al caso in esame, non sono riscontrabili i necessari presupposti per ritenere la sussistenza di un legittimo affidamento tutelabile, stante l’assenza di elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della condotta e dovendo escludersi in radice che l’Autorità abbia adottato, seppur implicitamente, valutazioni aventi valenza di giudizio di liceità di condotte comunque connesse alla documentazione acquisita nel corso dei precedenti procedimenti poi archiviati, impregiudicata comunque l’assenza, a monte, di una preclusione per l’Autorità di diversamente determinarsi in ordine alla sussistenza di fattispecie di illecito, assumendo pertanto il ricordato breve lasso temporale trascorso, inidoneo a generare un legittimo affidamento, carattere secondario rispetto a tale principio.
Ne consegue che, non potendo ritenersi ingenerato alcun legittimo affidamento in capo alla ricorrente, non sono parimenti riscontrabili gli elementi integrativi della esimente della buona fede, invocata da parte ricorrente, dalla cui esistenza poter positivamente riscontrare la denunciata intervenuta violazione del carattere soggettivo della responsabilità amministrativa.
2 – Nelle suesposte considerazioni – che conducono al rigetto della esaminata censura – risiedono altresì le ragioni dell’infondatezza dell’ulteriore doglianza proposta da parte ricorrente, relativa all’intervenuta violazione dell’onere di tempestiva comunicazione dei fatti illeciti, onere parametrato dalla ricorrente alla previsione di cui all’art. 14 della legge n. 689 del 1981 – che impone la contestazione dei fatti illeciti entro 90 giorni dalla loro conoscenza da parte dell’Amministrazione – ed all’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, ai sensi del quale l’incolpato deve essere informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell’accusa.
La prospettazione di parte ricorrente si basa sulla circostanza che l’Autorità disponesse già da tempo degli elementi su cui ha basato la gravata sanzione, con conseguente obbligo per la stessa di informare la società ricorrente delle potenziali violazioni riscontrabili sulla base della documentazione ricevuta nel corso delle precedenti preistruttorie al fine di consentire l’instaurazione di un tempestivo contraddittorio.
L’autonomia dei procedimenti che si svolgono innanzi all’Autorità – in ragione della necessaria corrispondenza tra contestazione degli addebiti ed oggetto dell’accertamento – e la ricordata diversità delle condotte indagate nell’ambito dei procedimenti conclusisi con l’archiviazione e quello confluito nell’adozione della gravata delibera, non consentono di tributare l’auspicato rilievo, ai fini del riscontro del denunciato vizio, alla mera possibilità che sulla base della documentazione in possesso dell’Autorità nell’ambito dei procedimenti archiviati potessero essere ravvisate condotte illecite, non essendo l’Autorità, laddove instaura un procedimento sulla base di segnalazioni, chiamata ad effettuare un generale vaglio di liceità di tutte le possibili condotte connesse con la documentazione acquisita.
È quindi irrilevante, ai fini della valutazione in ordine al tempo entro cui deve intervenire la contestazione degli addebiti, la sovrapponibilità della documentazione e degli elementi raccolti nell’ambito di un procedimento rispetto a quelli riferiti ad un successivo procedimento.
Con ulteriore e suggestiva prospettazione che, nell’avvicinare le sanzioni inflitte dall’Autorità a quelle penali sulla base di richiami alla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo e della Corte Costituzionale, e nel sostenere l’applicabilità in materia dell’art. 6 CEDU, giunge parte ricorrente alla conclusione secondo cui la mancata previsione, nella legislazione in materia di pratiche commerciali, di termini perentori per la contestazione degli addebiti debba essere interpretata nel senso di ritenere l’applicabilità del principio di cui all’art. 14 della legge n. 689 del 1981, dovendo altrimenti ritenersi l’illegittimità del Regolamento di procedura, in quanto contrastante con i richiamati principi nazionali ed europei.
La sollecitata disamina impone di preliminarmente procedere alla ricognizione del quadro normativo di riferimento, come delineato dal D.Lgs. n. 206 del 2005 – recante il Codice del Consumo – e dal Regolamento sulle procedure istruttorie, adottato con delibera dell’Autorità del 15 novembre 2007 n. 17589 e successivamente modificato, che non prevedono alcun termine entro il quale deve essere comunicata la contestazione degli addebiti né stabiliscono alcun termine di durata della fase preistruttoria che precede l’avvio del procedimento.
Difatti, l’art. 27, comma 3, del D.Lgs. n. 206 del 2005, dispone che l’Autorità comunica al professionista l’apertura dell’istruttoria, mentre l’art. 7 del Regolamento – intitolato ai termini del procedimento – dispone che “Il termine per la conclusione del procedimento è di centoventi giorni, decorrenti dalla data di protocollo della comunicazione di avvio e di centocinquanta giorni quando, ai sensi dell’art. 27, comma 6, del Codice del Consumo, si debba chiedere il parere dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni”.
L’art. 6 del Regolamento stabilisce che “Il responsabile dell’istruttoria, valutati gli elementi comunque in suo possesso e quelli portati a sua conoscenza con la richiesta di intervento (…), avvia l’istruttoria al fine di verificare l’esistenza di pratiche commerciali scorrette di cui al Codice del Consumo”.
Appare chiaro, alla luce delle illustrate disposizioni, che solo con riferimento alla conclusione del procedimento il citato Regolamento reca l’indicazione di termini perentori, prorogabili nella misura e alle condizioni ivi stabilite, non sussistendo, con riferimento alla fase di avvio, alcun termine, neppure di natura acceleratoria, ricollegabile alla data di presentazione delle segnalazioni, entro il quale debba intervenire la comunicazione d’avvio del procedimento, la cui temporalizzazione è all’evidenza condizionata dal numero e dal contenuto delle segnalazioni, dall’ampiezza temporale della stessa pratica commerciale scorretta e dalla maggiore o minore complessità della fattispecie (TAR Lazio – Roma – Sez. I – 13 luglio 2010 n. 24994; 12 settembre 2011 n. 7182; 23 novembre 2011 n. 1691).
Pertanto, per la fase che precede l’avvio del procedimento nessun termine, né perentorio, né ordinatorio, né acceleratorio, è previsto dalla normativa di settore, la quale, nel disporre che tale avvio debba intervenire previo svolgimento di una attività valutativa volta a verificare la sussistenza delle condizioni per instaurare il procedimento di accertamento di eventuali profili di scorrettezza di una pratica commerciale, valorizza l’esigenza che l’Autorità disponga di ampi margini di azione connessi con l’esigenza di previamente svolgere le opportune e necessarie verifiche di natura preistruttoria al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per procedere all’accertamento di eventuali profili di illiceità della pratiche.
Il che si presenta coerente con la considerazione che in materia di pratiche scorrette l’Autorità è chiamata, in ragione proprio della struttura dell’illecito e diversamente da quanto accade nei procedimenti intesi a reprimere la pubblicità ingannevole e comparativa, al compimento di una – spesso – complessa attività istruttoria volta alla individuazione con precisione – salvi i casi di condotte “tipizzate” elencate agli artt. 23 e 26 del Codice del Consumo – delle azioni, omissioni o dichiarazioni ritenute scorrette, ingannevoli o aggressive, nonché dei soggetti responsabili delle stesse, che risulta quindi incompatibile con una predefinita limitazione temporale.
La mancata previsione di un termine di durata della fase che precede l’avvio dell’istruttoria costituisce regola generale che trova, inoltre, la propria ragione giustificatrice nel rilievo degli interessi tutelati, prevalenti rispetto a quelli dell’autore della condotta sanzionata alla certezza in ordine ai tempi del procedimento ed alla tempestiva informazione delle contestazioni, venendo in rilievo una tipologia di procedimento che, nel sanzionare condotte illecite, è al contempo volto alla tutela dei consumatori a fronte di pratiche ad efficacia durevole.
Non può, pertanto, condividersi la tesi di parte ricorrente volta a far ricadere tale fase del procedimento nell’ambito di applicazione dell’art. 14 della legge n. 689 del 1981 – con conseguente assoggettamento della contestazione degli addebiti al termine di 90 giorni – trovando tale soluzione ostacolo nella disciplina di settore che, come illustrato, dispone diversamente rispetto alla legge sugli illeciti amministrativi quanto a tale fase procedimentale, e ciò in coerenza con le esigenze istruttorie emergenti a seguito delle segnalazioni pervenute all’Autorità, insuscettibili ad essere imbrigliate in predefiniti limiti di durata posto che la verifica dei presupposti per dare avvio al procedimento può richiedere una complessa attività pre-istruttoria anche sulla base delle informazioni rese dalle parti.
Ad escludere l’applicabilità dell’invocato art. 14 della legge n. 689 del 1981 soccorre, inoltre, il dato normativo, stabilendo l’art. 27, comma 13, del Codice del Consumo (nella formulazione ratione temporis rilevante) che “per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alle violazioni del presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel capo I, sezione I, e negli articoli 26, 27, 28 e 29 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni”.
L’art. 14 della legge n. 689 del 1981, è dunque inapplicabile in relazione al particolare procedimento di accertamento e sanzione per le violazioni di cui alla Parte II, Titolo III del Codice del consumo, in quanto non espressamente richiamato dall’art. 27 del D.Lgs. n. 206 del 2005 e collocato altrove rispetto alle parti del testo normativo ivi richiamate (in senso analogo: Consiglio di Stato, Sez. VI – 24 marzo 2011, n. 1809; 20 luglio 2011, n. 4392).
Quanto all’art. 6 della CEDU, invocato da parte ricorrente quale ulteriore parametro normativo di riferimento per dare consistenza al denunciato vizio di violazione dell’onere di tempestiva comunicazione delle contestazioni, osserva il Collegio come il riconoscimento, ivi stabilito, del diritto dell’incolpato ad essere informato della natura e dei motivi dell’accusa nel più breve tempo possibile, debba essere modulato in relazione alla specificità del procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette, con riferimento al quale la tempistica della comunicazione degli addebiti è stata disciplinata – come dianzi accennato – in ragione dell’attività e della natura degli accertamenti che l’Autorità è chiamata a compiere e delle esigenze sottese al relativo svolgimento, dovendo conseguentemente ritenersi la compatibilità dell’indicazione – di carattere elastico – riferita al più breve tempo possibile, di cui al citato art. 6, con la regolazione normativa dello sviluppo procedimentale in questione, in cui il criterio del ‘più breve tempo possibilè è stato declinato previa riconosciuta prevalenza delle esigenze di formazione di un quadro di elementi sufficiente ad avviare il procedimento.
La mancata previsione, nella disciplina del procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette di termini perentori per la comunicazione degli addebiti non si traduce, pertanto, in una violazione dei diritti riconosciuti dall’art. 6 CEDU, dovendo al riguardo rilevarsi come tali diritti, compendiabili nel principio di equo processo, nella sua valenza sostanziale, sono espressamente riferiti – per precisa scelta degli Stati firmatari – alla materia processuale civile e penale, senza alcuna menzione delle controversie di diritto amministrativo, e ciò in ragione, plausibilmente, della specialità della materia e dell’azione amministrativa – e del connesso rischio di pregiudicarne l’efficacia – e dei diversi modelli di amministrazione negli Stati membri, dovendo al riguardo tenersi conto, con specifico riferimento all’ordinamento italiano, del modello tradizionale di amministrazione delineato dall’art. 97 della Costituzione.
È tuttavia consapevole il Collegio del progressivo espandersi dell’ambito di applicazione dell’art. 6 CEDU al diritto amministrativo e, quindi, al procedimento amministrativo, il quale, peraltro, a seguito della legge n. 241 del 1990 e delle successive modificazioni, riflette da tempo la trasformazione in chiave paritaria dell’agire autoritativo della pubblica amministrazione, sottoponendolo a regole di garanzia e di partecipazione che si avvicinano alle prescrizioni convenzionali.
Quanto alla generale tematica dell’applicabilità dell’art. 6 CEDU e dei suoi riflessi sul diritto e sul processo amministrativi, non ne ignora il Collegio la particolare rilevanza da quando la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 249 del 2007, ha, per la prima volta, riconosciuto alle previsioni della CEDU, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il valore di “norme interposte” che integrano il parametro costituzionale di cui all’art. 117, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui lo stesso impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”, precisando peraltro come le stesse non abbiano gli stessi effetti del diritto comunitario, preclusa essendo l’attribuzione alle norme convenzionali dell’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, tra cui la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti, dovendo il giudice in primo luogo interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione convenzionale – sulla base dell’interpretazione che ne viene data dalla Corte di Starsburgo, cui i giudici sono vincolati ad uniformarsi – ogniqualvolta tale interpretazione sia testualmente possibile e sollevare questione di illegittimità costituzionale in via incidentale solo laddove l’interpretazione conforme non sia percorribile sulla base del testo delle norme.
