Corte Costituzionale, 16 luglio 2024, n. 128
Tutela reintegratoria anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: illegittimo l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.
Con la sentenza n. 128 del 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 per contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost. nella parte in cui non prevede che si applichi la tutela reintegratoria attenuata anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto organizzativo posto dal datore a fondamento del recesso datoriale (fatto peraltro non sindacabile nel merito). Ciò in quanto la previsione di una sanzione esclusivamente indennitaria creerebbe una irragionevole differenziazione di trattamento rispetto alla parallela e omogenea ipotesi del licenziamento disciplinare.
La disposizione censurata è stata introdotta in attuazione della legge di delega 10 dicembre 2014, n. 183 cosiddetto Jobs Act, che, all’art. 1, comma 7, lettera c), prevedeva, come criterio direttivo, che il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato avrebbe dovuto essere limitato «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», con esclusione quindi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Secondo la Corte a fronte di fattispecie più gravi di licenziamento illegittimo (come quello nullo, discriminatorio o fondato su un ‟fatto insussistente”) per cui è prevista la reintegrazione del lavoratore, lasciare la possibilità per il datore di lavoro di intimare un licenziamento con una tutela solo indennitaria per il lavoratore che lo subisce - apre una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento.
Nella misura in cui è possibile per il datore di lavoro estromettere il prestatore dal posto di lavoro solo allegando un fatto materiale insussistente e qualificandolo come ragione d’impresa, la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggirabile ad libitum dal datore di lavoro, seppur a fronte del “costo” della compensazione indennitaria.
Il recesso datoriale offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro, sia quella di ragione d’impresa sia quella di addebito disciplinare.
Il licenziamento fondato su fatto insussistente, allegato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è, nella sostanza, un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio (che è viziato da un motivo, appunto, discriminatorio).
La pretestuosità di un tale licenziamento può anche celare, nella realtà dei casi, una discriminazione, che, se provata dal lavoratore, renderebbe applicabile la più estesa tutela reintegratoria piena di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
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Corte Costituzionale, 16 luglio 2024, n. 128