Cassazione civile, sez. unite, 18 maggio 2025, n. 13200
Diffamazione a mezzo stampa ed erronea attribuzione della qualità di imputato anziché di indagato.
Confondere la qualità di indagato con quella di imputato può comportare il rischio di una condanna per diffamazione ed al risarcimento del danno. Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, pronunciandosi su questione di particolare importanza – nonché oggetto di contrasto tra la giurisprudenza delle Sezioni civili e penali della Corte – hanno affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori”.
L’erronea rappresentazione della falsa posizione di imputato anziché di indagato, attraverso l’evocazione della richiesta di rinvio a giudizio piuttosto che dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, costituisce una rappresentazione distorta della notizia nel suo contenuto informativo essenziale e pertanto ha carattere diffamatorio.
La differenza, in termini giuridici, che sussiste tra i due status è significativa, riverberandosi sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato.
Nell’ambito delle indagini preliminari, l’addebito contestato dagli inquirenti nei confronti della persona sottoposta alle indagini è solo provvisorio, diversamente da ciò che accade nell’ambito del processo, che prende le mosse dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, in cui tale addebito si stabilizza, assurgendo a imputazione, e sulla sua fondatezza dovrà pronunciarsi un giudice terzo ed imparziale.
Questa evidente diversità di posizione è assunta come postulato della scelta compiuta dal legislatore nell’art. 61 c.p.p., di equiparare espressamente l’indagato all’imputato, al fine di consentirgli di accedere, nella sede procedimentale, ai medesimi diritti e alle medesime garanzie riservate a quest’ultimo nella sede processuale, salvo che sia diversamente stabilito.
Essenziale, ai fini che qui specificamente interessano, è anche il momento in cui avviene il mutamento di status che determina la transizione dalla fase procedimentale delle indagini a quella propriamente processuale. Tale snodo si identifica con l’elevazione di una formale imputazione ad opera del pubblico ministero, come risulta dall’art. 60 c.p.p.
Dunque, è la richiesta di rinvio a giudizio, atto con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, a determinare il cambiamento della posizione del prevenuto da indagato a imputato.
In tal guisa, si comprende la rilevanza di sistema della richiesta di rinvio a giudizio nella vicenda giudiziaria, con le fondamentali implicazioni che essa porta con sé, emergendo con chiarezza la profonda differenza tra questo atto e l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ad esso prodromico.
Nonostante la comune derivazione soggettiva dei due atti, entrambi provenienti dalla sfera accusatoria, l’impropria omologazione degli stessi dà luogo ad una infedele riproduzione della vicenda giudiziaria dal punto di vista strutturale e fattuale.
L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, pur sottendendo l’intenzione del pubblico ministero di far evolvere la propria prospettazione accusatoria in una formale imputazione, non necessariamente viene seguita da una richiesta di rinvio a giudizio, in cui tale proposito effettivamente si materializza.
Se è vero che l’esercizio dell’azione penale è preceduto sempre dall’avviso ex art. 415-bis c.p.p., non è parimenti vero che a tale avviso faccia sempre necessariamente seguito l’esercizio dell’azione penale.
La norma, infatti, nello stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di comunicare la conclusione delle indagini preliminari, palesando alla persona sottoposta alle indagini un proposito, ancora solo potenziale, di elevare un addebito formale di responsabilità che determini l’instaurazione nei suoi confronti di un processo penale, non contempla una mera formalità ritualistica, scevra da qualsivoglia pregnanza assiologica.
L’obbligo in esame presenta, invece, una ratio sua propria, che risiede nella garanzia del diritto di difesa della persona attinta dalla vicenda giudiziaria, alla quale è riconosciuta la facoltà di presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle investigazioni difensive, chiedere al pubblico ministero l’espletamento di ulteriori atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di essere sottoposto ad interrogatorio.
Attraverso l’esercizio di queste fondamentali prerogative, il proposito accusatorio potrebbe infrangersi piuttosto che essere perseguito attraverso l’esercizio dell’azione penale. Sicché, fino al momento della richiesta di rinvio a giudizio, l’addebito provvisoriamente contestato all’indagato non ha assunto ancora una consistenza tale da accreditare l’ipotesi accusatoria.
La diversa natura giuridica degli atti, in definitiva, evoca la diversa posizione giuridica del protagonista della vicenda giudiziaria, che non può essere trascurata al fine di valutare la carica diffamatoria del contenuto informativo inesatto.
Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatoria della notizia propalata.
Ne deriva che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti.
Simili inesattezze rendono inevitabilmente la narrazione non aderente al vero, inficiando l’autenticità del dato informativo e distorcendo l’opinione pubblica circa il grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto, al quale la notizia si riferisce, nel reato contestatogli. In tal guisa, viene gettato su di lui un immotivato discredito, compromettendone la reputazione e l’immagine sociale.
La propalazione della notizia trascende la funzione informativa, che dovrebbe giustificarla, pregiudicando anche il diritto della collettività ad un’informazione vera e corretta, in grado di soddisfare il diritto all’informazione nella sua declinazione passiva, inteso come diritto di essere informati.
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Cassazione civile, sez. unite, 18 maggio 2025, n. 13200