Inoltre, una significativa trasposizione dei principi della CEDU nell’ordinamento comunitario è stata compiuta tramite alcune previsioni della Carta dei diritti dell’Unione Europea (ad esempio l’art. 47, comma 2, che reca disposizioni corrispondenti a quelle dell’art. 6 della CEDU), con la conseguenza che i principi dettati dalla CEDU costituiscono, per l’ordinamento italiano, imprescindibili parametri di riferimento per la valutazione dell’effettività delle garanzie ivi stabilite che guidano l’attività interpretativa del giudice nel rinvio mobile, di cui all’art. 117 della Costituzione, alla norma convenzionale, quale parametro interposto, nella portata alla stessa attribuita dalla Corte europea – le cui pronunce non sono peraltro incondizionatamente vincolanti in quanto adottate in ragione della specificità dei casi esaminati, anche riferita alla peculiarità degli ordinamenti nazionali, come tali insuscettibili ad essere tradotte in norme generali ed astratte, uniformemente valide per tutti gli Stati, e stante il necessario ragionevole bilanciamento con la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti – fermo restando il sindacato accentrato della Corte Costituzionale in ogni ipotesi di contrasto insanabile in via interpretativa tra norma interna e norma convenzionale.
Poste tali precisazioni, la denunciata violazione, da parte dell’Autorità, dell’onere – previsto dall’art. 14 della legge n. 689 del 1981 e dall’art. 6 della CEDU – di dare tempestiva comunicazione delle contestazioni non è suscettibile di favorevole esame neanche alla luce della prospettazione di parte ricorrente circa la natura penale, per come affermato dalla Corte Europea, da attribuirsi alle sanzioni irrogate dall’Autorità, con conseguente piena soggezione delle stesse ai principi di cui all’art. 6 della CEDU anche in virtù dell’adozione, da parte della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 196 del 2010, di una nozione convenzionale di ‘accusa penalè di tipo sostanziale sulla base dei criteri stabiliti dalla Corte di Strasburgo.
Al riguardo, osserva il Collegio come la citata pronuncia della Corte Costituzionale si riferisca al principio di legalità ed alla necessità della prefissione ex lege delle misure afflittive e di rigorosi criteri per la loro applicazione, valorizzando il parametro di cui all’art. 7 della CEDU ai fini del giudizio di compatibilità della norma, sospettata di illegittimità costituzionale nella sua portata retroattiva, con riferimento all’art. 117 della Costituzione, ed in tale prospettiva deve essere intesa l’affermata necessità che tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo debbano essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto, in coerente applicazione degli artt. 6 e 7 della CEDU come interpretati dalla giurisprudenza europea.
Va ulteriormente rilevato, avuto riguardo alla fattispecie in esame, che la denunciata violazione dell’onere di tempestiva comunicazione degli addebiti viene da parte ricorrente ancorata alla circostanza che la documentazione, su cui è stato formulato il contestato giudizio di scorrettezza della pratica, fosse nella disponibilità dell’Autorità già nel corso delle precedenti preistruttorie, circostanza questa che, per quanto dianzi esposto, non può costituire utile parametro di riferimento per la valutazione della sussistenza della denunciata violazione.
Né parte ricorrente lamenta la tardiva comunicazione degli addebiti con specifico riguardo al procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera, tenuto conto del momento di ricezione delle segnalazioni e dell’avvio del procedimento, cosicché nessuna concreta violazione della garanzia convenzionale può ritenersi integrata, neanche – sulla base di quanto dianzi esposto – per effetto del Regolamento di Procedura dell’Autorità nella parte in cui non prevede un termine per la contestazione degli addebiti, dovendo al riguardo precisarsi come nell’ambito del procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette, gli invocati principi del contraddittorio e del diritto di difesa – come affermati dall’art. 27 del Codice del Consumo – sono ampiamente tutelati, essendo tale procedimento caratterizzato da un compiuto sistema partecipativo, nel cui ambito il diritto di difesa dei soggetti coinvolti viene garantito e concretamente esercitato attraverso una pluralità di strumenti, tra cui la comunicazione di avvio del procedimento, la possibilità di presentare memorie scritte e fornire informazioni a supporto delle argomentazioni difensive, lo strumento dell’audizione, pienamente idonei ad assicurare la tutela dei diritti difensivi delle parti (TAR Lazio – Roma – Sez. I – 21 febbraio 2011 n. 1585; 23 febbraio 2011 n. 1691; 18 gennaio 2011 n. 395)
3 – La sin qui condotta disamina dei profili di censura involgenti questioni aventi quale parametro di riferimento le previsioni di cui all’art. 6 della CEDU suggeriscono, per ragioni di organicità della trattazione di questioni parimenti connesse con tale parametro, di anticipare, invertendo il relativo ordine di proposizione, la trattazione delle censure che analogamente invocano tali previsioni al fine di denunciarne l’intervenuta violazione, con riveniente denunciata illegittimità del procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera.
Con il profilo di censura di cui al punto 5 della narrativa in fatto, denuncia parte ricorrente la violazione dei diritti di difesa garantiti dall’art. 6 CEDU – sub specie di principio della pienezza del contraddittorio, della parità delle parti, della indipendenza del decidente e della formazione della prova in contraddittorio – dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dal XXV considerando della Direttiva 2005/29/CE e dall’art. 27, comma 11, del Codice del Consumo, lamentando la non conformità a tali principi della struttura dell’Autorità in quanto non garantisce la distinzione tra funzioni di accusa e funzioni decisorie, denunciando al riguardo il contrasto del Regolamento di Procedura sia con l’art. 27 del Codice del Consumo che con gli obblighi convenzionali europei, censurando la mancata previsione della possibilità di un vero contraddittorio quanto alla formazione delle prove e della comunicazione dell’esito dell’istruttoria.
La trasposizione dei principi affermati dall’art. 6 della CEDU al procedimento amministrativo (ribaditi dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che ne ricalca la previsione e dal XXV considerando della Direttiva 2005/29/CE, laddove si afferma che la “direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”) è ostacolata dal riferirsi tale previsione – come accennato – alla tutela del giusto processo nella materia civile e penale, con conseguente testuale esclusione delle controversie pubblicistiche amministrative.
Tuttavia, sulla base delle pronunce della Corte di Strasburgo intervenute nel tempo, l’art. 6 CEDU ha acquistato rilevanza nel diritto amministrativo, sia ex post in fase processuale, sia con riferimento alla fase procedimentale amministrativa, attraverso l’estensione della nozione di ‘tribunalè – dovendo intendersi tale, in senso sostanziale e funzionale, qualsiasi autorità, anche amministrativa, chiamata a decidere una ‘accusa penalè che sia idonea ad incidere significativamente e con efficacia vincolante su un diritto civile in ragione dei poteri esercitati in concreto e degli effetti della decisione – e dell’adozione di una nozione sostanziale di ‘accusa penalè e di illecito penale, dovendo stabilirsi la natura penale di un illecito e della relativa sanzione, ai fini dell’applicazione delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 CEDU riservano al processo penale, sulla base dei criteri alternativi della natura dell’illecito, della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, dello scopo della sanzione (deterrente e repressivo, e non risarcitorio) e della sua severità quale misura afflittiva e punitiva (Corte Costituzionale, sentenza 12 maggio 2010 n. 196).
Elementi questi che, nella giurisprudenza della Corte Europea (Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 giugno 1976, caso 5100/71, Engel and Others v. Netherlands; 21 febbraio 1984, caso 8544/79 Öztürk v. Germany; 9 novembre 1999, caso 35260/97, Varuzza v. Italy; 27 settembre 2011, caso 43509/08, Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italie) consentono di attrarre nella materia penale sanzioni non qualificate come tali nell’ordinamento nazionale.
La Corte Europea ha parimenti adottato una nozione sostanziale di ‘diritti ed obbligazioni di carattere civilè ai fini della qualificazione come ‘tribunalè dell’autorità chiamata ad incidere sugli stessi, con la conseguenza che dalla valenza innanzitutto sostanziale dei principi dell’ ‘equo processò di cui all’art. 6, par. 1, CEDU, derivano una serie di ricadute – nella giurisprudenza della Corte Europea – con riferimento ai procedimenti amministrativi sanzionatori in ragione della capacità di un provvedimento amministrativo sanzionatorio di incidere su una situazione soggettiva e della qualificazione come ‘tribunalè dell’autorità competente ad adottarlo, come tale tenuta a rispettare le garanzie dell’equo processo anche nella fase procedimentale, in cui viene decisa una ‘accusa penalè.
Posta tale breve ricostruzione del quadro applicativo dell’art. 6 CEDU come declinato dalla Corte di Strasburgo, deve precisarsi come con riferimento ai procedimenti amministrativi, le garanzie che vengono in rilievo ai sensi dell’art. 6 della CEDU – ai sensi del quale “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle contestazioni sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta” – sono quelle riferite alla parità delle armi tra le parti e, con riferimento ai profili istruttori, a quella al diritto a un procedimento in contraddittorio (garanzia di un adversarial proceeding), le quali, per le considerazioni che si andranno ad illustrare, non possono ritenersi violate né per effetto della disciplina dettata per il procedimento che si svolge innanzi all’Autorità, né per le concrete modalità con cui tale procedimento si è svolto.
In disparte la questione circa l’attrazione, sulla base della giurisprudenza della Corte Europea, delle sanzioni amministrative pecuniarie nell’orbita penalistica, affermata da parte ricorrente – dalla cui disamina si può prescindere – deve innanzitutto ribadirsi l’impossibilità di una automatica trasposizione dei principi di cui all’art. 6 CEDU al procedimento amministrativo, in quanto non ivi contemplato.
Quanto, invece, ai vincoli discendenti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha esteso l’ambito applicativo di tali principi anche ai procedimenti amministrativi alle condizioni di cui sopra si è dato atto, deve ribadirsi l’insuscettibilità delle relative pronunce a costituire uniformi parametri di riferimento per gli ordinamenti nazionali, essendo le stesse volte a risolvere casi concreti e specifiche questioni in relazione agli assetti ordinamentali nazionali, come tali inidonee a tradursi in indicazioni generalizzate e generalizzabili, in quanto destinate ad essere precisate in dipendenza della varietà della pratica applicativa dei vari Stati, ed incapaci altresì di uniformare gli orientamenti e di soddisfare l’esigenza di certezza del diritto.
Essendo, difatti, la Corte di Strasburgo chiamata a risolvere sempre casi particolari e specifici – non essendo previsto un rinvio pregiudiziale del giudice analogo a quello innanzi alla Corte di Giustizia – inseriti in un determinato ordinamento nazionale, le singole applicazioni date alle norme convenzionali non risultano idonee, per la loro struttura, a essere immediatamente tradotte in norme generali e astratte, uniformemente valide per tutti gli Stati.
Inoltre, è la stessa Corte di Strasburgo, pur manifestando una tendenziale continuità con i propri precedenti, che non si ritiene vincolata al rispetto dei propri precedenti e allo stare decisis, da cui si discosta in presenza di convincenti ragioni per farlo, riscontrandosi peraltro spesso nella sua giurisprudenza oscillazioni o incoerenze, a volte evidenziate dagli stessi componenti del collegio nelle dissenting opinions.
Così chiarita la portata che deve annettersi ai principi della CEDU, come interpretati dalla Corte Europea, e procedendo all’esame dei singoli profili di ritenuta violazione di tali principi denunciati da parte ricorrente, ritiene il Collegio – ferma la conformità alla CEDU della scelta legislativa di affidare ad un’autorità amministrativa l’irrogazione di sanzioni, anche di significativa severità, in materia di pratiche commerciali e di concorrenza (Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 settembre 2011, causa 43509/08, Menarini Diagnostics S.r.l v. Italia) – che il procedimento che si svolge innanzi all’Autorità garantisca adeguatamente il principio della parità delle parti, che trova congrua soddisfazione in fase procedimentale, la quale si rivela essere rispettosa delle garanzie del giusto processo nella valenza che alle stesse deve essere attribuita in ambito amministrativo, tenuto anche conto della tutela giurisdizionale accordata avverso le decisioni assunte dall’amministrazione, posto che l’eventuale assenza di adeguate garanzie in sede procedimentale può essere colmata, in via eventuale ed ex post, per come affermato dalla stessa Corte di Strasburgo, da un’effettiva full jurisdiction in sede processuale.
Con specifico riferimento alla denunciata violazione del principio di separazione e di distinzione tra organi accusatori e decisori, incidente sulla garanzia della parità delle parti, articolata da parte ricorrente sul presupposto che il responsabile del procedimento sia un funzionario subordinato al collegio, giova preliminarmente esaminare le pertinenti disposizioni regolamentari.
