Cassazione penale, sez. V, 7 febbraio 2008, n. 9075
Il delitto di violenza privata, previsto e punito dall’art. 610 c.p., apre nella sistematica del codice la breve serie dei delitti contro la “libertà morale”, completata da sole altre tre ipotesi delittuose (violenza o minaccia per costringere taluno a commettere un reato, minaccia, stato di incapacità procurato mediante violenza).
Il bene giuridico protetto dalla norma è la libertà morale nel senso di libertà di autodeterminazione per cui viene punita la condotta di “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”.
Oltre l’apparente semplicità della norma è proprio la portata della condotta come sopra descritta ad aver suscitato i maggiori problemi interpretativi, in dottrina come in giurisprudenza, ed in particolare per quanto attiene alla qualificazione dei concetti di violenza e minaccia ivi richiamati.
Nella pronuncia in esame i giudici della S.C. hanno esteso la nozione di minaccia oltre lo schema tipo per cui la condotta posta in essere dal soggetto attivo del reato si sostanzia nella prospettazione di un male ingiusto quale alternativa alla mancata sottoposizione alla propria volontà da parte del soggetto passivo.
Il comportamento minaccioso, ai fini del reato di violenza privata, va piuttosto ravvisato in qualsiasi comportamento ed atteggiamento intimidatorio, purché idoneo ad eliminare o ridurre in modo apprezzabile la capacità del soggetto passivo di determinarsi ed agire secondo la propria indipendente volontà, senza che occorra una minaccia verbale ed esplicita.
Sulla scorta di tale principio sono suscettibili di integrare la fattispecie delittuosa comportamenti di per sé non minacciosi quali le espressioni ingiuriose, l’andare in escandescenze, il modo incivile di esprimersi a condizione che, in ragione delle speciali condizioni ambientali e personali delle parti, rimanga impressionata la psiche di una di esse e costretta la sua volontà.
Cassazione penale, sez. V, 7 febbraio 2008, n. 9075