Cassazione civile, sez. II, 4 giugno 2025, n. 14967
Lo studio professionale associato, pur privo di personalità giuridica, può stare in giudizio tramite i suoi componenti
Lo studio professionale associato, sebbene privo di personalità giuridica, rientra a pieno titolo nel novero di quei fenomeni di aggregazione di interessi cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici, dotati di capacità di stare in giudizio in persona dei loro componenti o di chi ne abbia la legale rappresentanza secondo l’art. 36 cod. civ. (Cass., Sez. 1, 10/4/2018, n. 8768Cass., Sez. 3, 13/04/2007, n. 8853), fermo restando che il suddetto studio professionale associato non può legittimamente sostituirsi ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela, ove si tratti di prestazioni per l’espletamento delle quali la legge richiede particolari titoli di abilitazione di cui soltanto il singolo può essere in possesso (Cass., Sez. 1, 28/07/2010, n. 17683).
Ciò comporta che non vi siano astrattamente ostacoli all’ammissibilità del ricorso proposto da uno studio associato, né che possa essere ad esso negata, in termini generali, la capacità di essere titolare di diritti ed obblighi, né, di conseguenza, la capacità di stare in giudizio per quanto attiene a tali diritti ed a tali obblighi (in questi termini, Cass., Sez. 1, 23/05/1997, n. 4628), essendone riconosciuta dalla legge la configurabilità (sia pure a determinate condizioni e in determinate forme).
Pertanto, i dubbi in ordine alla legittimazione sostanziale di uno studio legale associato a far valere un credito che (in quanto derivante da attività professionale) appare riferibile piuttosto al singolo professionista associato, non possono che essere risolti secondo i principi generali, in virtù dei quali occorre distinguere tra legittimazione al processo, riferita alla prospettazione contenuta nella domanda (l’attore deve infatti affermare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio), e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione, riguardante, invece, la fondatezza, nel merito, della causa (Cass., Sez. U, 16/2/2016, n. 2951; Cass., Sez. 3, 18/07/2016, n. 14652; Cass., 21/07/2016, n. 15037; Cass., Sez. 6 - 3, 24/09/2018, n. 22525).
Soltanto la carenza di legittimazione ad agire può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, senza che ciò ponga problemi probatori, atteso che, in siffatti casi, si ragiona sulla base della domanda e della prospettazione in essa contenuta, mentre la titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento costitutivo della domanda, che può consistere in meri fatti o in fatti-diritto e che deve essere allegato e provato, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto (Cass., Sez. U, 16/2/2016, n. 2951).
Orbene, nel caso in cui la parte abbia mancato di fornire la prova della legitimatio ad causam, soccorre il disposto di cui all’art. 182, cod. proc. civ., il quale, finalizzato al controllo della regolare costituzione delle parti, stabilisce, nella versione ratione temporis applicabile, che “il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti, invitandole a completare o mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi” (primo comma) e, ove rilevi “un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione..., assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza...”, la cui osservanza “sana i vizi”.
La suddetta disposizione, in quanto collocata nel libro primo del codice di rito, ha portata di regola generale e non deroga, perciò, ad alcun diverso principio, sicché, non avendo natura eccezionale (contrariamente a quanto ipotizzato da una voce di dottrina), se ne deve ammettere l’interpretazione estensiva come l’applicazione analogica, la quale è ipotizzabile anche nel caso in cui la parte abbia mancato di fornire la prova della legitimatio ad causam, sebbene la stessa sia stata prospettata in modo coerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, sicché il giudice, anche in siffatti casi, è tenuto a concedere un termine per regolarizzare la costituzione in giudizio (Cass., Sez. 2, 17/6/2014, n. 13711; Cass., Sez. 3, 16/11/2020, n. 25869, che ha escluso l’applicazione dell’art. 182 in un caso in cui non veniva in rilievo la mancata dimostrazione della legittimazione spesa nell’atto di appello, ma l’inesistenza di tale legittimazione, per come univocamente prospettata nell’atto di gravame, in sé e già in astratto considerata).
Massima tratta da: Estratto della sentenza
Cassazione civile, sez. II, 4 giugno 2025, n. 14967