Prevede il Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette, adottato con delibera dell’Autorità del 15 novembre 2007, n. 17589, che all’avvio del procedimento nonché agli adempimenti per lo svolgimento dell’attività istruttoria provvede il responsabile del procedimento, il quale è individuato nel dirigente preposto all’unità organizzativa competente per materia o altro funzionario dallo stesso incaricato, il quale acquisisce ogni elemento utile alla valutazione della fattispecie e può richiedere informazioni e documenti ad ogni soggetto pubblico o privato.
L’art. 16 del Regolamento stabilisce che il responsabile del procedimento, una volta sufficientemente istruita la pratica, comunica alle parti la data di conclusione della fase istruttoria e indica loro un termine, non inferiore a dieci giorni, entro cui esse possono presentare memorie conclusive o documenti. Conclusa la fase istruttoria, il responsabile del procedimento rimette gli atti al Collegio per l’adozione del provvedimento finale.
Il Regolamento delinea, quindi, due distinti e separati segmenti procedimentali, quello di competenza del responsabile del procedimento, cui è rimesso lo svolgimento della fase istruttoria e l’adozione di tutti i relativi adempimenti, e quello relativo alla fase decisoria, di competenza dell’organo collegiale, di cui non fa parte il responsabile del procedimento e cui gli atti vengono trasmessi ai fini delle conclusive valutazioni.
Venendo in rilievo un procedimento comunque di natura amministrativa, ritiene il Collegio che tale distinzione di competenze e di soggetti consenta di ritenere adeguatamente garantita la previsione convenzionale circa la parità delle parti e della sua declinazione relativa alla distinzione tra organi istruttori e decisori.
L’estraneità del responsabile del procedimento rispetto al collegio e lo svolgimento da parte di questi di una funzione sua propria, distinta sia sul piano procedimentale che su quello organizzatorio da quella del collegio, realizza una sufficiente separazione tale da non consentire di rilevare una violazione, sotto tale profilo, delle garanzie del giusto processo nell’accezione datane dalla Corte Europea.
Non sono, difatti, previste interferenze nell’attività del responsabile del procedimento da parte del collegio, né a quest’ultimo il Regolamento attribuisce poteri di dare istruzioni o di controllo sul primo, il quale agisce in piena autonomia nel corso dell’istruttoria, ferma restando la competenza del collegio ad assumere determinate decisioni in ordine a specifiche questioni, espressamente previste dal Regolamento, anche nel corso dell’istruttoria (quali, ad esempio, l’autorizzazione alle ispezioni ed alle perizie, e l’ordine di sospensione provvisoria della pratica).
Né può ritenersi, per come affermato da parte ricorrente, che essendo il responsabile del procedimento comunque subordinato al collegio ed essendo questo composto dai vertici dell’Autorità, non si realizzerebbe la necessaria distinzione tra le funzioni.
La subordinazione gerarchica, propria dell’assetto del personale di ogni amministrazione, non refluisce di per sé in una commistione di funzioni, altrimenti potendo ritenersi realizzata tale separazione solo ricorrendo a personale esterno all’amministrazione stessa e sulla base di moduli organizzativi che ne garantiscano la totale estraneità.
Né sono automaticamente trasponibili, nella materia che qui occupa, le conclusioni rassegnate dalla Corte di Strasburgo ed invocate da parte ricorrente (Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 giugno 2009, Dubus S.A.v. France), in quanto specificamente riferite al caso concreto ed allo specifico assetto dell’autorità indipendente francese, con riferimento alla quale la Corte ha ritenuto l’assenza di una sufficiente separazione tra organo d’accusa e organo decisorio per essere il primo in posizione sostanzialmente servente rispetto al secondo, che poteva dare istruzioni ed esercitare poteri di controllo di vario tipo, elementi questi non riscontrabili con riferimento al procedimento che si svolge innanzi all’Autorità italiana.
Non va, tuttavia, sottaciuto che ai principi convenzionali sulla separazione tra accusa e difesa l’ordinamento italiano ha dato più puntuale ed incisiva attuazione con riferimento ai procedimenti della Banca d’Italia, della CONSOB e dell’ISVAP (legge n. 262 del 2005, recante la disciplina in materia di tutela del risparmio e dei mercati finanziari), realizzando in modo più compiuto la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie nell’irrogazione delle sanzioni.
Se in chiave evolutiva, sono aperti ampi spazi per rafforzare l’adeguamento del procedimento innanzi all’Autorità ai principi di cui all’Art. 6 della CEDU, alla luce dell’attuale assetto normativo e regolamentare, per le ragioni dianzi illustrate, non risulta ravvisabile la violazione del principio di distinzione tra funzioni ed organi istruttori e decisori nell’ambito di siffatto procedimento, ispirato al modello inquisitorio, capace di incidere negativamente sul principio dell’equo processo e sulla effettività delle prerogative difensive delle parti riconducibili al principio di parità delle armi.
Immune risulta, altresì, il citato Regolamento di procedura dalle censure con cui parte ricorrente lamenta la violazione del principio del contraddittorio, presidiato dall’art. 6 CEDU e dall’art. 27, comma 11, del Codice del Consumo, ai sensi del quale l’Autorità “con proprio regolamento, disciplina la procedura istruttoria, in modo da garantire il contraddittorio, la piena cognizione degli atti e la verbalizzazione”.
In particolare, afferma parte ricorrente come la mancata previsione dell’obbligo, per l’Autorità, di comunicare le risultanze istruttorie e la preclusione per le parti di contribuire alla formazione delle prove in contraddittorio, si porrebbero in violazione della citata disposizione di cui al comma 11 dell’art. 27 del D.Lgs. n. 206 del 2005 e dell’art. 6 della CEDU.
La disamina della censura va condotta alla stregua delle pertinenti disposizioni normative che regolano la scansione procedimentale degli accertamenti in materia di pratiche commerciali scorrette, come recate dall’art. 27 del D.Lgs. n. 206 del 2005 – che a sua volta rinvia all’art. 14, commi 2, 3 e 4 della legge n. 287 del 1990 – e dalle norme del sopra citato Regolamento che, nel prevedere un intenso contraddittorio tra le parti nel corso dell’istruttoria, non stabiliscono, a carico dell’Autorità, alcun onere di previa comunicazione alle parti dei motivi che, in esito all’istruttoria, conducono all’adozione di provvedimenti a loro sfavorevoli.
In particolare, vengono, in rilievo, in proposito, gli artt. 6 e 16 del Regolamento, ai sensi dei quali il procedimento, successivamente alla comunicazione dell’avvio dell’istruttoria, è scandito, laddove il responsabile del procedimento ritenga sufficientemente istruita la pratica, dalla comunicazione alle parti della data di conclusione della fase istruttoria con indicazione di un termine entro il quale le stesse possono presentare memorie conclusive o documenti, rimettendo gli atti, previa acquisizione, ove necessario, del parere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, al Consiglio per l’adozione del provvedimento finale.
La disciplina dettata in materia di pratiche commerciali scorrette, non prevede quindi, alcuna comunicazione dei motivi che condurranno all’adozione di provvedimenti sfavorevoli alla parte, né ai relativi procedimenti di accertamento può ritenersi l’applicabilità delle norme dettate dalla legge n. 241 del 1990 – ostandovi il carattere speciale della disciplina dettata per tale ambito di materia – ivi compresa quella dettata dall’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, che si riferisce ad una diversa tipologia procedimentale, in cui l’avvio del procedimento avviene su istanza della parte volta ad ottenere un provvedimento a sé favorevole, prevedendo, in caso di emersione di motivi ostativi all’accoglimento della stessa, la loro comunicazione al fine di consentire alla parte di formulare le proprie osservazioni, così garantendo un contraddittorio di tipo sostanziale in merito ai profili di rilievo anche in un’ottica di deflazione preventiva di contenzioso, laddove in materia di pratiche commerciali scorrette il procedimento non è volto alla soddisfazione di interessi pretensivi della parte, quanto all’accertamento di profili di illiceità passibili di sanzione.
La natura sanzionatoria del procedimento lo riconduce nell’ambito del quadro dei principi di carattere generale che, per tali procedimenti, si ispira alla necessità della piena garanzia del contraddittorio e del rispetto delle prorogative difensive delle parti, cui non è – all’evidenza – immanente l’obbligo di previa comunicazione degli elementi che, in esito alla compiuta istruttoria, condurranno all’adozione di un provvedimento di accertamento dell’infrazione.
Le esigenze della piena garanzia del contraddittorio e del rispetto delle prorogative difensive delle parti, nei procedimenti che qui occupano, risultano pienamente garantiti alla luce delle specifiche previsioni che ne disciplinano la scansione anche nella parte in cui, contrariamente a quanto avviene per i procedimenti in materia di antitrust, non prevedono la comunicazione delle risultanze istruttorie, e ciò nella considerazione che le norme del regolamento in materia di pratiche commerciali scorrette assicurano comunque, pur non prevedendo gli artt. 6 e 16, a differenza che nel regolamento sulle procedure in materia di tutela della concorrenza, la contestazione delle risultanze istruttorie, una piena garanzia del contraddittorio, riconoscendo alle parti un’ampia facoltà di presentare scritti difensivi e documentazione a supporto delle argomentazioni proposte, sicché il procedimento è del tutto conforme ai principi espressi dall’art. 27, comma 11, del D.Lgs n. 206 del 2005 e dall’art. 6 CEDU e rispondente all’architettura giuridica dei procedimenti sanzionatori.
Il principio del contraddittorio, che si declina nella necessità per le parti del procedimento di poter proficuamente partecipare all’istruttoria ed esercitare le proprie prerogative difensive, trova, difatti, specifica attuazione attraverso, innanzitutto, il previsto obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, in cui vengono indicati i profili in cui si sostanzia la pratica commerciale oggetto di accertamento e gli elementi essenziali utili a consentire al professionista l’individuazione della condotta oggetto di indagine con riguardo ai profili fattuali, nonché il richiamo ai parametri normativi alla cui violazione esse siano astrattamente ascrivibili, con facoltà delle parti di presentare memorie e documenti e di essere sentite in audizione.
Il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa sono, quindi, ampiamente garantiti nell’ambito del procedimento in materia di pratiche commerciali scorrette, caratterizzato da un compiuto sistema partecipativo, nel cui ambito il diritto di difesa dei soggetti coinvolti viene assicurato e concretamente esercitato attraverso una pluralità di strumenti, tra cui la comunicazione di avvio del procedimento, la possibilità di presentare memorie e fornire informazioni, lo strumento dell’audizione, che sono pienamente idonei ad assicurare la tutela dei diritti difensivi delle parti, senza che gli stessi possano ritenersi compromessi per effetto della manca comunicazione, prima dell’adozione del provvedimento finale, delle ragioni allo stesso sottese (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. I – 21 settembre 2009 n. 9083; 11 luglio 2009 n. 5570; 19 giugno 2009 n. 5807; 21 febbraio 2011 n. 1585; 18 gennaio 2011, n. 395; 16 giugno 2011, n. 5391).
Ne consegue che assicurando comunque, le norme del regolamento in materia di pratiche commerciali scorrette, pur non prevedendo gli artt. 6 e 16, a differenza che nel regolamento sulle procedure in materia di tutela della concorrenza, la contestazione delle risultanze istruttorie, una piena garanzia del contraddittorio, riconoscendo alle parti un’ampia facoltà di presentare scritti difensivi e documentazione a supporto delle argomentazioni proposte, laddove nei procedimenti antitrust la previsione della comunicazione delle risultanze istruttorie è da ricondurre alle peculiarità tipiche dei relativi procedimenti, caratterizzati dalla particolare complessità degli accertamenti istruttori, non può ritenersi l’illegittimità del Regolamento di procedura sotto i denunciati profili, neanche avuto riguardo all’art. 6 CEDU, dovendo il perimetro di estensione del diritto di difesa e del contraddittorio essere declinato nella possibilità per le parti di poter proficuamente partecipare all’istruttoria esercitando le proprie prerogative difensive, facoltà queste pienamente garantite nell’ambito del procedimento in questione.
Al riguardo, non meritano condivisione le censure con cui parte ricorrente lamenta la violazione del principio del contraddittorio stante l’acquisizione autonoma degli elementi di prova in fase istruttoria, non essendo invero indispensabile, ai fini del pieno esercizio del contraddittorio, che lo stesso si estenda alla fase di formazione della prova, tenuto conto che viene in rilievo un procedimento di carattere amministrativo nel cui ambito è ampiamente garantito il diritto di accesso delle parti alle prove ed agli elementi acquisiti in via istruttoria, con possibilità di presentare proprie deduzioni in ordine agli stessi e di presentare propri elementi a difesa, e con successiva possibilità di sollecitare il sindacato giurisdizionale in ordine alla sufficienza degli elementi probatori raccolti ed alla congruità e correttezza delle valutazioni espresse con riferimento agli stessi ed in ordine ai fatti accertati, potendo il controllo giurisdizionale supplire ad eventuali carenze procedimentali, per come riconosciuto dalla stessa Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 settembre 2011, causa 43509/08, Menarini Diagnostics S.r.l v. Italia).
Peraltro, avuto riguardo al concreto atteggiarsi della fattispecie, risultano essere stati ampiamente garantiti e concretamente esercitati da parte ricorrente i diritti partecipativi che la disciplina di riferimento riconosce nella misura sopra illustrata, in conformità alle prescrizioni convenzionali nella valenza alle stesse attribuibile nell’ambito dei procedimenti amministrativi sanzionatori.
Con specifico riferimento alla dedotta acquisizione di segnalazioni di consumatori successivamente alla chiusura dell’istruttoria, nessuna violazione del diritto di difesa può ritenersi integrato non avendo l’Autorità assunto tali segnalazioni quali elementi di prova, dalla cui indicazione – essendo le stesse pervenute all’Autorità in via autonoma – non poteva prescindere, annettendo alle stesse valore indicativo della persistenza delle condotte.
Nelle considerazioni che precedono risiedono, quindi, le ragioni dell’infondatezza dei motivi di censura esaminati, dovendo il concreto procedimento confluito nell’adozione della gravata delibera e le stesse previsioni regolamentari ritenersi rispettosi dei parametri invocati quali riferimento normativo.
4 – Esaurita la disamina delle censure che coinvolgono questioni di carattere generale e procedimentale – la cui priorità logica nella trattazione risiede nell’attitudine della loro eventuale fondatezza ad arrestare il giudizio in presenza di vizi radicalmente inficianti l’intero procedimento, e quindi il provvedimento finale, o di elementi che possano sorreggere un incidente di legittimità costituzionale delle norme interposte della CEDU invocate da parte ricorrente – e delibata la loro infondatezza, deve il Collegio indirizzare il sollecitato vaglio giurisdizionale all’esame delle censure con cui parte ricorrente contesta le valutazioni espresse dall’Autorità con riferimento alla prima delle condotte sanzionate, inerente l’inadeguatezza delle informazioni fornite in merito alla garanzia legale biennale di conformità riconosciuta ai consumatori dal Codice del Consumo e le concrete modalità di riconoscimento di tale diritto.
Avverso il giudizio di scorrettezza e di aggressività della pratica formulato dall’Autorità, solleva parte ricorrente censure riconducibili a due distinti filoni argomentativi, l’uno volto ad affermare l’erroneità della portata attribuita dall’Autorità alla previsione normativa circa la garanzia legale – sulla cui base è stata rilevata l’aggressività della pratica stante la ritenuta frapposizione ingiustificata ed emulativa di un ostacolo all’esercizio dei rimedi legali previsti dall’art. 132, comma 2, del Codice del Consumo – e l’altra volta a contestare la sussistenza di elementi di prova idonei a sorreggere il rilievo inerente l’asserito rifiuto della ricorrente a prestare la garanzia legale.
Ai fini della delibazione in ordine alle indicate censure occorre preliminarmente procedere alla ricognizione della disciplina dettata dal Codice del Consumo in merito alla garanzia legale di conformità dei prodotti di consumo riconosciuta ai consumatori, costituendo l’individuazione del contenuto di tale obbligo imprescindibile parametro di riferimento ai fini della verifica della correttezza della pratica commerciale indagata e della sua conformità al dettato normativo, di cui parte ricorrente assume l’errata interpretazione da parte dell’Autorità.
Prevede l’art. 130 del D.Lgs. n. 206 del 2005, nel disciplinare i diritti del consumatore, che “Il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene” e che “In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione (…), ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto (…).
L’art. 132 stabilisce, inoltre, che “Il venditore è responsabile, a norma dell’articolo 130, quando il difetto di conformità si manifesta entro il termine di due anni dalla consegna del bene”, con onere per il consumatore, a pena di decadenza dal diritto, di denunciare il difetto di conformità entro due mesi dalla data di scoperta del difetto, precisando, altresì, al comma 3, che “Salvo prova contraria, si presume che i difetti di conformità che si manifestano entro sei mesi dalla consegna del bene esistessero già a tale data, a meno che tale ipotesi sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.”.
Parte ricorrente, attraverso il ricorso ai principi generali in materia di onere della prova, sostiene che incomberebbe sul consumatore l’onere di provare che il difetto del bene sia imputabile a difetto di conformità, operando l’inversione dell’onere della prova solo per i primi sei mesi dall’acquisto.
Su tale base afferma, quindi, parte ricorrente la correttezza e l’aderenza al dato normativo – invece travisato dall’Autorità – delle precisazioni, rinvenute nella documentazione acquisita dall’Autorità, che fanno riferimento alla presunzione di difetto di conformità per i primi sei mesi, spettando al consumatore, dopo tale periodo, provare che il difetto esistesse al momento della consegna del bene.
Ciò posto, ritiene il Collegio che il diritto alla garanzia legale di conformità debba essere declinato attraverso l’individuazione di un contenuto minimo degli obblighi gravanti sul venditore, da identificarsi, per quanto qui interessa, nell’onere per lo stesso di prendere in consegna il bene a seguito della mera denuncia del difetto di conformità da parte del consumatore, procedendo alla verifica della imputabilità o meno del difetto a vizio di conformità ed effettuando la riparazione o la sostituzione del bene, entro un congruo tempo dalla richiesta, senza addebitare alcuna spesa al consumatore, il quale invece sarà gravato delle relative spese laddove non venga riscontrato un difetto di conformità.
Deve, conseguentemente, ritenersi incompatibile e contrastante con il principio di effettività di tale garanzia il rifiuto del venditore di prendere in consegna il bene al fine di effettuare la diagnosi del malfunzionamento una volta trascorsi i sei mesi dall’acquisto del bene, traducendosi siffatto rifiuto nell’imposizione al consumatore dell’onere di fornire la prova dell’imputabilità del malfunzionamento a difetto di conformità, il che all’evidenza lo sottoporrebbe a spese connesse alla necessità di rivolgersi ad un tecnico, diverso dal venditore, per la diagnosi del malfunzionamento.
Ammettere che il venditore possa rifiutare di prendere in consegna il bene al fine di verificare l’eventuale sussistenza del vizio di conformità si tradurrebbe, invero, nel riconoscimento della piena espansione dei diritti del consumatore connessi alla garanzia legale limitatamente ai primi sei mesi dall’acquisto, facendo ricadere sul consumatore, per il periodo successivo, onerosi oneri, anche economici, connessi all’accertamento della causa del malfunzionamento al fine di poter fruire della garanzia, di durata biennale, svuotandone il relativo contenuto.
Trattasi di impostazione che confligge con la tutela apprestata dal Codice del Consumo a favore del consumatore, in capo al quale è previsto il solo onere di presentare la denuncia di difetto di conformità entro due mesi dalla relativa scoperta, così potendo fruire di uno strumento di tutela agile e completamente gratuito.
Deve, inoltre, rilevarsi che il venditore, a differenza del consumatore, può avvalersi più facilmente di mezzi organizzativi e competenze tecniche che consentono di effettuare la necessaria diagnosi del bene al fine di appurare l’imputabilità del vizio a difetto di conformità o meno, restando il venditore comunque indenne delle spese sostenute per la diagnosi laddove non sia stato riscontrato il difetto di conformità.
Ritiene, quindi, il Collegio che nell’individuazione degli obblighi ricadenti sul venditore, al fine di assicurare l’effettività della garanzia legale di conformità, non possa prescindersi dall’affermazione dell’onere per lo stesso di prendere in consegna il bene di cui il consumatore ha denunciato il difetto di conformità, nell’arco dei due anni dall’acquisto, al fine di verificare la causa del malfunzionamento, tenendo indenne il consumatore da qualsiasi ulteriore adempimento ed onere – diverso da quello delle denuncia – che renda più gravosa la fruizione della garanzia legale, dovendo valorizzarsi, a fini interpretativi delle rispettive posizioni contrattuali, la previsione del diritto del consumatore alla riparazione o alla sostituzione del bene, in caso di difetto di conformità, senza spese.
L’elemento relativo alla gratuità della fruizione della garanzia legale di conformità e del ripristino della conformità risulta, peraltro, ribadito dalla giurisprudenza comunitaria quale carattere essenziale della specifica tutela accordata al consumatore in presenza di vizi di conformità, potendo la soggezione ad oneri finanziari per la fruizione della garanzia costituire elemento dissuasivo dall’esercizio dei propri diritti (Corte di Giustizia, sentenze 16 giugno 2011 n. C-65/09-C-87/09; 17 aprile 2008, n. C-404/06).
Viene valorizzato dalla Corte di Giustizia il riferimento, di cui all’art. 3 della direttiva 1999/44/CE in materia di vendita e di garanzie dei beni di consumo, all’assenza di spese per la fruizione della garanzia di conformità, al fine di evincerne la volontà del legislatore comunitario di rafforzare la tutela del consumatore, affrancandolo da oneri finanziari che potrebbero ostacolare l’esercizio dei diritti allo stesso riconosciuti, giungendo ad affermare l’esclusione, per il venditore, di qualsiasi rivendicazione economica nell’ambito dell’esecuzione dell’obbligo sullo stesso incombente di ripristino della conformità del bene oggetto del contratto.
Conforme a tale ricostruzione dell’ambito di estensione della garanzia legale, volta a garantire un livello elevato di protezione dei consumatori ed una tutela effettiva, risulta, quindi, gravare il venditore dell’onere di prendere in consegna il bene, nel corso dell’intera durata della garanzia, al fine di effettuare la diagnosi, procedendo al ripristino della conformità in presenza di siffatto vizio, essendo il venditore che fornisce un bene non conforme inadempiente rispetto alla corretta esecuzione dell’obbligazione che si è assunto con il contratto di vendita, dovendo quindi lo stesso sopportare le conseguenze di tale inesatta esecuzione del contratto medesimo.
L’espressione ‘senza spesè di cui alla citata direttiva deve, quindi, intendersi riferita a tutti i costi necessari per rendere conformi i beni.
Ne consegue che tale gratuità della fruizione della garanzia legale deve essere assicurata, nell’arco dei due anni, con riferimento a tutti i passaggi ed agli incombenti necessari per farla valere (ivi comprese, significativamente, secondo la citata giurisprudenza comunitaria, le spese di spedizione).
Risulterebbe, pertanto, contrario alla ratio della disciplina di tutela del consumatore onerare quest’ultimo dell’obbligo di fornire la prova dell’imputabilità del vizio a non conformità del bene, il cui assolvimento si tradurrebbe, all’evidenza, in un onere economico per il consumatore.
Tale distribuzione delle obbligazioni tra le parti discende dalla inesatta esecuzione del contratto da parte del venditore, il quale deve farsi carico delle conseguenze della stessa, mirando i diritti riconosciuti al venditore in forza della garanzia di conformità a ristabilire la situazione che si sarebbe verificata in caso di consegna di un bene conforme.
Deve, inoltre, ritenersi riconducibile al principio esecuzione in buona fede del contratto l’onere di leale collaborazione tra il venditore ed il consumatore, ponendo a carico del primo l’onere di individuazione della causa del vizio denunciato dal consumatore, rispondendo a principi di equità gravare di tale onere la parte che ha più facilmente accesso ai mezzi – nella specie di competenze tecniche e di misure organizzative – per l’effettuazione di siffatto accertamento.
Lo stesso Codice del Consumo, all’art. 2, riconosce ai consumatori il diritto alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali, i quali costituiscono precisi e vincolanti criteri interpretativi della disciplina ivi recata.
Sulla base della condotta ricostruzione dei principi e delle finalità della garanzia di conformità, riversare sul consumatore l’onere della prova del difetto di conformità – affrancando in tal modo il venditore dall’onere di prendere in consegna il bene – significherebbe svuotare tale garanzia del suo contenuto minimo nel periodo successivo ai sei mesi dall’acquisto.
Senza pretese di ordine ricostruttivo più generale, può dunque affermarsi che alla luce della disciplina dettata in tema di garanzia legale di conformità, avente carattere speciale rispetto alla generale disciplina codicistica in materia di obbligazioni contrattuali, incombe sul venditore l’onere di prendere in consegna il bene al fine di verificare l’imputabilità del vizio a difetto di conformità, solo così adempiendosi alla prescrizione di gratuita fruibilità della garanzia.
Alla luce di tale interpretazione, volta ad individuare, sotto il profilo sostanziale, il contenuto e la distribuzione delle obbligazioni gravanti sulle parti, il diverso percorso argomentativo-ricostruttivo, adottato da parte ricorrente, che facendo leva sull’elemento relativo alla presunzione di difetto di conformità laddove il vizio si manifesti nei primi sei mesi, giunge a ritenere la sussistenza in capo al consumatore dell’onere di provare, successivamente a tale periodo, il vizio di conformità, seppur astrattamente e giuridicamente ammissibile, si pone in insanabile contrasto con la ratio e le finalità di tutela – effettiva e gratuita – accordata al consumatore dalla speciale disciplina.
Nell’ambito delle possibili interpretazioni della valenza da attribuire alla presunzione, di cui all’art. 132, comma 3, del Codice del Consumo, alla presunzione di difetto di conformità laddove il vizio si manifesti entro i primi sei mesi dall’acquisto, l’opzione – avallata da parte ricorrente – per l’operatività dell’inversione dell’onere della prova successivamente a tale periodo, gravando il consumatore di tale onere già nella fase di presentazione della denuncia al venditore, non risulta percorribile in quanto incompatibile con il contenuto sostanziale della garanzia riconosciuta al consumatore che, in sede stragiudiziale, prevede un meccanismo di fruizione della garanzia di conformità improntato alla massima semplicità, facendo sullo stesso gravare il mero obbligo di presentare denuncia al venditore.
L’onere per il venditore di prendere in consegna il bene al fine di effettuare la diagnosi tecnica, oltre che costituire l’unica variante di senso compatibile con la ratio della tutela, trova conferma nel disposto di cui all’art. 130, comma 9, del Codice del Consumo, laddove si indicano gli ulteriori rimedi – rispetto a quelli in precedenza indicati – che il venditore può offrire dopo la denuncia del difetto di conformità, senza interporre tra tale denuncia e gli obblighi di ripristino della conformità del bene da parte del venditore ulteriori adempimenti, e senza appesantire la denuncia con ulteriori contenuti, quali la prova del difetto di conformità tramite perizie o strumenti equivalenti, in coerenza con la previsione del precedente comma 5, laddove si prescrive che le riparazioni e le sostituzioni devono avvenire senza notevoli inconvenienti per il consumatore.
Pertanto, pur dandosi atto della complessità dell’interpretazione della disciplina dettata in materia di garanzia di conformità e di una sua sistemazione organica, riferita sia ai rapporti contrattuali stragiudiziali che alla materia contenziosa, ritiene il Collegio che ai fini della valutazione della scorrettezza di una pratica commerciale inerente le modalità di applicazione di tale garanzia sia sufficiente individuare il parametro normativo di riferimento nel suo contenuto obbligazionario minimo, in modo da enucleare gli oneri gravanti sul professionista, secondo il canone di diligenza, che assicurino il rispetto della speciale disciplina dettata a tutela dei consumatori e garantiscano l’effettività e pienezza di tale tutela, coerentemente con la ratio della stessa.
Né l’affermazione dell’onere per il venditore di prendere in consegna il bene, nell’arco di due anni dal suo acquisto, la fine di verificare l’imputabilità del difetto, si traduce – per come sostenuto da parte ricorrente nella memoria depositata in data 23 aprile 2012 – nel riconoscimento di una garanzia incondizionatamente dovuta in tale arco temporale, dal momento che l’obbligo di ripristino del bene graverà sul venditore esclusivamente in caso di accertata sussistenza del vizio di conformità, dovendo tenersi distinti i piani inerenti l’onere della prova, valorizzato da parte ricorrente a sostegno della propria tesi, e quello dei corretti rapporti contrattuali, operanti in fase di esecuzione del contratto, il cui corretto adempimento implica la collaborazione del venditore nella fase di accertamento della causa del vizio, senza poter imporre al consumatore, in forza del richiamo al principio dell’onere della prova, incombenti relativi all’allegazione della causa del vizio, che, oltre a rivelare carattere oneroso, in contrasto con la disciplina di riferimento come anche interpretata a livello comunitario, rivestirebbero sicuramente effetto dissuasivo e deterrente rispetto alla realizzazione del diritto alla garanzia legale di conformità.
Non conducono a diverse conclusioni le argomentazioni spese da parte ricorrente anche con riferimento alle linee evolutive espresse dal Parlamento Europeo, non emergendo alcun elemento che con certezza consenta di riferire l’onere della prova circa la causa del vizio e l’efficacia della prevista presunzione al piano sostanziale, anziché a quello processuale.
Ritenuto pertanto, alla luce delle illustrate coordinate interpretative, che il contenuto minimo della garanzia legale di conformità implichi per il venditore di prendere in consegna il bene al fine di verificare l’eventuale riconducibilità del vizio a difetto di conformità per tutta la durata della garanzia legale, ed escluso che possa farsi ricadere sul consumatore, in fase di presentazione della denuncia di conformità, l’onere probatorio di allegazione della causa del vizio – che richiede l’accesso a dati tecnici o ad un’assistenza specializzata, nella più agevole disponibilità del venditore – con riveniente infondatezza delle censure ricorsuali volte a lamentare l’erroneità dell’interpretazione della normativa di riferimento adottata dall’Autorità, occorre verificare se a tale schema comportamentale la società ricorrente si sia attenuta, al fine di delibare in ordine alla legittimità del gravato giudizio di scorrettezza e di aggressività della pratica sanzionata.
Al riguardo, parte ricorrente sostiene l’assenza di elementi di prova idonei a dimostrare il rifiuto di prestare la garanzia legale, che anzi risulterebbe smentito dalle stesse evidenze probatorie raccolte, di cui l’Autorità avrebbe travisato il significato.
Occorre pertanto procedere alla disamina degli elementi, raccolti nel corso della svolta istruttoria, sulla cui base l’Autorità ha formulato il gravato giudizio di scorrettezza ed aggressività della pratica sanzionata, al fine di verificare la fondatezza delle proposte censure, attraverso le quali viene condotto un puntuale vaglio delle evidenze probatorie annettendo alle stesse una valenza diversa da quella suggerita dall’Autorità.
Premessa una breve notazione in ordine ad una certa contraddittorietà nella difesa di parte ricorrente laddove, da un lato, invoca con forza la rispondenza alla normativa di riferimento della collocazione dell’onere della prova a carico del consumatore successivamente ai primi sei mesi dall’acquisto e, dall’altro, afferma di avere comunque preso in consegna i beni a seguito della mera denuncia di difetto di conformità nei due anni, e rilevato come parte ricorrente non abbia sollevato censure, con riferimento alla prima delle pratiche sanzionate, in merito alle modalità di informazione dei consumatori circa la garanzia legale, ritenute inadeguate dall’Autorità, la disamina del Collegio deve essere indirizzata alla verifica della congruità e logicità, rispetto agli elementi acquisiti, del gravato giudizio di scorrettezza e di aggressività della pratica.
Al riguardo, ritiene il Collegio che, alla luce degli elementi raccolti nel corso della svolta istruttoria, emergano chiare evidenze in ordine alla sussistenza di una complessiva strategia commerciale del professionista volta a sottrarsi alle obbligazioni discendenti dalla garanzia legale di conformità, realizzata sia attraverso modalità informative incomplete ed omissive fornite ai consumatori, sia attraverso l’elaborazione di indirizzi volti ad uniformare i comportamenti dei soggetti e del personale a vario titolo chiamati a affrontare richieste di riparazione in garanzia legale.
Si segnala, al riguardo, tra le evidenze più significative – prescindendo da una puntuale analisi di tutti gli elementi probatori raccolti – l’atteggiamento tenuto dal Country Service Manager di Apple Italia – il quale svolge il ruolo di riferimento e di raccordo per le problematiche di assistenza post vendita e customer care con i centri di assistenza autorizzati Apple – che in una email del 16 dicembre 2009 afferma che nel secondo anno il cliente deve dimostrare che il difetto di conformità esisteva dall’inizio.
Le argomentazioni spese da parte ricorrente con riferimento a tale scambio di corrispondenza, di cui se ne afferma l’irrilevanza sull’assunto che trattasi di ripetizione del principio di diritto in base al quale spetta al cliente dimostrare il difetto di conformità, non possono essere condivise e ciò sulla base delle considerazioni dianzi illustrate secondo cui l’estensione del diritto alla garanzia legale di conformità esonera il consumatore, al momento della denuncia, dall’onere di dover provare il vizio di conformità, dovendo questi essere tenuto indenne da oneri economici o da non agevoli adempimenti che possano dissuadere dall’esercizio dei propri diritti, fermo restando che, in caso in cui si accerti la non imputabilità del vizio a difetto di conformità, i relativi oneri e le relative spese ricadranno sul consumatore.
In un documento allegato dalla società ricorrente e da Apple Sales Italia alle proprie memorie del 27 settembre 2011 – contenente le istruzioni denominate “Procedura Operativa Standard” impartite agli operatori del call center ed al personale degli Apple Store – si afferma che è il consumatore a dover dimostrare che il difetto esisteva al momento della consegna, fatta eccezione per la presunzione per i primi 6 mesi, in relazione alla quale il venditore può comunque fornire prova contraria.
Significative sono, inoltre, le indicazioni fornite al call centre di Apple in merito alle informazioni da fornire ai consumatori anche per i casi di prodotti acquistati presso terzi rivenditori, come emergenti dalla email dell’1 febbraio 2007 inviata dal Country Service Manager al Responsabile del supporto al canale retail di Apple Italia, in cui si afferma che il livello del problema della garanzia del secondo anno richiede un intervento a livello europeo per prevenirlo, censurando le informazioni rese dai call centre nell’invitare i consumatori a rivolgersi ai rivenditori, mentre, in una ulteriore email del 15 febbraio 200709 il Country Service Manager di Apple Italia riferisce delle lamentele dei rivenditori circa le informazioni fornite dagli addetti al call center sulla garanzia nel secondo anno, suggerendo – con riferimento al fatto che il cliente pensa di avere il diritto di richiedere la riparazione in garanzia durante il secondo anno – di comunicare agli addetti al call center di evitare di fare riferimento alla garanzia del secondo anno e di rimandare il cliente al rivenditore, in tal modo cercando di ridurre gli effetti della garanzia biennale.
Le email del 12 giugno 2009 e dell’11 settembre 2009 sono significative, seppur nell’ambito di una negoziazione con un gestore telefonico, dell’atteggiamento del professionista volto ad affrancarsi dalle riparazioni dei beni nel secondo anno di vita.
In un’altra email del 18 giugno 2009 viene espressa soddisfazione circa la decisione di un rivenditore di presentare il prodotto con la sola garanzia Apple annuale, così riducendo il rischio di subire la rivalsa in qualità di produttore, prevista dal Codice del Consumo.
A tali elementi – tra i più significativi tra quelli indicati dall’Autorità – si affiancano le numerose segnalazioni dei consumatori e dei rivenditori volte a lamentare le fuorvianti informazioni ricevute dal call centre con riferimento alla garanzia nel secondo anno, alla necessità di fare a proprie spese una perizia, alla mancata copertura della garanzia dopo il primo anno.
Tali segnalazioni – in disparte quelle acquisite successivamente alla chiusura dell’istruttoria – pur non rivestendo valore probante circa la sussistenza della pratica, come correttamente riconosciuto nella gravata delibera, rilevano tuttavia complessivamente quale indice del potenziale pregiudizio discendente dalla condotta sui consumatori e sono state valutate nell’ambito della quantificazione della sanzione.
Ne discende l’irrilevanza del fatto che alcune segnalazioni siano pervenute dopo la chiusura dell’istruttoria, non essendo le stesse state valutate dall’Autorità quali elementi probatori delle condotta, ma solo al fine di apprezzare l’entità del possibile pregiudizio dalla stessa discendente.
Alla luce delle evidenze probatorie raccolte può, quindi, ragionevolmente e fondatamente affermarsi – come correttamente rilevato dall’Autorità – che il professionista abbia posto in essere comportamenti volti a ridurre le richieste di assistenza gratuita oltre il primo anno, ispirando a tale scopo la propria politica commerciale, dovendosi al contempo rilevare come il professionista non abbia allestito una chiara rete informativa circa la garanzia legale biennale e non abbia predisposto una adeguata rete organizzativa per fornire la dovuta assistenza.
Pur non risultando compiutamente provata la circostanza che la società ricorrente abbia in modo generalizzato rifiutato, in concreto, di prendere in consegna i beni una volta decorso il primo anno dall’acquisto al fine di verificare la causa del vizio, non ritiene il Collegio che tale circostanza possa inficiare le conclusioni adottate dall’Autorità in merito alla scorrettezza ed alla aggressività della pratica.
Quanto ai profili di scorrettezza, gli stessi emergono con piena evidenza alla luce delle carenti e fuorvianti informazioni rese dal professionista ai consumatori in merito alla garanzia legale biennale, diffusamente illustrate nella gravata delibera con riferimento, segnatamente, ai “Termini e condizioni di vendita” degli acquisti on line presenti sul sito store.apple.com, in cui nella sezione relativa alla Garanzia Convenzionale Limitata di un anno, viene fornita al consumatore l’informazione relativa alla garanzia convenzionale offerta da Apple della durata di un anno, recando solo un generico richiamo ai diritti riconosciuti dalla legge, senza specificazione del contenuto e della durata della garanzia legale di conformità; nello scontrino consegnato al momento della vendita presso gli Apple Store si trova una sintetica descrizione delle “Condizioni generali di acquisto”, senza alcuna specificazione sulla garanzia legale biennale cui hanno diritto i consumatori fatta eccezione per un generico richiamo ai diritti di cui al D.Lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, unitamente alla specificazione della possibilità di restituzione del prodotto entro 14 giorni dalla data di acquisto; nella pagina internet, nella sezione FAQ si fa riferimento alla garanzia gratuita di un anno; il modulo consegnato per la riparazione del bene non reca alcun riferimento alla garanzia legale biennale di conformità.
Le comunicazioni ai consumatori sono, quindi, caratterizzate da informazioni in materia di garanzia riferite in via assorbente alla garanzia convenzionale di un anno offerta in qualità di produttore, cui si aggiungono solo sommarie indicazioni in merito all’esistenza di altri diritti dei consumatori, mai indicati con precisione e senza alcuna informazione in ordine alla garanzia legale del venditore, al suo contenuto, alla sua durata ed alle modalità per fruirne.
Quanto alla rilevata frapposizione ingiustificata ed emulativa di ostacoli all’esercizio dei rimedi legali previsti dall’art. 132 del Codice del Consumo, ritiene il Collegio che il suo positivo riscontro non richieda la concreta ed incontrovertibile prova di un generale comportamento del professionista volto a rifiutare la denuncia del consumatore e di prendere in consegna il bene al fine di verificare la causa del vizio, essendo sufficiente ad integrare il presupposto di cui all’art. 25, comma 1, lettera d) del Codice del Consumo, la prova in ordine alla sussistenza di una strategia commerciale ed informativa – come realizzata, nel caso di specie, attraverso le istruzioni indirizzate agli operatori del call centre, la Procedura Operativa Standard, il carattere elusivo del materiale informativo, il comportamento tenuto con i rivenditori – volta ad opporre ostacoli all’esercizio dei diritti del consumatore, condizionandone il comportamento al fine di ridurre le richieste di assistenza in garanzia o l’esercizio del diritto di rivalsa, risultando quindi il comportamento del professionista, oltre che posto in violazione degli obblighi informativi sullo stesso gravanti secondo i canoni di correttezza e diligenza, finalizzato alla frapposizione di ostacoli all’esercizio dei diritti derivanti dalla garanzia biennale di conformità da parte del consumatore, come tale sufficiente a ritenere integrata la fattispecie di cui al ricordato art. 25, comma 1, lettera d) del Codice del Consumo.
In tale prospettiva nessun rilievo, idoneo a condurre a diverse conclusioni, può tributarsi alla circostanza, rappresentata da parte ricorrente, circa la significatività – invero solo parziale – dei dati relativi alle riparazioni effettuate negli anni 2010 e 2011, di cui il 95% per prodotti non coperti dalla garanzia di cui all’AppleCare Protection Plan, l’87% per prodotti acquistati nei due anni precedenti con un 75% di casi in cui non vi è stato addebito di spese al cliente.
Posto che da tali dati, come correttamente rilevato dalla difesa erariale, non è evincibile il numero di interventi in assistenza prestati nel secondo anno dall’acquisto né il numero di richieste ricevute, l’ostacolo all’esercizio dei diritti spettanti ai consumatori, per quanto dianzi esposto, va ricondotto al complessivo atteggiamento dissuasivo e fuorviante adottato dal professionista, predisposto a livello di politica commerciale ed attuato – sulla base di sicuri indici – nella fase precedente la richiesta di assistenza, laddove gli obblighi ricadenti sul venditore, nell’ambito della prestazione della garanzia legale, che attengono alla fase di gestione del rapporto di consumo successivo alla consegna del bene e perdurante per l’intera vigenza della garanzia legale, impongono un comportamento lineare, improntato a chiarezza informativa, tale da rendere agevole per il consumatore l’esercizio dei propri diritti, ostacolato dall’impostazione di una strategia commerciale volta a disconoscere tale garanzia per il secondo anno e a ridurre le relative richieste.
Le chiare evidenze circa la sussistenza di tale strategia – come sopra illustrate – formano un quadro probatorio sufficiente a ritenere il carattere aggressivo della pratica sanzionata, con refluente infondatezza della proposte censure, attraverso la cui articolazione non risulta peraltro provata l’affermata prassi del professionista di effettuare la diagnosi tecnica a fronte della denuncia di difetto di conformità, la quale avrebbe potuto depotenziare la valenza di tali evidenze.
Non risulta, inoltre, idoneo ad incrinare la ricostruzione dell’Autorità la mail del 5 febbraio 2007, citata da parte ricorrente, dove, nel precisare che il consumatore deve provare che il difetto esistesse al momento della consegna contattando il venditore e portando il prodotto per una diagnosi presso un centro di assistenza autorizzato Apple o presso un tecnico indipendente, si afferma che gli stessi dovranno redigere un rapporto scritto circa la causa del cattivo funzionamento. La previsione della necessità del rapporto scritto, appare invero rafforzare la richiesta della prova da parte del consumatore, e non appare coerente, soprattutto laddove tale rapporto viene richiesto anche da parte dei centri di assistenza Apple, con la disciplina del Codice del Consumo, ai sensi della quale il consumatore deve solo presentare la denuncia di difetto di conformità, dovendo il venditore prendere in carico il bene al fine di effettuare al diagnosi e la riparazione laddove riscontri un vizio di conformità.
Non è, inoltre, riscontrabile il denunciato vizio secondo cui le evidenze raccolte dall’Autorità riguarderebbero condotte autonome dei rivenditori indipendenti, le quali acquistano rilievo nella misura in cui evidenziano il comportamento tenuto dal professionista con riguardo alla garanzia legale nei confronti dei rivenditori, coinvolti nei rapporti con il professionista e condizionati dalla politica commerciale dello stesso, volta a ridurre le richieste di assistenza per il secondo anno sulla base di una omogenea strategia commerciale.
Nessuna violazione del principio di responsabilità personale per effetto della denunciata illegittima imputazione alla ricorrente delle condotte dei rivenditori è, dunque, riscontrabile, avendo l’Autorità correttamente enucleato, alla luce delle evidenze probatorie raccolte, il ruolo rivestito dalla ricorrente anche nei rapporti con i rivenditori, convergente rispetto alla finalità di contrasto al riconoscimento della garanzia legale per il secondo anno.
Al riguardo, condivisibili risultano le considerazioni espresse dall’Autorità in merito ai comportamenti che Apple ha assunto nei riguardi dei rivenditori affinché tenessero condotte omogenee, rilevando come gli stessi, pur se indipendenti, fossero coinvolti in una pluralità di rapporti con Apple per la vendita e per l’assistenza dei propri prodotti, e in tale contesto soggetti a un sensibile potere di influenza di Apple crescente in funzione del livello di integrazione, ma sempre significativo in ragione della forza commerciale dei propri prodotti e del carattere chiuso dei propri sistemi, rilevando su tale base la sostanziale unitarietà e convergenza di comportamenti (significativa, al riguardo, la email del 17 settembre 2011 in cui il Responsabile del supporto al canale retail conferma l’omogeneità dei comportamenti adottati da Apple Retail Italia, nonché la email del 1° ottobre 2010 in cui si fa riferimento alle modalità di presentazione dei rivenditori Apple Premium Reseller (APR) e della loro naturale funzione di centri di assistenza autorizzati (AASP), al fine di presentare una immagine omogenea al consumatore che effettua una ricerca sul sito di Apple, che attesta il livello di integrazione dei rivenditori autorizzati).
Fermo restando il carattere proprio dei comportamenti imputati alla ricorrente nei suoi rapporti con i rivenditori, le doglianze di parte ricorrente trovano un ulteriore profilo di infondatezza nel principio, più volte affermato dalla Sezione (Tar Lazio, Roma, Sez. I, 9 aprile 2009, n. 3722; 22 marzo 2012 n. 2734) in base al quale non può essere invocata la mancata responsabilità di un professionista per l’attività prestata da soggetti terzi nel suo interesse, rilevando, ai fini dell’imputazione della responsabilità non solo la responsabilità diretta, ma anche il mancato impiego della diligenza ordinariamente pretendibile da parte dell’operatore commerciale con riferimento a condotte di soggetti di cui lo stesso si avvalga – nella fattispecie in esame per la vendita dei propri prodotti e per la prestazione della relativa assistenza, anche con riferimento ai rapporti in regresso – non potendo ammettersi, quale esimente da responsabilità, l’evocazione di un autonomo ambito di operatività in capo ad altri soggetti – coinvolti in una serie di rapporti – quale dirimente argomentazione per escludere qualsivoglia ascrivibilità in capo al professionista per i loro comportamenti, i quali, giova ricordare, risultano condizionati dal comportamento e dagli indirizzi del professionista.
A diversamente ritenere, il ricorso all’opera di rivenditori indipendenti precostituirebbe al professionista una facile esimente da responsabilità per le condotte che egli stesso volesse assumere non direttamente riconducibili al fatto proprio.
Inoltre, il comportamento dei rivenditori, per quanto dianzi illustrato, è fortemente condizionato da quello della società ricorrente, volto a realizzare una sostanziale unitarietà e convergenza di comportamenti di tutta la rete commerciale.
5 – Con una ulteriore serie di censure contesta parte ricorrente le valutazioni espresse dall’Autorità con riferimento alla seconda pratica commerciale sanzionata, concernente le modalità di informazione e di offerta commerciale del servizio di assistenza opzionale e aggiuntiva, a titolo oneroso, denominato Apple Care Protection Plan (APP) – offerto da Apple Sales International sia direttamente e nella rete di Apple Retail Italia che presso tutti i distributori autorizzati – ritenute ingannevoli e non sufficienti ad offrire ai consumatori un quadro informativo adeguato, tale da permettere loro di assumere una consapevole decisione commerciale, e reputate idonee ad indurli in errore nell’acquisto del prodotto APP, in quanto omettono di chiarire in maniera dettagliata i contenuti aggiuntivi rispetto ai diritti spettanti ai consumatori in virtù della garanzia legale biennale.
In particolare, nel rilevare l’Autorità come le comunicazioni commerciali relative al servizio di assistenza APP – operante dalla scadenza del primo anno dall’acquisto di un prodotto Apple – enfatizzino il valore aggiuntivo dello stesso rispetto alla garanzia gratuita offerta da Apple per il primo anno come produttore, omettendo di informare adeguatamente i consumatori sulla garanzia legale biennale, ha ritenuto la condotta gravemente lacunosa e ingannevole in ragione della sostanziale sovrapposizione dei servizi offerti con quelli coperti dalla garanzia legale per il secondo anno dall’acquisto.
A confutazione delle valutazioni espresse dall’Autorità, afferma parte ricorrente la completezza informativa in ordine alla natura aggiuntiva del servizio APP e la non sovrapponibilità di tale servizio rispetto alla garanzia legale biennale, deducendo il travisamento, da parte dell’Autorità, delle evidenze raccolte nel corso del procedimento.
Le censure non meritano favorevole esame.
Essendo il giudizio di scorrettezza della pratica in esame in parte ancorato alla ritenuta – e contestata da parte ricorrente – sovrapposizione sia sostanziale che temporale del servizio aggiuntivo APP con il contenuto della garanzia legale biennale di conformità, ritiene il Collegio di dover preliminarmente indirizzare la propria disamina a tale aspetto, per poi verificare i connessi profili di ingannevolezza ed insufficienza informativa inerenti le modalità informative e di commercializzazione di tale servizio, che in tale sovrapposizione, nella ricostruzione dell’Autorità, trovano in gran parte fondamento, procedendo successivamente al vaglio, alla luce delle censure proposte, della adeguatezza informativa in ordine alla garanzia legale.
In tale direzione, ritiene il Collegio che il programma di assistenza APP, commercializzato a partire dalla scadenza del primo anno dall’acquisto del prodotto, pur offrendo una serie di servizi aggiuntivi ed ulteriori rispetto alla garanzia biennale di conformità – ricomprenda anche prestazioni alla stessa sovrapponibili.
Tra i servizi ulteriori vanno individuati la possibilità di fruizione dell’assistenza in un cero numero di Paesi, il servizio di supporto anche in remoto via telefono o internet per l’utilizzo del mondo integrato Apple e delle varie applicazioni.
Invece, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, non costituisce elemento di differenziazione tra la garanzia legale ed il servizio APP l’assenza dell’onere della prova per il richiedente in ordine alla causa del vizio una volta trascorsi sei mesi dall’acquisto, potendosi al riguardo rinviare a quanto dianzi illustrato circa le obbligazioni ricadenti sul professionista in presenza di denuncia di difetto di conformità.
Una parte importante delle prestazioni contemplate dall’APP si sovrappone, inoltre, con quelle cui ha diritto il consumatore in virtù della garanzia legale biennale, che ricopre qualsiasi difetto non riconducibile ad un danno causato dal consumatore, sulla base della descritta procedura, improntata alla massima semplicità, della denuncia nei due mesi dal manifestarsi del vizio e dalla presa in consegna del prodotto da parte del venditore per verificare la causa del malfunzionamento, effettuando la riparazione o la sostituzione del bene entro un congruo tempo dalla richiesta e senza addebito di spese al consumatore laddove sia riscontrato un vizio di conformità.
La garanzia legale copre, quindi, anche la sostituzione di pezzi, parti e accessori, non essendo previste nell’assistenza dovuta al consumatore in virtù della garanzia legale limitazioni o addebito di costi, né esclusioni di parti o accessori in dotazione.
Può dunque ritenersi condivisibile quanto affermato dall’Autorità in ordine alla sovrapposizione, per un rilevante periodo, dei servizi offerti e prestati a titolo oneroso dalle imprese Apple a una parte delle prestazioni che le medesime imprese – così come gli altri venditori dei prodotti Apple – sono tenute a garantire e fornire ai consumatori per legge, prevedendo il prodotto APP l’acquisto di un servizio di assistenza a partire dalla scadenza del primo anno dall’acquisto di un determinato prodotto Apple, sovrapponendosi temporalmente alla garanzia legale fino alla scadenza del secondo anno dall’acquisto.
Tale sovrapposizione risulta, peraltro, nei “Termini e condizioni” del contratto APP, con cui Apple si obbliga a fornire un servizio consistente in una assistenza tecnica volta a coprire anche “eventuali difetti di materiale e di fabbricazione delle apparecchiature Apple”, nonché dalle comunicazioni (email del 2 aprile 2009 e del 29 aprile 2009) in cui si enfatizza la ricomprensione nel servizio APP della garanzia per l’hardware, la batteria, gli auricolari, il caricatore, i cavi forniti con l’iPhone e i relativi costi di riparazione, dei pezzi di ricambio e della manodopera, che costituiscono in realtà prestazioni coperte anche dalla garanzia legale biennale in caso di difetto di conformità.
Non risulta, invece, adeguatamente comprovato quanto affermato dall’Autorità in ordine alla sovrapponibilità dell’APP con la garanzia legale con riferimento al servizio di supporto tecnico, se non per i primi 90 giorni, profilo questo che tuttavia non è idoneo ad inficiare la complessiva valutazione espressa al riguardo dall’Autorità stante la descritta rilevante sovrapponibilità delle sopra indicate prestazioni.
In ragione della rilevata sovrapponibilità di parte delle prestazioni coperte con il prodotto di assistenza APP con il contenuto della garanzia legale biennale, censurabile risulta, quindi, essere la condotta del professionista laddove, nel materiale informativo e promozionale utilizzato, non specifica quale sia l’effettivo contenuto aggiuntivo del servizio proposto in vendita rispetto ai diritti spettanti per legge ai consumatori, né fornisce informazioni sul contenuto degli stessi.
Quanto a tali aspetti, che possono essere congiuntamente esaminati in quanto entrambi connessi alle concrete modalità informative adottate dal professionista, va evidenziato che sia il sito apple.com – attraverso il quale Apple pubblicizza e vende on line il servizio APP, nonché attraverso il quale informa i terzi venditori e i loro consumatori del contenuto del servizio – cui anche le confezioni del prodotto di assistenza APP fanno rinvio, sia le confezioni stesse, evidenziano come l’assistenza tecnica offerta con il prodotto APP si aggiunge alla garanzia Apple gratuita per il primo anno (così come il servizio di supporto acquistato con il prodotto si aggiunge a quello offerto gratuitamente per i primi 90 giorni), senza nessuna menzione dell’esistenza della garanzia legale biennale a favore del consumatore, fatta salva la generica affermazione che i vantaggi del programma APP si sommano a qualsiasi altro, ivi non specificato, diritto legale garantito dalle leggi di tutela del consumatore, peraltro accessibile, nel sito, solo dopo aver selezionato appositi richiami e link.
Le modalità di presentazione del servizio APP, nel concentrarsi sul contenuto aggiuntivo delle prestazioni rispetto a quanto offerto da Apple come produttore (assistenza tecnica gratuita per il primo anno e servizio di supporto gratuito per i primi 90 giorni dall’acquisto) e nell’omettere di chiarire quali siano i diritti riconosciuti dalla garanzia legale biennale di conformità, risultano quindi gravemente lacunose ed ingannevoli, avuto riguardo alla garanzia legale valida per il secondo anno dall’acquisto, stante la rilevante sovrapponibilità tra i servizi offerti a titolo oneroso con le prestazioni dovute in virtù della garanzia legale.
Tenuto conto dell’onere di diligenza gravante sul professionista e della speciale tutela apprestata a favore del Consumatore – e dell’elevato livello della stessa – non può ritenersi idonea ad incrinare il gravato giudizio di ingannevolezza delle modalità informative adottate dal professionista la mera menzione del carattere aggiuntivo dei servizi APP rispetto ai diritti legali garantiti dalle leggi di tutela dei consumatori, stante la genericità di tale indicazione che peraltro presuppone, in capo ai consumatori, una conoscenza giuridica che di norma non possiedono, aggravando siffatta modalità informativa l’asimmetria informativa che caratterizza i rapporti tra i professionisti ed i consumatori, dai quali non può esigersi un compito di sostanziale supplenza in relazione a fuorvianti od omissive informazioni.
Il riscontro del carattere ingannevole del messaggio va, inoltre, condotto con riferimento al suo contesto complessivo, dovendo al riguardo rilevarsi l’enfasi attribuita al vantaggio del prodotto APP quale servizio che si aggiunge alla garanzia annuale Apple di un anno, operante allo scadere di tale garanzia, inducendo così il consumatore a ritenere l’assenza di qualsivoglia garanzia per il secondo anno.
Il gravato giudizio di scorrettezza della pratica in esame non si traduce, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, nell’imposizione al professionista di un indebito onere informativo ulteriore rispetto a quello asseritamente spettante sulla base del canone di diligenza, asseritamente limitato alla mera avvertenza ai consumatori circa l’esistenza di diritti spettanti in base a norme di legge.
Ed invero, fermo il carattere estremamente generico di tale avvertenza, presente nel materiale informativo inerente il servizio aggiuntivo, la stessa va valutata alla luce del complessivo contesto informativo, in base al quale ai consumatori non vengono fornite adeguate informazioni per poter apprezzare la convenienza dell’acquisto del prodotto APP in relazione ai servizi aggiuntivi che lo stesso offre rispetto alla garanzia legale, venendo indotti ad effettuare una valutazione comparativa solo con riferimento alla garanzia annuale Apple, stante l’assenza di informazioni circa il carattere aggiuntivo dell’assistenza APP rispetto a quella spettante ai consumatori per due anni dall’acquisto in base alla garanzia legale, tenuto conto della rilevata sovrapposizione parziale delle rispettive prestazioni, di cui il consumatore deve essere reso edotto al fine di poter adottare una scelta commerciale consapevole.
Devono parimenti disattendersi le argomentazioni di parte ricorrente volte a rivendicare la libertà di comunicazione e di promozione dei propri prodotti sulla base di autonome scelte di marketing, ponendo il Codice del Consumo precisi vincoli a tale libertà nella misura in cui si riveli idonea ad indurre il consumatore in errore, falsandone il comportamento economico, e sia in contrasto con il livello di diligenza richiesto nella fattispecie concreta.
L’ingannevolezza di una pratica può, difatti, discendere anche dalla sua inadeguatezza a dare compiuta evidenza di tutti gli elementi essenziali che possono influenzare la scelta del consumatore tenuto conto delle modalità di rappresentazione delle informazioni fornite.
Deve, in proposito rilevarsi che una pratica commerciale va esaminata, ai fini del riscontro di profili di ingannevolezza, nella sua interezza alla luce del risalto che viene attribuito ai singoli elementi informativi, le cui concrete modalità di rappresentazione, nelle loro varie combinazioni, nell’enfatizzare taluni elementi e nel non dare adeguata evidenza ad informazioni essenziali, sono idonee a focalizzare la percezione del messaggio, da parte dei consumatori, su aspetti parziali, in tal modo inducendoli in errore quanto alle caratteristiche essenziali di quanto reclamizzato.
L’ingannevolezza di una pratica, sotto lo specifico profilo di omissione informativa, non discende, difatti, solo dalla mancanza di informazioni rilevanti, ma anche dalle modalità grafiche ed espressive con cui gli elementi del prodotto vengono rappresentati, dalle espressioni testuali, dalle stesse modalità di presentazione del prodotto e dalle scelte in ordine all’enfatizzazione di alcuni degli elementi (ex plurimis: TAR Lazio – Roma – Sez. I – 20 gennaio 2010 n. 633; 13 dicembre 2010 n. 36119).
Il contenuto e le modalità di rappresentazione del prodotto vanno quindi rapportate, ai fini del riscontro di profili di eventuale scorrettezza, agli standard di chiarezza, completezza e percepibilità degli elementi rilevanti del prodotto, indispensabili per una scelta consapevole e per evitare che i consumatori siano indotti in errore, nella considerazione che la rappresentazione grafica e testuale dei messaggi, laddove non renda di agevole percezione talune informazioni in quanto rese con scarsa evidenza grafica a fronte della enfatizzazione di altri elementi, ben può essere ricondotta al paradigma normativo delle pratiche commerciali scorrette come finalizzato alla tutela della libertà del consumatore di autodeterminarsi al riparo da ogni possibile influenza, anche indiretta, che possa incidere sulle sue scelte economiche.
L’onere di completezza e chiarezza informativa imposto dalla normativa di settore ai professionisti richiede, in sostanza, alla stregua dello standard di diligenza concretamente pretendibile, che ogni comunicazione rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare ogniqualvolta la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell’offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell’assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato.
Negli illustrati principi risiedono le ragioni dell’irrilevanza della dedotta assenza per il venditore dell’onere di fornire una completa informazione circa la garanzia legale, non venendo in rilievo un siffatto obbligo, quanto il dovere di diligenza, che si declina nella correttezza e completezza informativa, che deve improntare la propria comunicazione commerciale, fuorviante dovendo ritenersi l’avvenuta comparazione del prodotto APP unicamente con la garanzia annuale Apple in quanto inidonea a fornire ai consumatori una chiara ed inequivoca percezione delle caratteristiche del prodotto e della sua convenienza, tenuto conto della sussistenza della garanzia legale una volta decorso il primo anno dall’acquisto del prodotto e scaduta la garanzia annuale Apple.
Inidoneo ad indebolire la portata dell’onere di diligenza gravante sul professionista, nella specie non ottemperato, è il richiamo di parte ricorrente alla disciplina dettata dall’art. 133 del Codice del Consumo per la garanzia convenzionale ed all’art. 6, par. 2, della Direttiva 1999/44/CE, in base ai quali sarebbe richiesto un mero riferimento alla garanzia legale, senza che la stessa debba essere illustrata nei suoi contenuti.
Il livello di dettaglio richiesto dalla citata normativa per la descrizione del contenuto della garanzia convenzionale non costituisce utile elemento ermeneutico da cui evincere l’assenza di analogo grado di dettaglio per la garanzia legale, la cui descrizione è imposta, con riguardo alla fattispecie in esame, non quale adempimento di una precisa prescrizione normativa – la quale si limita a richiederne la menzione – quanto ai fini della corretta informazione dei consumatori in ordine ad un servizio di assistenza che, per la gran parte, si sovrappone con le prestazioni di cui alla garanzia legale, di cui i consumatori non vengono adeguatamente resi edotti, cosicché l’onere informativo che nella specie è stato violato va ricondotto alle concrete modalità informative e di commercializzazione del prodotto APP, che avrebbero richiesto una più compiuta informazione circa i profili aggiuntivi dell’assistenza APP rispetto a quella coperta dalla garanzia legale, al fine di consentire ai consumatori di meglio comprenderne la convenienza.
Inoltre, la stessa Direttiva 1999/44/CE, al considerando 21, impone la dichiarazione che la garanzia convenzionale lascia impregiudicati i diritti del consumatore previsti dalla legge al fine di evitare che lo stesso sia indotto in errore, dovendo pertanto tale finalità essere in concreto attuata attraverso la graduazione dell’onere informativo e della sua intensità tenuto conto della specifica fattispecie e del complessivo contesto informativo, in modo tale che la mera indicazione della salvezza dei diritti spettanti ai consumatori in virtù della legge non si traduca, a fronte di più dettagliate indicazioni circa la garanzia convenzionale, nell’impossibilità per lo stesso di adottare una scelta commerciale consapevole, come avviene nel caso in esame.
La scorrettezza della pratica si evince, altresì, con evidenza alla luce delle istruzioni volte a promuovere la vendita dell’APP anche da parte dei rivenditori, da cui emerge la chiara volontà di evidenziare la convenienza del prodotto attraverso la consapevole omissione di ogni riferimento alla garanzia legale per il secondo anno, come emergente in modo incontrovertibile dalle evidenze probatorie nel dettaglio indicate nella gravata delibera.
A ben vedere, la condotta del professionista volta alla promozione della vendita dei servizi APP può ricondursi alla complessiva strategia commerciale, comprendente anche la prima delle pratiche sanzionate, in base alla quale, successivamente alla vendita del prodotto, la società tende a sfuggire agli obblighi sulla stessa gravanti in virtù della garanzia legale attraverso la riduzione delle richieste di assistenza in garanzia legale e attraverso l’offerta di un servizio a pagamento, in parte sovrapponibile alla garanzia legale.
Alla luce delle evidenze emergenti dagli elementi raccolti nel corso della svolta istruttoria devono disattendersi le censure con cui parte ricorrente contesta le affermazioni dell’Autorità circa la sostanziale unitarietà e convergenza dei comportamenti dei tre professionisti condannati, ritenendo al riguardo il Collegio la sussistenza di omogeneità delle politiche commerciali poste in essere, coerentemente finalizzate al medesimo obiettivo economico di ridurre i costi per l’assistenza in garanzia legale incrementando la vendita per l’assistenza a pagamento, anche attraverso il condizionamento dei comportamenti dei rivenditori indipendenti di prodotti Apple per mezzo di rapporti di fidelizzazione e di influenza, chiaramente desumibile alla luce delle evidenze probatorie nel dettaglio indicate nella gravata delibera.
È utile, in proposito, richiamare, per la inequivocabile portata probatoria del carattere della condotta sanzionata, la mail del 22 aprile 2010 tra il Country Service Manager ed il Country Field Staff Manager in cui si discute della necessità di validi argomenti per fronteggiare la questione del secondo anno di garanzia e di conseguentemente proporre nel migliore dei modi APP, a tal fine suggerendo “di occuparsi 15 secondi del secondo anno di garanzia e colpire con tutte le armi a nostra disposizione lo sventurato avventore a più riprese finchè non sarà lui chiedere il ProtectionPlan.”
Ancora, nelle email del 27 novembre 2008, del 20 aprile 2009 e del 29 aprile 2009, in cui Apple Italia impone a un rivenditore che aveva richiesto di potersi qualificare come centro di raccolta per l’assistenza Apple, di vendere servizi APP per almeno il 25% dei prodotti Apple venduti.
6 – Sotto un diverso profilo parte ricorrente, nell’affermare la piena autonomia delle società del gruppo Apple sia tra loro che nei rapporti con i rivenditori autorizzati, e ancor più con quelli indipendenti, denuncia l’erroneità delle valutazioni dell’Autorità in ordine ai rispettivi ruoli ed alle corrispondenti responsabilità in quanto basate sull’erronea esistenza di una strategia comune.
Al riguardo, osserva il Collegio come il coinvolgimento e la responsabilità delle tre società sanzionate, appartenenti al gruppo Apple, trova il proprio fondamento nell’omogeneità della strategia commerciale adottata con riferimento ad entrambe le pratiche commerciali.
Il coinvolgimento di dette società deriva, inoltre, dalla inerenza delle pratiche sanzionate con l’oggetto sociale e con le attività svolte da ciascuna di esse.
Difatti, la ricorrente Apple Italia S.r.l., opera come agente in Italia per l’attività di Apple Sales International di commercio e prestazione di servizi di assistenza, consulenza, manutenzione e assistenza post-vendita di prodotti di elettronica, informatica e telecomunicazioni, supportando Apple Sales International sotto il profilo del marketing e nei rapporti con i centri autorizzati Apple.
Apple Retail Italia S.r.l. svolge in Italia, attraverso proprie sedi locali denominate “Apple Store”, attività di commercio e prestazione di servizi di assistenza, consulenza, manutenzione e assistenza post-vendita di prodotti di elettronica, informatica e telecomunicazioni.
Apple Sales International, società di diritto irlandese appartiene al gruppo multinazionale Apple, svolge in Italia, senza una propria stabile organizzazione, attività di commercio e prestazione di servizi di assistenza post-vendita di prodotti di elettronica e informatica.
L’affermata indipendenza ed autonomia delle società, aventi distinti assetti societari, non incrina la convergenza dei loro comportamenti commerciali volti a ridurre le richieste e l’evasione di interventi in garanzia legale dopo il primo anno e a promuovere la vendita del servizio aggiuntivo di assistenza a titolo oneroso APP.
Ferma l’irrilevanza della dedotta circostanza che il call centre sia gestito da Apple Sales e non da Apple Italia – come invece indicato nella gravata delibera – le evidenze raccolte nel corso del procedimento – in parte già dianzi illustrate – consentono di ritenere la sussistenza di una significativa convergenza nei comportamenti dei tre professionisti appartenenti al gruppo Apple sia in relazione alle informazioni fornite ai consumatori sulla garanzia legale al momento delle vendite di prodotti (realizzate attraverso gli Apple Store facenti capo a Apple Retail Italia e l’Apple Store on-line facente capo a Apple Sales International) e di servizi AppleCare Protection Plan (realizzate attraverso gli Apple Store facenti capo a Apple Retail Italia e l’Apple Store on-line facente capo a Apple Sales International, nonché presso altri rivenditori), sia al momento della richiesta di assistenza attraverso il call center e attraverso la rete di centri di assistenza autorizzati (Apple Authorized Service Provider), degli Apple Store e dei rivenditori riconosciuti (Apple Premium Reseller).
Le società sono inoltre coinvolte in un’attività di coordinamento delle politiche commerciali e di marketing, che consente di imputare alle stesse le condotte sanzionate a titolo di concorso nell’illecito, irrilevante essendo che la società ricorrente non abbia alcun rapporto con i consumatori nella commercializzazione e riparazione di prodotti Apple, e ciò in ragione del ruolo, dalla stessa svolto, di supporto di Apple Sales International sotto il profilo del marketing e nei rapporti con i centri autorizzati Apple.
Tale coordinamento delle attività è funzionale al medesimo obiettivo economico perseguito attraverso, come dianzi esposto, la limitazione dei costi sostenuti per l’assistenza in garanzia legale e attraverso l’offerta di un servizio di assistenza a pagamento per il secondo anno dall’acquisto.
Al riguardo, l’email del 17 settembre 2011 del Country Sales Manager Retail di Apple Italia indirizzata all’Account Executive Retail che chiede “qualcuno di voi conosce come si comporta l’ Apple Store nei confronti del secondo anno di garanzia?”, in cui il Responsabile risponde “come noi”, più che rilevare quale indice dell’autonomia tra le società, per come affermato da parte ricorrente, attesta il livello di coordinamento raggiunto dalle stesse nella complessiva strategia commerciale, con conseguente correttezza del loro coinvolgimento nell’illecito a titolo di responsabilità personale in concorso, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 689 del 1981.
Riveste, inoltre, indubbio rilievo ai fini in esame la volontà delle società del gruppo Apple di veicolare una informazione ed un’immagine uniformi dei prodotti venduti attraverso la propria rete, comprensiva dei rivenditori, attraverso il condizionamento delle relative condotte in merito all’assistenza legale ed alla promozione della vendita dell’APP, per cui, la legittimità della scelta di marketing di veicolare una presentazione uniforme dei prodotti, nell’avvalorare la sussistenza di una comune strategia commerciale, non esclude – ed anzi rafforza – il convincimento circa il condizionamento del comportamento dei rivenditori, peraltro soggetti al potere di influenza delle società, anche in ragione della loro forza economica e dell’esclusività del marchio.
Quanto alla dedotta violazione del principio di responsabilità personale sollevata con riferimento alle condotte dei rivenditori, osserva il Collegio che se gli stessi – per come correttamente rilevato dalla ricorrente – sono chiamati a rispondere a titolo di responsabilità personale delle proprie condotte, i rapporti intercorrenti tra le società del gruppo Apple ed i rivenditori ed i centri di assistenza autorizzati rilevano in quanto indici della condotta propria di tali società nell’ambito del potere di influenza esercitato nei confronti dei rivenditori al fine di sollecitare l’adozione di comportamenti uniformi, con conseguente imputazione alle società a titolo personale della responsabilità delle proprie condotte.
Al riguardo, vanno inoltre richiamate le considerazioni dianzi illustrate con riferimento ai criteri di imputazione della responsabilità per il caso in cui il professionista si avvalga dell’opera di terzi.
7 – Con un ultimo ordine di censure, si duole parte ricorrente della illegittimità e del carattere sproporzionato delle sanzioni e degli ordini imposti con la gravata delibera.
La sollecitata richiesta di riduzione delle sanzioni pecuniarie alla stessa comminate, quantificate in € 80.000 per la pratica relativa alla garanzia legale ed in € 100.000 per la pratica relativa al servizio aggiuntivo APP, non può trovare favorevole esame, stante la già rilevata infondatezza degli assunti cui parte ricorrente affida tale richiesta, consistenti nell’affermazione della insussistenza del carattere di aggressività della prima delle pratiche sanzionate, nella mancata dimostrazione del rifiuto di prestare la garanzia legale in mancanza di perizia ed alla mancata dimostrazione delle carenze informative relative al servizio aggiuntivo APP, con riferimento ai quali ritiene il Collegio di poter rinviare a quanto in precedenza rilevato al riguardo.
Parimenti da disattendere sono le argomentazioni con cui parte ricorrente riconduce il denunciato carattere sproporzionato delle sanzioni comminate al legittimo affidamento che avrebbe riposto in ordine alla correttezza delle pratiche in ragione delle preistruttorie avviate in precedenza e conclusesi con l’archiviazione dei procedimenti.
Anche con riguardo a tale profilo devono intendersi richiamate le considerazioni in precedenza espresse, rinviando alle conclusioni rassegnate circa l’assenza dei presupposti idonei ad ingenerare un legittimo affidamento che possa – oltre che riverberarsi sulla legittimità della gravata delibera – incidere in senso riduttivo sulle comminate sanzioni.
Con riferimento all’intervenuta volontaria attuazione delle misure contenute nella proposta di impegni presentata da Apple Retail Italia e da Apple Sales International, riferiti ad entrambe le condotte, non risulta invero dimostrata l’affermata completa cessazione delle pratiche tale da rendere inutili gli ordini imposti con la gravata delibera, tra cui quello di comunicare all’Autorità le iniziative assunte in ottemperanza all’ordine di cessazione delle pratiche sanzionate ed al divieto di ulteriore diffusione e continuazione delle stesse.
In particolare, non risultano comprese in tali impegni le modifiche alla versione cartacea delle condizioni del servizio APP.
Inoltre, se davvero tali pratiche sono cessate a seguito della volontaria attuazione degli impegni da parte delle altre due società del gruppo Apple sanzionate, non sussisterebbe alcuna ragione – e quindi alcun interesse – per la ricorrente di dolersi dell’ordine di comunicare le misure adottate per tale cessazione, rivelandosi a tal fine sufficiente l’allegazione delle misure adottate in attuazione degli impegni.
Va, inoltre, considerato che le prescrizioni di cui alla gravata delibera sono volte a rendere la comunicazione commerciale del professionista conforme alle regole di diligenza nonché di completezza e correttezza informativa, con la conseguenza che l’adozione, da parte ricorrente, delle iniziative volte al ripristino della corretta e completa informazione costituisce corretto assolvimento dei propri obblighi informativi e contrattuali, a tutela dei diritti dei consumatori.
Ancora, la volontaria attuazione degli impegni non è idonea ad integrare gli estremi del ravvedimento operoso – che possa assumere valenza attenuante, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 689 del 1981- non conseguendo da tale attuazione alcuna eliminazione dei danni provocati o attenuazione delle conseguenze della violazione.
Nessuno degli argomenti di censura sollevati da parte ricorrente avverso il contenuto sanzionatorio della gravata delibera risulta, quindi, meritevole di favorevole esame ai fini del riscontro di profili di illegittimità delle valutazioni che hanno condotto alla determinazione delle sanzioni, neanche al fine di disporre la riduzione delle stesse.
8 – In conclusione, stante la rilevata infondatezza delle censure proposte, il ricorso in esame deve essere rigettato.
9 – Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
– Roma – Sezione Prima
definitivamente pronunciando sul ricorso N. 1515/2012 R.G., come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna parte ricorrente al pagamento, a favore della resistente Amministrazione, delle spese di giudizio, che liquida in complessivi € 5.000,00 (cinquemila), compensandole nei confronti dell’Associazione Altroconsumo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2012 con l’intervento dei magistrati:
(omissis)

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